Enrico Brizzi racconta il pallone tricolore, dalle sue origini fino al Grande Torino.
Per chi vive il calcio come un’esperienza totale, non come semplice passatempo, l’assenza di partite è un vero e proprio incubo. Riempire le giornate può risultare facile, ma come compensare la carenza di football specialmente per un popolo e una nazione come l’Italia che ne ha fatto, in certi casi, una vera e propria ossessione? Non è possibile nemmeno compensare il calcio guardato con il calcio giocato, salvo per qualche partitella in giardino tra i familiari con cui si condivide lo stesso spazio domestico, o per qualche videogioco.
Si può però provare a farlo immergendosi nella lettura. E un consiglio, in tempi così difficili, è di immergersi proprio nell’unico periodo storico che per intensità e per complessità, può essere paragonato a quello che stiamo vivendo: tra i primi del ‘900 e la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia unita visse il cinquantennio più sanguinoso e controverso della sua ancora breve storia unitaria. E in mezzo ad irredentisti, futuristi, comunisti, socialisti, dannunziani, fascisti, soldati in trincea, partigiani, alleati e tedeschi occupanti, c’era sempre lui: sempre un pallone da calcio.
Non solo letteratura, calcio e ciclismo: Brizzi è un appassionato ed infaticabile camminatore (foto Italia in cammino)
Si deve ad Enrico Brizzi, scrittore divenuto celebre per il fortunatissimo romanzo Jack Frusciante è uscito dal gruppo, l’idea di ricostruire come in una epopea omerica la storia della nascita e dell’affermarsi del meraviglioso giuoco del football, nato Oltremanica più di un secolo e mezza fa. In tre libri vivaci ed appassionanti, a metà tra il romanzo e la cronaca sportiva, tra il resoconto storico e il trattato filosofico, Brizzi ha condensato la storia del nostro calcio, dalle origini fino alla caduta del Grande Torino.
Il meraviglioso giuoco
Si comincia con il primo libro, chiamato Il meraviglioso giuoco e ambientato negli anni compresi tra il 1887 e il 1926. Forse vi susciterà una certa curiosità la disputa tutt’ora irrisolta su chi sia stato il più antico club italiano. La tradizione ci dice che il Genoa, nato il 7 settembre del 1893, possa fregiarsi di questo prestigioso titolo; eppure nel 1887 un ragioniere, Edoardo Bosio, rimasto elettrizzato dal football d’Oltremanica, rientrando a Torino, creò il primo vero sodalizio sportivo calcistico: il Football & Cricket Club Torino. Maglie a righe rosse e nere, colletto bianco e l’immancabile berretto.
Non solo: due anni dopo Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi e futuro esploratore di fama mondiale, fondò una compagine tutta aristocratica, i Nobili Torino, con una maglia a righe gialle e blu. Nel 1891 le due compagini di fusero in un nuovo sodalizio, l’Internazionale Torino, che scelse proprio il Duca degli Abruzzi come presidente ed una casacca granata, in omaggio al più antico club esistente, lo Sheffield F.C. Tra le sue fila un nome spiccava su tutti: Herbert Kilpin, figlio di un macellaio di Nottingham e prossimo fondatore del A.C. Milan.
Se risulta complesso attribuire il titolo del più antico club del nostro calcio, non è opinabile la data del primo campionato di calcio, ufficialmente un quadrangolare svoltosi in una sola giornata, l’8 maggio del 1898, tra Genoa, Internazionale Torino, Football Club Torinese e Reale Società Ginnastica. Quel giorno il Grifone si prese il titolo, inaugurando una serie di tre successi consecutivi.
Una stampa celebrativa dedicata al Grifone del 1914/15
Era un calcio diverso, quello dei pionieri, in cui al professionismo de facto di alcune compagini, Genoa e Milan su tutte, si affiancavano gli irripetibili e straordinari successi di compagini, che rifiutavano di passare compensi sottobanco ai propri giocatori. Prima tra tutte fu la Grande Pro Vercelli, indiscussa dominatrice del calcio italiano nel primo decennio del ‘900 e anche dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Già, la guerra: un vero spartiacque, nella narrazione di Brizzi, tra il calcio pionieristico e quello dei fuoriclasse.
Fu così che dopo le epopee e i successi del Genoa, della Pro Vercelli e del Casale, dopo il brulicare di club in ogni città o paese d’Italia (52 furono le squadre ammesse nell’ultimo campionato italiano prima dello scoppio della Grande Guerra!), dopo le divisioni regionalistiche tra il Nord e il Centro Sud, scoccò l’ora della Serie A. In un’ottica di ristrutturazione, anche ideologica, del calcio come veicolo di propaganda, fu il fascismo a farsi artefice della nascita del campionato italiano a girone unico.
Vincere o morire
Comincia così il secondo capitolo della saga: Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera (1926-1938). Un’epoca ricchissima e straordinaria, così lontana nel tempo e così vicina al cuore. Un’epoca in cui i grandi club conquistarono definitivamente gli Italiani, relegando in una posizione minoritaria le compagini incapaci di competere a livello economico.
Si ricorda il Bologna degli scudetti e re di coppe europee, così come la prima Grande Juventus, che si cuce sulla maglia per cinque volte di fila il tricolore, novità introdotta nel 1926; ancora l’Ambrosiana di Giuseppe Meazza e la Lazio di Silvio Piola, sommo marcatore del nostro campionato e primo eclatante caso di mercato, strappato ad una ormai decaduta Pro Vercelli a peso d’oro.
Vittorio Pozzo alza al cielo la Coppa Rimet del 1938
Infine, gli anni dell’apoteosi di una Nazionale Italiana mai così forte come negli anni ’30. Artefice dei due mondiali consecutivi vinti dagli Azzurri nel 1934 e nel 1938, oltre all’oro olimpico del 1936, fu Vittorio Pozzo, tutt’oggi il Commissario Tecnico più titolato nella storia della nostra nazionale. Qui la cronaca sportiva sembra fondersi con il mito di un ufficiale degli Alpini, in grado di trasmettere ordine e disciplina anche a degli uomini in un campo da calcio. Sembra opportuno citare Brizzi su questo punto:
«Eravamo italiani, diamine! Gente abituata a soffrire, che pensava a non perdere prima che a vincere, e si appagava di un singolo condottiero in mezzo a una moltitudine di contadini e operai. Per ribaltare un’azione avversaria, meglio affidarsi a un buon lancio aereo, che a una fitta, spettacolare ma aleatoria, trama di passaggi rasoterra, come facevano i leziosi Danubiani. I quali, con tutta la loro intelligenza tattica, ci avevano inflitto la disfatta di Caporetto ma la guerra, alla fine, l’avevano perduta. Nasceva così, sulla scorta di confronti con realtà sportive di tutta Europa ed esperienze maturate sotto il fuoco delle mitragliatrici, il “gioco all’italiana”.» (1)
I difensori in trincea, un centromediano come un artigliere per i rilanci, e le mezzali in grado di muoversi fra il centrocampo e le posizioni avanzate come la cavalleria; infine le posizioni d’attacco, gli Arditi, votati unicamente all’assalto. Nacque tra le trincee del Carso e si consacrò in un’apoteosi sportiva il calcio che oggi viene tacciato come troppo tattico, troppo difensivo, troppo attendista, e che invece risulta ancora così solido, così moderno da essere in grado di sbaragliare anche oggi i filosofi del bel gioco.
Nulla al mondo di più bello
Come spesso avviene però, la favola del nostro calcio, di Schiavio e Orsi, di Meazza e Piola, giunge ad un epilogo. E fu un tramonto cruento, tragico, la fine eroica di una vera e propria epoca della nostra storia calcistica. Il trionfo nel mondiale francese del 1938 chiude un’epoca di consolidamento del regime, favorendo un’ accelerazione degli eventi ed il collasso finale dell’intera Europa. Comincia il terzo ed ultimo capitolo di questa trilogia, Nulla al mondo di più bello: Il calcio italiano si trova a fare i conti con la guerra, improvvisamente e per la seconda volta, in un clima ora surreale.
La discesa in campo al fianco della Germania, avvenuta ufficialmente nel 1940, non interrompe le partite, che diventano un veicolo per tenere alto il morale della popolazione. Nonostante le notizie delle sconfitte in Grecia e Nord Africa, gli stadi continuano a riempirsi, anche dopo la perdita dell’agognato impero africano ed i primi, tremendi, bombardamenti alleati sulle città italiane.
Il calcio non si ferma fino al 1943, quando l’8 settembre la nazione collassa. Il regime si sfalda e si ricostruisce, in forme più cruente, in Nord Italia. Comincia la guerra civile, eppure qualcosa sopravvive. Tra il 1943 e la fine della guerra, sorge l’ultima fulgida epopea del calcio italiano delle origini: comincia la storia del Grande Torino.
Valentino Mazzola guida l’ allenamento sul mitico campo del Filadelfia (foto Gazzetta)
Ferruccio Novo, industriale e presidente della società granata dal 1939, consegna inconsapevolmente alla storia un modello di calcio oggi scontato, facendo incetta di campioni in tutta Italia: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar (Martelli), Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola, così recita la leggendaria formazione del Torino per la stagione 1948-1949. I Granata hanno vinto quattro scudetti consecutivi tra il 1942-1943 e il 1947-1948.
Poi l’ultimo tricolore, che consegna questi eroi nazionali all’immortalità, dopo quel tragico 4 maggio a Superga. Al Torino già primo viene consegnato il titolo dopo che l’intera squadra, l’ultima grande compagine italiana degli anni ’30-’40, scompare di colpo. Qualche mese più tardi, a settembre, viene installato un nuovo ripetitore americano nella sede torinese di quella che diventerà la RAI.
Il 3 gennaio del 1954 la RAI comincia il regolare servizio di trasmissioni televisive; così nelle case degli Italiani arrivano il telegiornale, ma anche La domenica sportiva e Tutto il calcio minuto per minuto. Il calcio televisivo segna la fine di un’epoca, quanto e più della fine del Torino degli invincibili:
«Ai tempi della radio, si poteva ascoltare la partita alzando il volume dell’apparecchio e intanto giocare o […] allenarsi a calciare punizioni contro la porta del garage scavalcando sagome artigianali messe a punto dal padre. L’ascolto delle gesta dei campioni […] spronava a far meglio al tempo stesso costringeva a immaginareil grande calcio. La televisione, impudica, avrebbe mostrato ogni cosa, ma soprattutto avrebbe spinto gli aspiranti calciatori – dapprima i più agiati, e via via gli altri – verso la sedia, la poltrona, il divano.» (2)
Privati del calcio televisivo, della moviola, del calciomercato, delle giocate; allo stesso tempo astinenti dalle coreografie spettacolari, dalla sofferenza connessa alla vittoria o alla sconfitta; Orfani della nostra squadra del cuore, possiamo soltanto immaginare. Liberare la fantasia, ancora, come un tempo. La nostra guerra (per citare un altro celebre romanzo di Enrico Brizzi) al Covid-19 passa anche da questo. Il ritorno alla normalità, calcisticamente parlando, passa dal calciare un pallone in giardino dopo aver letto delle gesta dei grandi campioni del passato, quelli narrati dalla penna di Brizzi.
BIBLIOGRAFIA
“ll meraviglioso giuoco. Pionieri ed eroi del calcio in Italia (1887-1926)” di Enrico Brizzi (Roma-Bari, Laterza, 2015).
“Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera (1926-1938)” di E.Brizzi (Roma-Bari, Laterza, 2016). Nota (1)
“Nulla al mondo di più bello. L’epopea del calcio italiano fra guerra e pace (1938-1950)” di E.Brizzi (Roma-Bari, Laterza, 2018). Nota (2)
Intervista alla redazione di ciclismo con poche news e nessuna classifica, senza ricerca del virale né richiamo dell’hype. "Un posto per storie e visioni, per raccontare di biciclette senza scadenze fisse, ma soltanto quando vien voglia di un sorso fresco. Per la sete, o anche solo per il gusto".