Stefanos Tsitsipas sta tenendo fede alla sua fama di nuovo antipatico del tennis mondiale. Antisportivo (come quando esce dal campo per interminabili toilet-break), rissoso, provocatore, casinista, il greco se ne frega di cosa la gente pensa di lui mentre dice e fa tutto ciò che gli passa per la testa. Tante polemiche lo hanno già investito ma lui sembra quasi farlo apposta e, con quell’aria un po’ trasognata, sfida i tabù delle nostre società: prima il vaccino, ma da “ni vax” e senza neanche crederci troppo – mica è Nole; adesso la contestazione all’equal prize money negli Slam tra le donne e gli uomini.
«Non voglio essere controverso o altro, ma c’è anche il tema della parità di retribuzione. Le donne che giocano al meglio dei 3 set e ottengono la stessa retribuzione degli uomini che giocano al meglio dei 5. Ci sono anche molti scienziati e statistici, qualunque cosa, là fuori. Dicono che le donne hanno una resistenza migliore degli uomini. Non lo so…»
Non sia mai! Stefanos, mai sentito parlare di patriarcato? Parole che ovviamente hanno suscitato l’indignazione di buona parte del mondo tennistico, a partire da quello femminile rappresentato innanzitutto da Naomi Osaka, ormai più Chiara Ferragni che Serena Williams, la quale ha dichiarato «vuole giocare 9 set? Se vuole estendere il mio, io propongo lo stesso con il suo», liquidandolo poi con un risolino di superiorità: «He’s so funny». Una reazione matura, non c’è che dire.
Eppure, volendo tornare seri, il tema resta sul tavolo, spesso riemerge, e mostra diversi cortocircuiti. Intanto quello dell’uguaglianza atletica di base: in un’epoca in cui come diceva Chesterton bisogna attizzare fuochi per testimoniare che 2+2 fa 4, e sguainare spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate, chi può avere il coraggio di sostenere pubblicamente che uomini e donne non siano (dal punto di vista atletico) pari? E che gli uomini siano invece più “performanti”? – termine orribile, perdonateci. Sempre dando per scontato ovviamente che sia così: una cosa su cui molti non sono d’accordo, a partire da chi si appella ad “abitudini e trattamenti diversi”, i quali nel corso del tempo hanno dato luogo a una disparità storica e culturale (quindi anche fisica) che invece non avrebbe basi biologico/naturali.
Ma al di là di questo c’è un altra questione. Quella per cui chi propone prize money diversi sarebbe – oltre che un troglodita, maschilista, misogino, retrogrado e via discorrendo – anche un ottenebrato dall’ideologia, nello specifico quella tossica del maschilismo, oppure uno non pienamente consapevole di quello che sta affermando, come Tsitsipas. Eppure sono anni che ci imbevono di criteri economici anche nello sport, unici principi per giudicare la realizzazione di un prodotto: per questo, quando qualcuno fa notare che l’indotto economico generato dagli uomini è molto maggiore di quello generato invece dalle donne, teoricamente non dovrebbe essere trattato alla stregua di un eretico.
Il ragionamento economico d’altronde è molto semplice: se tra sponsor, pubblicità e botteghino un torneo maschile porta 2 e un torneo femminile 1 (per essere cavallereschi), per quale motivo il montepremi dovrebbe essere lo stesso? La verità è che qui sì prevale l’ideologia, quella egualitaria, che va al di là delle leggi di base del mercato (sportivo).
Non è un caso che tutti i maggiori tornei propongano programmi misti, con partite femminili alternate a quelle maschili sui vari campi.
Così il biglietto dello spettatore pagante vale per tutta la giornata e per tutti i match, e i concessionari pubblicitari comprano un unico pacchetto. Al contrario quelle poche eccezioni in cui i tornei sono separati (come l’Open del Canada, nel quale uomini e donne giocano gli uni a Montreal e le altre a Toronto, o il contrario, alternandosi ogni anno) vedono incassi decisamente superiori tra gli uomini che tra le donne. E ovviamente anche il montepremi deve essere tarato su ciò, malgrado gli sforzi dei concessionari: nel 2021 il torneo maschile aveva un montepremi totale di $2.850,975, quello femminile invece di $1,835,490 (e anzi che nel 2019 stavamo a 5.700 milioni vs 2.480 milioni, ben più del doppio). Ma è naturale che sia così.
In un torneo maschile se si sfidano il numero 4 e 5 del mondo si assisterà a Tsitsipas v Zverev, in quello femminile a Sakkari v Sabalenka (per non parlare dei primissimi, di Djokovic, Medvedev, Nadal “opposti” a Swiatek, Krejcikova, Badosa). Ecco quindi che il punto non è tanto quello dei 3 o 5 set – sì, uomini e donne atleticamente sono diversi e hanno bisogno di formule diverse – bensì quello di “mercato”: perché i tornei maschili, in quanto a interesse e ricavi, portano molti più soldi e visibilità di quelli femminili. Come nel calcio, dove la FIFA ha stanziato nel 2018 per il mondiale maschile 400 milioni di euro di montepremi, di cui 38 destinati alla squadra vincitrice (Francia); per quello femminile invece 30 milioni, di cui 4 alla nazionale campione (USA). Neanche il 10%.
Poi certo il tennis non è il calcio: il tennis femminile ha una tradizione non certo inferiore a quello maschile, e il divario tra uomini e donne è qui molto più ridotto.
Eppure c’è, ed è netto. Per questo, al di là della provocazione di Tsitsipas, il tema dell’equal prize money si ripresenta a intervalli di tempo regolari, anche se sempre più silenziato e represso. Ma anche qui, ultima precisazione: non stiamo dicendo che i montepremi debbano essere ripensati, ma solamente evidenziando uno stato di cose, e cercando di difendere il greco dagli attacchi scomposti che gli sono arrivati. Cercando di far capire che l’ideologia non sta in chi fa notare le differenze tra i due mondi, ma in chi pretende di parificarli quando, chiaramente, pari non sono (per questioni fisiche ma soprattutto economiche).
Poi va benissimo che i premi siano uguali, e che a trionfare sulla legge di mercato sia un’ideologia di uguaglianza e parità. Perfetto, non stiamo asserendo qui che sia sbagliato, però bisogna sapere che di ideologia si tratta – la quale trascende il freddo dato economico. E che il tema non può essere liquidato con un semplice sarcasmo di superiorità, come se fosse una rivendicazione ridicola e post-adolescenziale. Anche perché, come insegna la dottrina socialista, la parità di opportunità si misura in uguali condizioni di partenza (accesso alla professione, strutture, stadi, distribuzione e via discorrendo), non – per forza – negli stessi riconoscimenti.