Intervista ad Andrea Scanzi, giornalista e narratore sportivo fuori dagli schemi.
Quella che solitamente viene scambiata per presunzione, in realtà non è altro che un antidoto contro la noia. Stiamo parlando della tuttologia, un “difetto” che Andrea Scanzi non intende limare. Anche perché altrimenti non sarebbe venuta fuori questa chiacchierata ricca di spunti in cui si sono affrontati gli argomenti più diversi: dalla letteratura alla musica, dallo sport al giornalismo, passando anche per la politica.
Vorrei partire dalla tua biografia. A un certo punto si legge che sei stato tra i primi in Italia a credere nella letteratura sportiva. Cosa intendi dire esattamente?
Intendo dire che alla fine degli anni Novanta e all’inizio dei Duemila, parlare di calcio era molto raro se ti riferivi ai libri. Si scriveva di calcio e più in generale di sport sui quotidiani, sulla Gazzetta, su Repubblica, ma avere un’idea romantica, letteraria e narrativa dello sport era ritenuta una cosa di destra o una cosa che non si doveva fare. Io ricordo che un po’ perché c’ho sempre creduto, un po’ perché alcuni giornali credettero in me – per esempio Rigore, un settimanale di calcio e cultura di quattro pagine dove io scrivevo sulla quarta pagina, quella dedicata ai racconti: su Garrincha, Gigi Meroni etc. –, e un po’ il fatto che la prima casa editrice che ha puntato tutto su questo genere letterario, la Limina, era aretina come me, ha fatto sì che io sia stato effettivamente, perché non invento niente, è un dato di fatto, uno dei primi a scrivere libri di sport prima che diventasse una moda. E ne ho scritti di vari argomenti, perché ho scritto di Van Basten, Villeneuve, ho scritto la prima e unica autobiografia di Roberto Baggio, che vendette un botto, e che costituì una sorta di cambio di passo: dopo quel libro ci si rese conto che i libri di sport potevano anche vendere. E da allora, forse anche troppo secondo qualcuno, la letteratura sportiva è divenuta una cosa normale. Che poi adesso ci sono i siti, ci sono i luoghi belli come il vostro, tieni conto che poi io parlo di venti anni fa, quando la rete era molto meno invasiva di adesso… comunque sia, per questi motivi ti dico che, non so se sia un pregio o un difetto, sono stato non il primo, ma tra i primi in Italia a credere che lo sport potesse essere epica, narrativa, letteratura che non c’entrasse niente con la destra e con la sinistra.
Questa sorta di “primogenitura” non ti fa sentire un po’ in sana competizione con Federico Buffa?
No. E ti spiego perché. Me lo chiedono spesso, e mi fa anche sorridere qualcuno che sa che adesso faccio lo spettacolo teatrale e mi dice “Ah, ma allora fai come Buffa”. Allora, mettiamo i puntini sulle i. Io di sport parlo da vent’anni, i miei articoli e racconti su Ali li scrivevo vent’anni fa, come nello stesso periodo più o meno faceva Buffa. Nessuno dei due è arrivato prima o dopo, e di sicuro io non l’ho mai copiato. Ammetto anche di non avere mai avuto Buffa tra le letture o le visioni preferite, ma non perché non mi piaccia, ma perché non mi è mai capitato di imbattermici. Anche perché lui viene dal basket, una materia in cui ammetto la mia ignoranza, e quando ha iniziato a fare il narratore su Sky avrà fatto sicuramente delle belle cose, ma credo di non averlo mai visto, proprio perché non è ancora capitato, non l’ho ancora intercettato. Quindi se qualcuno vuole vederci una sfida tra me e Buffa mi fa piacere perché sicuramente lui è bravo; ma io non l’avverto questa sfida. Nessuno ha copiato l’altro, io di sicuro non ho copiato lui. E se proprio mi chiedi di citarti una persona che nel raccontare lo sport in televisione incontra il mio gusto citerò Giorgio Porrà. Giorgio è una persona che vent’anni fa – a proposito di primogenitura – mi invitò in un programma bellissimo di Tele+, Lo sciagurato Egidio, dove andai nel 2002 a presentare un libro in cui raccontavo anche la triste storia di Lauro Minghelli, un calciatore morto di SLA. Porrà già allora realizzava cose bellissime. Io per caso due giorni fa ho visto su Sky il suo racconto, L’uomo della domenica, dedicato a Luciano Spalletti. E’ stato capace di metterci dentro Montanelli, i Maledetti Toscani di Malaparte… e allora io, che non lo sentivo da sei mesi, gli ho inviato un messaggio: “Giorgio, sei bravissimo.” Lui mi ha ringraziato e credo di poter dire che la stima è reciproca, perché non ha mai nascosto di apprezzare quello che faccio. E lo ringrazio.
In occasione del Premio Nobel assegnato a Dylan lo scorso anno ti sei speso a favore del cantautorato come forma di letteratura vera e propria. Cantautorato che però incontra lo snobismo di certi intellettuali. Secondo te la letteratura sportiva condivide lo stesso destino?
Abbastanza. Mi ricordo che quando scrissi il primo libro tutto mio, che era dedicato a Gilles Villeneuve (Il Piccolo aviatore, 2001), volutamente ogni mio capitolo cominciava con una piccola epigrafe tratta da un cantautore. C’era il capitolo che iniziava con Dylan, il capitolo che iniziava con Gaber, il capitolo che iniziava con Fossati… Quindi sicuramente già allora puntavo molto su questo mix tra sport e musica, soprattutto musica di un certo livello. Anche a teatro, nel mio spettacolo Eroi, faccio questa cosa. Per esempio Ali avrà Peter Gabriel, George Best i Doors etc. E’ vero quello che dici. C’è questa forma di snobismo. La letteratura sportiva è stata sempre ritenuta un ripiego, una cosa deleteria, una letteratura di serie B, una roba di destra, una roba disimpegnata, una roba populista. La stessa cosa la si dice dei fumetti, delle graphic novel, tutte cose che personalmente adoro così come adoro il cantautorato. Secondo me, al di là dello snobismo e dell’atteggiamento settario che assume la critica, che spesso è un atteggiamento di totale ignoranza – molti che hanno criticato Bob Dylan neanche sanno cosa abbia scritto Bob Dylan, così come non hanno mai letto Galeano o Soriano, non hanno mai letto chi ha fatto altissima letteratura applicata allo sport come Arpino in Azzurro tenebra, per esempio –, c’è anche questa idea di dividere i generi letterari in generi di serie A e in generi di serie B: la poesia sarebbe di serie A e il cantautorato di serie B. Non è vero niente. Dipende dalla poesia e dal cantautorato. Esistono dei cantautori che sono stati straordinari: per me De André è poesia, Neil Young è poesia, Gaber e Luporini sono poesia, Arpino in quel libro fa altissima letteratura. Poi, certo, ci sono cantautori che sono pietosi, così come ci sono libri di sport che io non comprerei mai. Ma questo vale per tutto, anche per i romanzi: ci sono romanzi belli come quelli di Vonnegut e romanzi meno belli come quelli di Moccia. Non è l’appartenenza a un genere a determinare automaticamente la bellezza di un’opera.
Locandina dello spettacolo teatrale di Andrea Scanzi, tutto incentrato sull’epica dello sport
Nei tuoi spettacoli e non solo tieni sempre a sottolineare come quella dell’intellettuale rappresenti ormai l’unica figura attualmente capace di formare le coscienze, visto anche il tramonto degli ideali. Ti chiedo se in ambito sportivo il giornalista può elevarsi a tale rango, dal momento che deve misurarsi con un ostacolo in più: il tifo.
E’ faticoso. Il tifo purtroppo c’è in ogni ambito della nostra vita, del nostro Paese e delle nostre competenze. Io scrivo anche di musica, e se tu ti permetti di criticare un musicista ecco che arrivano i tifosi, i fan di quel musicista e ti augurano la morte perché magari hai detto che Ligabue non è Dio. La stessa cosa riguarda la politica, una roba che è diventata ormai solo tifo. Nel calcio, ovviamente, il tifo è dichiarato e quindi è anche peggio. Io dell’intellettuale ho probabilmente un’idea troppo alta. Per me l’intellettuale, come diceva De André, è una sorta di anticorpo della società. E’ qualcuno che rischia, si spende, e fa in maniera tale che, essendo anticorpo, innalzi gli anticorpi di coloro che lo leggono, quindi del popolo. I cittadini, leggendo o ascoltando determinate persone, si formano e hanno la possibilità di difendersi all’interno della società contemporanea. Calando questa figura nel panorama calcistico e sportivo in generale, devo dire che l’immagine dell’intellettuale è un po’ più rara. Ci sono stati degli intellettuali che hanno scritto delle cose bellissime e hanno visto nel calcio una sorta di metafora della vita, in tal senso l’esempio più facile che mi viene in mente è Pier Paolo Pasolini. In altri (e rari) casi puoi avere la fortuna di incontrare quei giornalisti che capiscono che non è mai soltanto calcio, e che quindi hanno tanti rimandi, tante citazioni, che passano dall’alto al basso, penso a Gianni Brera, al miglior Gianni Mura, a Edmondo Berselli, che scriveva delle cose bellissime sul calcio. Ecco, oggi a dirti la verità ne vedo un po’ meno. Perché, come hai detto tu, il calcio e lo sport sono diventati troppo tifo e poca letteratura.
E a volte gli intellettuali ce li avremmo anche, solo che preferiamo accantonarli. E qui mi riallaccio alla battaglia che stai conducendo in favore di Gianni Minà, da te definito un fuoriclasse del giornalismo.
Certo, come no! Anche lui fa parte della ristretta lista che ti ho fatto poc’anzi. Me ne ero stupidamente dimenticato. Lui è veramente un gigante. Sai che il suo ringraziamento, pubblico con il post e privato con la telefonata, mi ha fatto enormemente piacere da un lato, ma dall’altro mi ha messo anche tristezza. Cioè, dobbiamo aspettare nel 2017 che Andrea Scanzi ci ricordi che Gianni Minà è un fenomeno? Minà è ancora vivo. Minà se lo chiami domani ti fa un programma straordinario, su qualsiasi canale. E invece stanno buttando via l’archivio. Se non si ha memoria nemmeno di quei pochi che hanno raccontato lo sport e non solo in maniera straordinaria, dove vogliamo andare? Vatti a rivedere alcune interviste che lui ha fatto a Muhammad Ali o a Maradona, siamo a livelli elevatissimi. Ma di che parliamo? Minà è un fenomeno, non è certo uno qualsiasi!
Da sinistra a destra: Gabriel Garcia Marquez, Sergio Leone, Muhammad Ali, Robert De Niro e Gianni Minà
Che poi tra l’altro ci vuole anche una certa capacità nel fare aprire personaggi così importanti…
E certo. Perché di Minà si fidavano. Mi hai dato l’assist per approfondire un concetto. Questa cosa che gli sportivi sono banali, per carità, è vera – perché parliamo di persone che nella vita hanno fatto solo una cosa e che difficilmente hanno letto un libro –, però ti garantisco che spesso è anche colpa di chi fa le domande. A me è capitato di intervistare persone tipo Rui Costa o Boban – lo so, ti ho citato due esempi di calciatori intellettualmente sopra la media –, però, insomma, qualche settimana fa ho avuto il piacere di intervistare Suso. Bene, io sono convinto che la domanda sulla Catalogna non gliel’ha fatta nessuno, a Suso. E’ chiaro che se tu a Suso ogni volta gli chiedi se si trovi meglio nel 3-5-2 o nel 3-4-3 riceverai da Suso solo risposte noiose. Se tu invece li stimoli di più ti rendi conto che anche gli sportivi hanno qualcosa da raccontare. Mi capitò anche con Valentino Rossi quando facevo l’inviato del motomondiale. E certo che Valentino Rossi ha delle cose da dire, ma se ogni volta gli chiedi del setting della Yamaha è normale che riceverai in cambio risposte banali e noiose.
Anche tu, proprio come Minà e non solo, sei affascinato dalla figura di Muhammad Ali. E’ uno degli Eroi che racconti nel tuo spettacolo, e recentemente hai visitato anche i suoi luoghi. Volevo chiederti se secondo te c’è un po’ di Ali nella presa di posizione degli atleti USA vs Trump e se, più in generale, ormai è da ritenersi superata la distinzione tra sport e politica (si pensi anche al caso della Catalogna).
Allora, penso che Muhammad Ali sia irripetibile. Io sono stato circa un mese fa a casa sua, nei suoi luoghi, ho visitato il suo museo, un edificio di cinque piani, un monumento alla memoria pazzesco. Sono stato ad omaggiare la sua tomba: veramente emozionante. Lui è stato un gigante. Come lui nessuno mai. E lo dico anzitutto come personaggio, perché poi sul piano strettamente pugilistico forse Sugar Ray Robinson è stato anche superiore. Ma in fondo chi se ne frega. Io parlo del suo insieme, della capacità di entrare nell’immaginario collettivo, nella politica e nella storia: nessuno come Ali. Perciò credo che non sia un esempio riproducibile. Ed è chiaro che io ne parli nel mio spettacolo, sarà proprio il racconto di Ali a chiudere Eroi. Quella battaglia a Trump non è paragonabile perché ricordiamoci che Ali disse di no al Vietnam quando era il campione dei pesi massimi: era il ’67, era nero, non ti dico ancora ci fosse l’Apartheid, ma poco meno, soprattutto in certi stati. Lo mandarono in galera, lo squalificarono… insomma, cinquant’anni fa ci volevano due palle così. Trovo però molto positivo quanto si stia vedendo nel basket e nel football americano. Non mi è mai piaciuta, non te lo nascondo, l’omertà che c’è attorno al mondo dello sport, soprattutto al mondo del calcio. Questo dire “sì, ma io di politica non parlo, io non mi schiero” non va bene. Per me a volte bisogna schierarsi. E in America gli sportivi fanno bene a dire a Trump quello che Trump merita di sentirsi dire. Perché Trump è quello che dicono. Io lo trovo un bellissimo gesto. Al tempo stesso, anche se non ho le idee chiare sulla vicenda Catalogna, se non che trovo deplorevole quello che è stato fatto a chi ha votato, le scene delle manganellate sono agghiaccianti, e apprezzo molto Piquè. Una persona che sarebbe disposta a lasciare la nazionale spagnola qualora non fosse accettato per via della sua appartenenza alla Catalogna dimostra coraggio. Preferisco quelli come lui a quei paraculetti che non si espongono mai.
«La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America»
Senti, nei dibattiti politici spesso e volentieri fai leva sulla questione morale di Berlingueriana memoria. Volevo chiederti se secondo te anche in ambito sportivo è lecito pretenderla oppure se, data la difficoltà che hanno a sopravviversi, espressione a te cara, non si può chiedere troppo a certi Eroi dello sport.
Eh no, secondo me bisogna chiederla. Per me la questione morale vale per tutto. E’ chiaro che vale di più in politica. E’ normale che io la questione morale la pretendo da chi legifera sulle nostre vite, da chi scrive le leggi elettorali, da chi ci governa, è ovvio che è un ambito più importante. Però torniamo sempre lì. Quando sento certe interviste… per esempio qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare la dichiarazione che Buffon – che a me piace, lo stimo – rilasciò dopo il famoso gol non dato a Muntari nel 2012 “Non me ne sono accorto, ma se anche me ne fossi accorto col cavolo che lo avrei detto”, lui secondo me dice una cosa sacrosanta dal punto di vista cinico, perché vuol vincere; però secondo me non è un bel messaggio. Anche lì io preferisco quelli che hanno un’idea di sport etica, bella, corretta, sportiva. E in questo senso ci sono degli sport che lo danno per scontato. Per esempio nel tennis è uso comune restituire il punto all’avversario se tu hai visto che la palla che ha tirato lui era dentro, non aspetti nemmeno l’intervento dell’occhio di falco. Nel calcio è molto molto raro che accadano simili gesti. C’è un po’ la cultura dell’importante è vincere, facciamo i furbi, tuffiamoci in area di rigore, se ci basta il pareggio accontentiamoci. A me queste cose non piacciono. So che fanno parte della realtà delle cose, ho giocato a calcio a piccoli livelli anch’io, so cosa si dice nello spogliatoio. Però tutto questo non mi piace. Preferisco quelli che hanno un’idea alta dello sport e quindi anche della morale. Tanto che si parli di calcio, di ciclismo, di basket e così via.
Una battaglia che portate avanti al Fatto è anche quella della libertà dell’informazione. Secondo te anche la stampa sportiva soggiace ai giochi di potere o c’è ancora spazio per il giornalismo sportivo d’inchiesta?
Dipende dal giornalismo e dalla testata. Il giornalismo sportivo ha gli stessi pregi e gli stessi difetti del giornalismo politico. Pensa per esempio al caso Moggi, al caso Calciopoli. Moggi tutti sapevano chi fosse, ma nessuno o pochi hanno parlato. E quei pochi che lo hanno fatto sono stati isolati. Pensa ad alcuni direttori sportivi come Franco Baldini, o allenatori come Zeman , che forse sta ancora pagando per quelle sue dichiarazioni, che in fondo non erano altro che atti di coraggio per cui certo non doveva pagare. Ti ricordi Carlo Petrini e i suoi libri? Ero tra i pochissimi a intervistarlo, a dargli spazio. Diceva verità scomode e per questo lo isolavano. Lo riducevano al silenzio. Adesso non è cambiato assolutamente nulla. Anzi. Oggi, con lo strapotere delle televisioni si sa benissimo che se tu critichi una determinata persona o una determinata squadra, poi quella società te la fa pagare. Pensa anche al caso piccolo piccolo D’Amico-Milan. La D’Amico espresse legittimamente delle perplessità sulla nuova proprietà del Milan e i dirigenti rossoneri non si presentarono nel dopopartita, ci andarono la settimana seguente. Non è normale. Quella cosa lì capita sempre. Perché se tu critichi quel giocatore, quel giocatore non si fa intervistare. Un po’ come avviene con gli esponenti politici: se tu attacchi quel politico poi lui non ti viene in trasmissione e ti fa abbassare lo share. Ed è ovvio che per avere un pensiero libero e per fare delle inchieste serie devi avere un grandissimo coraggio. Ci sono degli esempi. Penso a chi si sta battendo da vent’anni sulla verità per Denis Bergamini, una delle vicende più vergognose di questo Paese, ché ancora non si sa chi abbia ammazzato quel povero ragazzo e per conto di chi: questa storia del suicidio è sempre stata una gigantesca cazzata. Ci sono giornalisti che stanno indagando sulla SLA, che nel calcio sembra avere un’incidenza molto maggiore che in altri contesti. Certo, giornalisti di questo tipo ce ne sono sempre meno. Sono pochi perché quando lo fai devi sapere che verrai isolato, che non ti rilasciano l’accredito per vedere la partita, ti negheranno le interviste. E’ così che ti puniscono. Ormai non c’è più la censura vera e propria, ma ti spingono a non scrivere certe cose perché se le scriverai verrai punito con l’isolamento, e il tuo stesso giornale, il tuo stesso programma, la tua stessa televisione verranno superati dagli altri competitor, dagli altri giornali e dagli altri programmi. Questo è un giochino estremamente perverso tanto nella politica quanto nello sport. A ciò aggiungi quello che è il discrimine chiaro in ogni settore della nostra vita: o sei onesto o sei disonesto. Parlo proprio di noi stessi. E’ chiaro che se tu hai un’idea nobile del giornalismo, sei disposto a rischiare; se sei nato paraculo, farai il paraculo, magari farai più carriera, ma forse quando ti guarderai allo specchio un po’ ti vergognerai.
Un uomo vero in un calcio finto, per riciclare una citazione usata a sproposito
Nella tua seguitissima rubrica sul campionato Ten Talking Points hai definito il Var come una cosa giusta che viene usata male. L’introduzione della tecnologia non è comunque una sconfitta per chi auspicava la nascita di una cultura sportiva che si fondasse (anche) sull’accettazione dell’errore?
Se la metti così può anche essere parzialmente una sconfitta. Io credo che però possano andare di pari passo entrambe le cose: si può far crescere la cultura sportiva e al tempo stesso aiutare l’arbitro a non sbagliare. Io non ho mai detto né mai penserò che la tecnologia debba essere applicata a tutti i contatti, a tutti gli episodi che capitano durante una partita. Se però hai uno strumento che sembra funzionare – quando lo vogliono far funzionare – e che è in grado di stabilire se c’è o meno il rigore o il fuorigioco, o se si sta espellendo la persona sbagliata, che va ad affiancarsi alla già testata goal line technology, beh, queste cose mi sembrano sacrosante. Non credo che dalla loro applicazione derivi una lesione del gioco del calcio o della libertà arbitrale. Lo trovo un passo in avanti. Ed è anche bello che quando il direttore di gara prende una decisione dopo aver visto il Var nessuno protesta. Per esempio, in occasione di Sampdoria-Milan, il Var chiarì che non c’era stato il fallo di mano di Kessié dopo due minuti, e quindi cancellò il rigore che in un primo momento era stato assegnato alla Samp. In quel caso funzionò perfettamente. La Sampdoria, che sul campo si dimostrò molto più forte del Milan vinse comunque la partita, e al contempo i rossoneri vennero privati di un possibile alibi, cioè quello di subire un rigore ingiusto a inizio partita. In altri casi, sicuramente è stato utilizzato male. Vedi Atalanta-Juventus. Il rigore assegnato alla Juve – ma potrei fare anche altri esempi, non me ne frega niente delle squadre coinvolte – non lo puoi dare. Perché anche dopo trenta replay si vedeva che non c’era stato il tocco con il braccio da parte di Petagna. Poi mi puoi dire che c’era il rigore su Higuain, che il fallo di Lichtsteiner è avvenuto troppo tempo prima, ma quel rigore non puoi darlo. Ecco, intendo questo. E’ un mezzo utile che però va usato con parsimonia.
L’immagine di te che rimbalza dalla tv e da tutto quello che fai è quella di una persona competitiva che ama molto se stessa. Volevo chiederti se la cosiddetta “tuttologia”, che alcuni non ti perdonano, è figlia della curiosità, della vanità, della competitività o della necessità che ha il giornalista di oggi di sapere sempre più cose.
Tutto quello che hai detto. Anzitutto curiosità, competitività. La curiosità, perché io mi annoio subito. Stasera per esempio andrò ad Otto e mezzo (l’intervista è stata realizzata giovedì 12 ottobre, ndr) e sono onorato di andarci. Ma se dovessi parlare sempre e solo di politica mi darei fuoco, mi annoierei, lo troverei terrificante. Non credo che la tua vita, come quella di chi ci leggerà, sia fatta solo di una cosa. Abbiamo tutti diversi interessi. Io se parlo solo di una cosa, se studio solo una cosa, mi annoio. Per questo passo da un argomento all’altro. La competitività c’è, perché se io parlo di un argomento lo conosco, altrimenti non ne parlo. Io non parlerò mai di basket perché non ne so nulla, parlerò poco di pallavolo perché ne so pochissimo, non parlerò mai di economia perché non ci capisco niente, e di finanza ci capisco ancora meno. Io parlo di argomenti che conosco. Se vuoi una risposta un po’ narcisa ti dico che io me lo posso permettere, altri no. Perché evidentemente se parlo di musica io conosco la musica, altri no. Dico anche che se io ho il pubblico tanto nel calcio, quanto nel cinema, quanto nella musica evidentemente un po’ competente lo sarò, altrimenti come sbagli ti ammazzano. Ti dico anche questo, che è unito a tutto il resto. Non ritengo la tuttologia un difetto – solo in Italia abbiamo questa idea – , anzi. E’ quella cosa che ti permette di essere divertente, stimolante, originale in qualsiasi argomento. Se tu parli di calcio ma segui solo il calcio i tuoi articoli, i tuoi editoriali saranno di una noia infinita perché parli solo di tecnica, di tattica. Se invece scrivi di sport, ma magari hai letto un libro di Steinbeck, hai ascoltato un disco di John Coltrane, e magari hai visto C’era una volta in America, magari hai bevuto una bella bottiglia di vino… a quel punto puoi fare tante connessioni e diventare stimolante. La bellezza di Brera era che Brera non parlava mai solo di calcio. Ci trovavi tutto, dentro. E così Berselli, così Mura. Io aspiro o cerco di appartenere a quel mondo lì. Se uno vuole da me un’analisi tecnico-tattica e basta si legga delle persone molto più brave di me, tipo Sconcerti. Se invece uno vuole leggere qualcosa che magari lo stimoli, che magari lo diverta, e che magari lo spiazzi, tanto nello sport, quanto nella musica, quanto nella politica, magari leggendo me riceve qualcosa che forse non condividerà, ma che almeno non lo avrà annoiato.
Per concludere, cosa dobbiamo aspettarci dall’iperproduzione scanziana?
L’iperproduzione è effettivamente tale (ride, ndr). Diciamo che l’unico rallentamento sarà legato ai viaggi. Negli ultimi quindici anni ho viaggiato troppo, per cui farò meno presentazioni e meno date teatrali, però spero che quelle poche saranno belle. Per il resto andrò avanti con questo nuovo spettacolo, che ha per ora dieci date, ma che andrà avanti per qualche anno; continuerò a scrivere per il Fatto Quotidiano, ovviamente; andrò un po’ più del solito ad Otto e mezzo; uscirà un mio saggio politico (per ora non posso dire altro) a fine novembre per la casa editrice del Fatto Quotidiano; a maggio uscirà il mio terzo romanzo, stavolta per Rizzoli, e fra tutto questo ci sarà anche l’apertura, a fine ottobre, della TV del Fatto. Che sarà una piattaforma vera e propria in cui ognuno di noi avrà un programma: Marco Travaglio avrà il suo programma, Peter Gomez il suo, e io il mio. Sarà una sorta di Netflix, perdona l’esagerazione (ride, ndr), del Fatto Quotidiano, dove tu ti iscrivi e hai accesso a tutti questi programmi. Ci stiamo lavorando, stanno venendo fuori delle cose molto belle. Ecco, mi sembra che la carne a fuoco sia molta, ti ho citato tanta roba. Altrimenti mi annoio, non posso farci niente. Ah, e a tutto questo devi aggiungere il bisogno che ho di andare in moto. Perché al di là della vita privata, al di là della compagna, se ogni tanto non mi faccio due-trecento chilometri in moto mi spengo. E’ una cosa che almeno una volta al mese devo concedermi. Anche d’inverno.