I repubblicani e il football: un rapporto da sempre complicato.
Tutto ha avuto inizio con Usa 94, il Mondiale voluto e promosso da Henry Kissinger, che aveva dimostrato come negli States ci fosse sempre posto per nuove opportunità di fare soldi. Chi l’ha vissuta, almeno da spettatore, non può aver dimenticato quell’estate torrida tra Foxborough e Pasadena, Stanford ed East Rutherford. Quaranta gradi all’ombra, umidità bestiale e partite giocate a mezzogiorno per obblighi televisivi.
Oggi la MLS è un campionato vero e la nazionale Usa non domina solo nel calcio femminile, ma cresce anche a livello maschile. Nel 1994, al contrario, il soccer non aveva ancora attecchito da quelle parti: il New York Times lo definiva uno sport “da asini” giocato perlopiù a livello scolastico o semiprofessionistico. Gli stadi del torneo, secondo molti, sarebbero stati riempiti solo da “chicanos” messicani e dai figli degli immigrati irlandesi. E per fortuna che l’Inghilterra non si era qualificata, così almeno si erano risparmiati gli hooligans: facevano talmente paura che un agente travestito da ultras di sua Maestà era stato ucciso da un collega durante un’esercitazione.
I “veri” americani avevano altri interessi, tanto che ancora a maggio l’80% del Paese non aveva idea che di lì a poco sarebbe cominciato un Mondiale. Il calcio era roba da mamme liberal dei sobborghi troppo apprensive, le iconiche “soccer moms”. Uno sport per ragazzini debolucci, da giocare in squadre miste con le ragazze. Chissà perché, allora, Usa 94 aveva frantumato tutti i precedenti record d’incassi.
L’americano medio, bianco, repubblicano e incazzato, da sempre la pensava come Ann Coulter, una delle sue voci più influenti, che ancora nel 2014 parlava dello sport più amato del mondo con toni tra il paradossale e il grottesco. L’opinionista conservatrice, autrice di In Trump we trust, bestseller del “New York Times” a supporto dell’elezione nel 2016 del tycoon newyorkese, rispondeva così a chiunque facesse domande sul soccer:
“La crescita d’interesse verso il calcio è un segno del decadimento morale della Nazione”.
Secondo la sua personale lettura, se sempre più “americani” avevano cominciato a seguire il soccer era solo perché grazie alla legge sull’immigrazione di Teddy Kennedy del 1965 la curva demografica nel Paese si era sbilanciata in favore della componente aliena, molto più predisposta a sport stranieri rispetto ai gloriosi cimenti a stelle e strisce. Tesi senza dubbio apprezzata da suprematisti bianchi, Proud Boys e seguaci di QAnon. Ma forse, vedendo i suoi trascorsi, anche da Trump stesso.
Ala destra di talento e doti fisiche quasi sovrumane, stando ai resoconti di un certo Ted Levine, ex compagno di classe durante gli anni di liceo alla New York Military Academy, l’ex presidente era descritto come un grande appassionato di ogni sport. Poi con il tempo il soccer ha cominciato a perdere punti nella sua personale classifica di preferenze, a vantaggio di discipline molto più “americane”, dal football al wrestling. Fino a quando non ha varcato la soglia dello studio ovale, Trump e il calcio sono riusciti a coesistere nella reciproca indifferenza, ma presto lo spettro del decadente sport d’Albione è riuscito a farsi largo raggiungendo le persone a lui più vicine.
Il primo a soccombere al fascino esotico dell’unico sport che non si gioca con le mani – “e allora a che ci serve il pollice opponibile?” si chiedeva ancora Coulter – era stato l’adolescente sovradimensionato Barron, quintogenito della casata.
Nel 2017, lanciando un guanto di sfida alle convinzioni dei sostenitori del padre, si era fatto paparazzare nei cortili della Casa bianca mentre palleggiava in tenuta Arsenal. Un’immagine che uno si aspetterebbe di vedere al massimo fuori da Buckingham Palace, mai a Washington. Sebbene le movenze del giovane Trump apparissero anche all’occhio più inesperto vagamente legnose, grazie alle connections del daddy gli era bastato poco per trovare posto nelle giovanili della squadra locale, i quadricampioni MLS dei D.C. United allenati da Wayne Rooney. Il che faceva di sua madre Melania una “soccer mum” fatta e finita. L’unica speranza era riesumare il senatore McCarthy.
Il calcio moderno, si sa, è però anche e soprattutto un grande business – altro che potere al popolo – e i repubblicani avranno pure tanti difetti, ma certo sanno come far fruttare un buon investimento. Come detto, Usa 94 era stato un successo in termini di partecipazione e fatturato e da quel momento in poi il seme del soccer era cominciato a germogliare in tutta la nazione, fino a ramificarsi solido in una sequoia di campionato a ventotto squadre in grado di attirare campioni un po’ attempati ma entusiasti come Higuain, Villa, Pirlo e Ibrahimovic.
Senza nessun riguardo per le tempistiche, che prevedono rotazioni scientifiche da un continente all’altro del Paese organizzatore, gli Usa avevano già tentato senza successo di accaparrarsi il Mondiale del 2018 e del 2022. Ma per il 2026 non avrebbero accettato un altro no. C’era però un inghippo: le politiche isolazioniste di Trump, ahiloro, rischiavano di nuovo di far fallire le trattative.
Urgeva tirarlo per la giacchetta e così The Don, già obbligato a casa a seguire partite di calcio, si era dovuto abbassare a scrivere una serie di tre missive al neo presidente Fifa Gianni Infantino per rassicurarlo che no, durante il Mondiale le restrizioni al visto per giocatori, arbitri, dirigenti e tifosi provenienti dai Paesi dell’asse del male – Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria, Yemen, Eritrea, Kirghizistan, Myanmar, Nigeria e Tanzania – non sarebbero state applicate.
Di fronte a cotanta bontà di propositi, le solitamente strettissime maglie del perbenismo Fifa in materia di diritti umani si erano allentate, e a colpi di tweet Trump aveva conquistato il consenso della maggioranza dei Paesi elettori. Poco importa se tra i tanti messaggi lanciati in rete, alcuni avevano assunto contorni vagamente minacciosi, come quando aveva ventilato possibili ritorsioni a chi negava l’appoggio alla candidatura a stelle e strisce. Come l’Italia, tanto per fare un esempio. Persino l’Onu era stato messo in guardia.
Trump sperava che a quel punto quelli che lo avevano spinto a esporsi di nuovo in favore del soccer lo avrebbero lasciato stare – “gli stessi che ci chiedono di amare la serie Girls sulla HBO, i tram, Beyoncé e Hillary Clinton” per usare ancora le parole di Coulter – ma dopo nemmeno un mese dall’assegnazione del Mondiale ecco che il calcio era tornato a insinuarsi nella sua vita. Stavolta nel contesto più imprevedibile.
A Helsinki, in uno di quei summit in cui i leader affrontano a favore di telecamera i grandi temi della politica internazionale, in risposta a una domanda sulla guerra in Siria Trump aveva provato a smarcarsi affermando che la palla era nel campo della Russia, rappresentata nel podio di fianco nientemeno che dal suo partnerVladimir Putin. Chiamato in causa, Vladimir Vladimirovič non aveva raccolto la provocazione e con studiata nonchalance aveva approfittato della scelta lessicale di Trump per farsi dare un pallone da calcio e consegnarlo nelle mani dell’interlocutore.
“Adesso la palla è nel vostro campo” aveva sorriso, congratulandosi per il successo americano nella recente assegnazione del Mondiale.
Trump aveva dovuto sfoggiare uno dei suoi fake plastic smiles più tirati e, dopo aver maneggiato la palla con un certo schifo, se ne era liberato gettandola sgarbato a Melania, seduta in prima fila. “Questo va a Barron! Melania, here we go” aveva cercato di apparire simpatico, confermato dalle risatine del pubblico. Al Pentagono, però, erano molto meno propensi a prendere la cosa alla leggera: quel pallone avrebbe potuto contenere una microspia.
Dotati di microchip, i palloni Adidas dei Mondiali possono monitorare tutto ciò che gli accade, come quando in Qatar hanno sbugiardato CR7 e il suo goffo tentativo di attribuirsi un gol di Bruno Fernandes. Figurati se Putin non aveva nemmeno preso in considerazione la cosa, peccato che tornata negli States con l’Air Force One la palla della discordia fosse sparita, forse custodita in un caveau di Mar-a-Lago assieme agli altri regali fatti negli anni al presidente, incluse la collana d’oro e la veste ornata con pelliccia di ghepardo (si pensa finta) donate dai sauditi. A norma di legge, oggetti di proprietà del governo.
Poi era arrivata la visita del presidente Fifa Gianni Infantino. Alla fine di un dialogo un po’ surreale in cui the Don aveva consigliato addirittura di cominciare a chiamare il calcio soccer a livello mondiale, Infantino gli aveva regalato dei cartellini da arbitro. Dopo essersi fatto spiegare a cosa servissero, aveva cominciato a sventolare quello rosso – in orizzontale – di fronte ai giornalisti. E non era finita qui. Con l’inizio del Mondiale femminile del 2019, in Francia, era iniziata una querelle con le giocatrici della nazionale Usa e il loro co-capitano, Megan Rapinoe.
Dichiaratamente omosessuale e legata al movimento Woke, Rapinoe aveva rifiutato per tutta la manifestazione di alzarsi in piedi al momento dell’esecuzione dell’inno nazionale e Trump, che detestava chi non rispettava l’inno e la bandiera, non si era tenuto. Ne era nata una lite a colpi di tweet e alla fine, quando le ragazze Usa avevano vinto il Mondiale senza ricevere l’invito di prassi alla Casa bianca per celebrare, Trump aveva preferito guardare altrove.
Poi era arrivato il Covid e il calcio era tornato a essere in uno schiocco di dita l’ultima delle preoccupazioni del presidente. Fino a che nell’estate del 2021 il pallone era tornato ad attirare le attenzioni del presidente. La nazionale Usa di Rapinoe aveva perso 3-0 all’esordio delle Olimpiadi di Tokyo contro la Svezia e Trump, durante un convegno a Phoenix, aveva di nuovo tirato in ballo la sua nemesi sportiva:
“Il wokeismo ti fa perdere, ti rovina il cervello e ti peggiora come persona. Ti rende perverso. Un demente. La squadra di calcio femminile degli Stati Uniti è un buon esempio…”.
In un clima di assoluta incertezza politica, di violenza tra fazioni e diffusa xenofobia (problema del quale gli Usa sono storicamente affetti), tra un paio di anni gli Stati Uniti saranno chiamati a eleggere un nuovo presidente; e Trump, malgrado nel Partito crescano voci critiche sulla sua ricandidatura, è in campagna da quando Biden gli ha soffiato lo scranno. In caso riuscisse a tornare presidente, il Mondiale 2026 arriverebbe proprio nel bel mezzo del suo bis alla Casa Bianca. Here we go, America!