La Tunisia è la meno araba delle terre arabe, la meno islamica dei feudi di Maometto e la meno francese delle ex colonie transalpine. I tunisini rinnegano di identificarsi in ciò che la Storia ha tramandato loro, trasformandosi a seconda del contesto e talvolta dell’interlocutore. Sembrano usciti dalla pellicola “L’arte di arrangiarsi”, in cui Alberto Sordi si destreggia nei più disparati trasformismi politici, lettura satirica della Prima Repubblica.
Per gli amanti del pentapartito, la Tunisia è un solenne manifesto di imitazione primo-repubblicana. Forse in ciò avrà influito l’esilio di Craxi ad Hammamet, perché il Paese ha seguito pedissequamente l’indirizzo politico che veniva impartito dalle nostre parti. La risposta tunisina a Tangentopoli è stata la Rivoluzione del 2011, un processo tanto atteso per sostituire il regime dittatoriale di Ben Ali quanto illusorio. Difatti, pur avendo inaugurato la “primavera” araba, la Tunisia oggigiorno si ritrova con una democrazia corrotta e il potere monopolizzato non da un solo paio di mani, bensì da un intero partito: Ennahdha.
La partitocrazia si rivela con la stessa assurdità normalizzata con cui in Tunisia si vive, lavora e gestisce il calcio. Al mio arrivo a Tunisi mi sono accorto subito che la poltrona lì rappresenta un concetto traversale; chi vi si siede in parlamento fa altrettanto sugli spalti o nelle maggiori aziende.
A confermarlo è stato il lavoro sul posto. Sono andato in Tunisia per lavorare in una piccola società calcistica, lo Stade Sportif Sfaxien, in qualità di allenatore della juniores. Un rapido sguardo basta già a carpire il senso di Sfax, città che non meriterebbe una visita neanche sotto tortura. Quel luogo, gettato in pasto all’industria di fosfati ed estrazione mineraria, dove il cielo si mimetizza fra le polveri sottili, riassumeva tutta la Nazione.
Nello stemma del club c’era una ruota meccanica, la stessa raffigurata sui camion che uscivano dagli stabilimenti. Ad ogni mia domanda sulla presidenza, l’amministrazione o su chi gestisse la burocrazia, la risposta era univoca: “Le groupe chemique”. Un infido cane che si morde la coda, gira su se stesso da sempre attorno al pallone tunisino. La legge vieta l’acquisizione a stranieri di qualunque ente sportivo, che rimane appannaggio dei gruppi parlamentari o economici affini.
Che le cose laggiù funzionino in questa maniera è opinione diffusa, confermata e avvalorata dai fatti. La stragrande maggioranza dei pallonari conosce poco e nulla, a ben donde, del calcio tunisino. I pochi curiosi ricorderanno l’Espérance de Tunis per qualche scommessa avventurosa giocata la domenica mattina, ma oltre gli ultimi palinsesti della SNAI nulla è degno di nota.
Vox populi, la compagine capitolina viene accostata alla dittatura che ne ha favorito i successi.Pensavo allora di ritrovare la stessa fede sportiva in tutti i ragazzi che allenavo: loro, affamati di sogni, affascinati da tutto ciò che sia fama e vittorie. Mi sbagliavo. Nonostante le emulazioni continue di pettinature alla CR7 o scarpini contraffatti di una qual sorta di baffo Nike, il loro cuore restava umilmente dipinto di bianconero.
A intuito, dato l’appellativo di Juventus della Tunisia, il primo pensiero ricade su un’assonanza di prestigio o trionfi con la squadra più titolata d’Italia. Al contrario, l’unica società estranea al sistema tunisino prende i colori dalla Vecchia Signora, il soprannome e persino la denominazione del gruppo ultras: i Fighters. Sono loro a comporre la falange a supporto dello CSS, il Club Sportif Sfaxien, l’antagonista per eccellenza.
Uno stadio di appena 10.000 posti cerca di contenerne almeno il doppio ogni domenica, compito arduo per un impianto nel bel mezzo di una rotatoria urbana. Soltanto addentrandomi fra speranze e timori di quei giovani, ho capito cosa il club rappresenti per un’intera comunità. Si va agli allenamenti solo ed esclusivamente in motorino (Ciao su tutti), infradito e casacca CSS.
Negli spogliatoi il concetto di proprietà ha un’accezione marxista. Ci si appropria di borsoni e indumenti altrui con eccessivo lassismo. Vi lascio immaginare cosa abbia significato per me concordare i numeri di maglia, alla ricerca di una quadra tra l’arabo e il francese. A sorpresa, la colluttazione avviene soltanto quando ci si appresta ad assegnare la maglia numero 8.
Trattasi di un simbolo, indossato da Hammadi Agrebi, l’idolo di ogni tifoso sfaxien. Sarebbe un semplice calciatore disimpegnatosi a Sfax negli anni ’80, ma i racconti narrano di un antesignano dei vari Maradona, Platini, Zidane e qualunque fantasista abbia incantato nei periodi a seguire. Qui la leggenda supera la realtà.
Soprattutto, Agrebi mise a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia rifiutando gli acerrimi rivali dell’Esperance: questo forse basta a spiegare il reale valore del Club Sportif Sfaxien. Perciò in Tunisia si dice che chi guardi il calcio tifi l’Esperance, ma chi lo ama invece non ha dubbi: CSS.
Se dovesse scegliere la partita della propria storia, il tifoso Sfaxien inizierebbe a raccontare una clamorosa disfatta in finale di Champions League africana nel 2006, con la coppa scivolata via praticamente a tempo scaduto. Ma da Sfax a Parigi, fino a Lampedusa, dove vivono o provano a farlo tanti tunisini, le vie si colorarono di bianco e nero. Così l’orgoglio calcistico di questo popolo si unisce intimamente alla difficile storia della propria nazione. Parecchie volte mi sono rapportato con giovani figli della fortuna, graziati dalle onde del mare o da qualche doganiere con la luna dritta.
Dovevo dare un motivo a degli adolescenti di rimanere fra la miseria, provando a offrire loro una ragione. Mai mi sono azzardato a parlare di brillanti opportunità, seppure comprensibilmente fosse nelle loro aspettative. Nella rassegnazione che mi assaliva, osservando una generazione orfana di futuro, il calcio era la speranza.
Quando li vedevo “chiamarsi l’uomo” in un italiano storpiato, arrabattare dei fuorigioco con complicità dei discutibili arbitraggi, mi rendevo conto della semplice grandezza del gesto. Gli spogliatoi polverosi alla stregua dei terreni da gioco, le divise monche vuoi di pantaloncini vuoi di calzettoni, le trasferte in mezzi miracolati, erano sufficienti. Sarebbero andati a giocare scalzi pur di sfuggire alle grinfie di posti da cui si esce a una condizione: col pallone fra i piedi.
Ho dimenticato i loro nomi. Per me erano Marcelo sulla sinistra, inventato rigorista dell’ultim’ora e dalla capigliatura più simile a Ficarra che al terzino, Mbappè davanti con una corsa da centometrista e soltanto quella, troppi sedicenti Neymar e Raef, il traduttore. Lui almeno alla terza media c’è arrivato. Ci avrebbe fatto comodo perlomeno conoscere i nostri nomi, ma le lacrime con cui ci siamo lasciati hanno dimostrato l’inutilità anche dei connotati. Quel 4-3-3 tutto attacco e niente difesa era una lingua universale, diventato automatismo nell’incomprensione mia e loro. Una cosa l’ho capita di certo grazie al tempo, vale a dire cosa avessi ricevuto da un manipolo di delinquenti rinchiusi in un campetto. La gratitudine, per aver fatto un po’ di calcio.