L'Europa è come un tram: ci sali finché ti fa comodo.
Quando ancora l’AKP (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo) piaceva in Occidente, presentandosi come fautore di un processo di democratizzazione e modernizzazione della Turchia, Recep Tayyip Erdogan era considerato l’uomo giusto per traghettare il Paese in Europa. Tempi lontani, in cui i capi di governo di importanti Nazioni europee non si sarebbero mai sognati di chiamarlo “dittatore” (Draghi) o “tiranno” (Macron). Tempi nei quali a fare fede erano l’atteggiamento aperto della Turchia e un manifesto programmatico stilato da Yalçın Akdogan, consigliere politico di Erdogan, nel quale l’AKP diceva di ispirarsi a un modello di “democrazia conservatrice” che, come scrive Lea Nocera nel libro La Turchia contemporanea (Carocci Editore) fosse
«a favore dello sviluppo e del progresso, aperto all’innovazione» e considerasse «valori fondamentali lo Stato di diritto, la centralità dell’individuo, l’economia di libero mercato, una società civile forte, diritti umani universali, dialogo e tolleranza».
In pochi allora si erano concentrati sulle dichiarazioni di Erdogan stesso quando era sindaco di Istanbul – «la democrazia è come un tram, si va fino a dove si deve andare e poi si scende» – e sui versi dello scrittore Ziya Gökalp che il Reis aveva fatto suoi e declamato in pubblico (e che gli erano costati una condanna di dieci mesi da parte della giustizia turca, espressione dell’establishment kemalista e laicista nazionale): «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati».
Eppure con l’AKP al governo la Turchia si era concretamente avvicinata all’Europa, o meglio aveva proseguito nel suo percorso di adesione all’Unione Europea (nel 2005 iniziano i negoziati per l’ingresso del Paese in EU). Sempre Lea Nocera scrive che «durante il primo mandato di Erdogan (…) la prosecuzione delle riforme conosce un’accelerazione netta sui diritti umani e contro le discriminazioni». E ancora: «il partito di Erdogan riesce a proporsi come una forza politica nuova pronta a mettere in discussione l’autoritarismo dei governi precedenti e a ridefinire il ruolo dello Stato, e quello dei militari, per attuare una politica pienamente liberale».
Sono anni in cui l’AKP viene paragonato ai partiti cristiano-popolari europei, e nei quali tutti (o quasi) caldeggiano l’ingresso della Turchia in Europa contando di strapparla al suo “fondamento islamico”. Poche sono allora le voci dissonanti, una su tutte quella lucida e profetica di Joseph Ratzinger:
«Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: l’Europa non è un concetto geografico, ma culturale, formatosi in un percorso storico anche conflittuale imperniato sulla fede cristiana, ed è un fatto che l’impero ottomano sia sempre stato in contrapposizione con l’Europa.
Anche se Kemal Atatürk negli anni Venti ha costruito una Turchia laica, essa resta il nucleo dell’antico impero ottomano, ha un fondamento islamico e quindi è molto diversa dall’Europa che pure è un insieme di stati laici ma con fondamento cristiano, anche se oggi sembrano ingiustificatamente negarlo. Perciò l’ingresso della Turchia nell’UE sarebbe antistorico».
Joseph Ratzinger, all’epoca ancora cardinale, a Lugano (2004)
La Turchia ci dimostra che la storia non è un processo – né un progresso – lineare che pian piano si affranca dalle identità particolari. La frase di Erdogan sulla democrazia-bus, in tal senso indicativa, fa infatti il paio con un vecchio proverbio turco: «bacia la mano al nemico, fintanto che non la potrai troncare». Mentalità bizantina, non assimilabile a quella europea, ammesso che di europeo ci sia rimasto qualcosa al di là dei diritti civili e delle libertà individuali. La Turchia è quindi stata capace di confondere le acque, di muoversi con scaltrezza nello scacchiere internazionale in modo quasi machiavellico e di reinterpretare, nel nuovo millennio, la propria geopolitica “in senso dinamico”.
Nella dottrina Davutoğlu, riassunta nella pubblicazione del 2001 Profondità strategica, la posizione internazionale della Turchia, quello che poi diventerà Ministro degli Esteri e Premier turco (prima di rompere con Erdogan) e che verrà definito da Foreign Policy “il cervello che sta dietro al risveglio globale della Turchia”, propone una reinterpretazione della politica estera turca fondata sul soft power, in grado di far uscire il Paese dall’isolamento e di renderlo un attore geopolitico globale. Da lì, paradossalmente, la realpolitik ha sostituito la teoria. Come scrive Alvise Pozzi su L’Intellettuale Dissidente:
«Appena salito al potere nel 2002, Erdogan giocò la carta dell’integrazione europea per smantellare lo Stato kemalista; con il beneplacito delle cancellerie del Vecchio Continente l’Akp ridusse il potere dei militari, abolì la pena di morte – che oggi vuole reintrodurre – e riformò gradualmente la Costituzione. L’Akp piaceva: un partito islamista moderato con una netta predilezione per il business e gli affari, sembrava cosa gradita all’Occidente e al sistema finanziario. Consolidato il potere (…) Erdogan si mise subito all’opera per il suo progetto neo-ottomano, ergendosi a paladino dell’islam sunnita. La modernizzazione del Paese creata dal “padre della patria” era una parentesi da cancellare e l’avvicinamento all’Europa e agli Stati Uniti un errore.
Erdogan infatti non ha mai voluto veramente iniziare il processo di adesione al progetto europeo; l’ha usato come pretesto per smantellare i vecchi apparati di potere e controllo e sostituirli con i propri».
Il risultato, comunque la si pensi, è stato questo: oggi la Turchia è molto più isolata di quanto fosse un decennio fa, i rapporti bilaterali sono peggiorati con pressoché tutti gli interlocutori internazionali (dall’Unione Europea agli Stati Uniti, dalla Russia all’Arabia Saudita e all’Iran) eppure essa svolge un ruolo fondamentale nella politica globale e possiede quelle caratteristiche – «la storia, la popolazione, il livello medio di sviluppo economico, la coesione nazionale, la tradizione e la competenza militare – che, scrive Samuel Huntington nel suo celebre testo “Lo Scontro di Civiltà”, le consentono di «fungere da stato guida dell’Islam». Non a caso quella di Erdogan, nell’ultimo conflitto israelo-palestinese, è stata la voce più vibrante e decisa in difesa della popolazione di Gaza.
L’autoproclamato capitano del mondo islamico con la maglia del Basaksehir e il pallone tra i piedi. (OZAN KOSE/AFP/Getty Images)
Giungiamo quindi al paradosso di avere nella massima competizione europea una Nazione che si propone come “faro della cultura islamica”, e non solo non si riconosce nei “valori” europei, ma addirittura li calpesta e se ne prende gioco. Per questo nell’indignazione perpetua che ormai ci contraddistingue come uomini occidentali la Turchia è diventata il bersaglio principale, il nemico pubblico numero uno dei nostri strali esclusivamente dialettici (quando si tratta invece di bloccare l’immigrazione, ad esempio, siamo disposti a ricoprire di moneta il Sultano pur di non vedere il cammello).
Così anche il football, straordinario specchio sociale e politico, è stato materia di dibattito nei rapporti sempre più tesi fra Turchia ed Europa: ricordate i saluti militari dei giocatori turchi seguiti alla “Operazione Primavera di Pace” (la campagna militare nel nord-est della Siria nel 2019)? Qualche mese dopo la UEFA aprì un’inchiesta sull’accaduto, provocando la dura reazione del Reis: «è un diritto naturale dei nostri sportivi salutare i soldati dopo una vittoria. Gli sportivi che rappresentano il nostro Paese all’estero sono soggetti a una campagna di linciaggio dall’inizio dell’operazione militare. La Uefa ha mostrato un approccio politico verso la nostra nazionale e i club». La prode UEFA, tuttavia, non si fece intimidire provvedendo a spietate sanzioni: una “reprimenda” ai calciatori-autori del gesto e addirittura 50mila euro di multa alla Federazione Turca. Bancarotta sfiorata ad Istanbul.
In occasione però di quei saluti militari collettivi (vs Albania e Francia, 2019) la politica ritornò prepotentemente in campo. La nostra reazione, ça va sans dire, fu come al solito l’indignazione: che sia il saluto militare di Cengiz Ünder o Santa Sofia riconvertita in moschea, la ricetta è sempre la stessa – e forse non così efficace. I più coraggiosi arrivarono addirittura ad interrogarsi sulla coercizione dei calciatori, costretti ad esibirsi in un gesto pro governativo di cui chissà quanto fossero convinti. Un bel pezzo uscito su Linkiesta avanzava questa ipotesi, portando anche gli esempi di sportivi turchi critici verso il regime: Hakan Sükür, eroe dei mondiali 2006 e poi fuggito in California dove gestisce un piccolo bar a Palo Alto, e Enes Kanter, centro dei Portland Blazers, su cui pende tutt’ora un mandato di cattura internazionale per terrorismo.
Entrambi testimonierebbero cosa significa opporsi al Sultano, ma non si può nemmeno pensare – e sperare – che i calciatori turchi salutino militarmente solo per paura e timore. È come se a noi, europei “alla fine della storia”, mancasse la capacità stessa di comprendere alcuni processi storici e culturali; se le dinamiche di ogni Paese e l’intera storia del mondo fossero analizzabili esclusivamente con il metro della “democrazia” e dei diritti civili. È questo l’errore che continuiamo a fare con la Turchia di Erdogan, non avendo capito che abbiamo a che fare con un governo – e quindi con un Paese – che persegue un’altra agenda e ha differenti esigenze.
Certo lo sport, come in molti governi illiberali ma non solo, diviene un formidabile mezzo di propaganda ed affermazione. Secondo Orhan Pamuk ad esempio, premio Nobel per la Letteratura del 2006, il calcio non è semplicemente un’arma di distrazione di massa, al contrario:
«Magari il calcio in Turchia fosse l’oppio del popolo: è invece una macchina per produrre nazionalismo, xenofobia e pensiero autoritario».
Il premier turco è il primo a riconoscerne il potenziale, e così ha trasformato una passione giovanile in un’arma politica dal sicuro successo: ogni saluto militare, ogni post sui social, ogni dichiarazione di un atleta in suo favore è per Erdogan un endorsement pesante e decisivo. Per questo abbondano le foto del Reis con i maggiori calciatori turchi, da Gündogan a Özil fino ad Arda Turan (degli ultimi due è stato addirittura testimone di nozze), e per lo stesso motivo ci tiene che sia tutta la Nazionale turca, unita, ad esprimere sostegno alla politica del Paese.
Questa l’immagine, emblematica così come il suo testo, che Merih Demiral condivise su Twitter nei giorni della “Operation Peace Spring”: i curdi identificati come terroristi, e la missione della Turchia presentata come un’opera di pace.
Instrumentum regni dunque, eppure alcune dichiarazioni di calciatori sono fin troppo spudorate per sembrare una semplice marchetta obbligata al governo. Çağlar Söyüncü, difensore centrale del Leicester e titolare al fianco di Demiral, ha addirittura affermato: «noi siamo importanti, ma i nostri soldati lo sono di più». Nell’apparente ridimensionamento del proprio ruolo, in realtà la consapevolezza del peso che in patria hanno lo sport e gli sportivi: icone nazionali, simbolo di potenza ed autoaffermazione turca; una responsabilità che diventa privilegio, un onere che si tramuta in onore.
“È come se il patriottismo repubblicano di Kemal Atatürk si fosse trasformato, con il trascorrere degli anni, in un nazionalismo militante, la cui incarnazione più iconica e mediaticamente suggestiva è costituita dalle gesta e dalle prese di posizione dei calciatori”.
Perché in fondo non a tutti può dispiacere l’idea di rappresentare a 360 gradi il proprio Paese, di portarne in campo l’identità. Ecco, a proposito di identità la forza della Turchia – anche nel rettangolo verde – sembra stare qui: la squadra è solida, compatta, sicura difensivamente e con un terminale offensivo come Burak Yilmaz (quest’anno decisivo per la conquista del titolo del Lille) capace di sostenere da solo il peso dell’attacco davanti a Çalhanoglu, Yazici e Tufan. È vero che la Nazionale non brilla per qualità, ed è anche retrocessa nella Lega C della Nations League, ma l’altra faccia della medaglia è rappresentata dagli appena 3 gol subiti nelle 10 partite di qualificazione europee e dalle ottime qualificazioni, stavolta mondiali, iniziate con il 4-2 rifilato all’Olanda e il 3-0 alla Norvegia. Poi il 3-3 con la Lettonia, a restituire l’immagine di una squadra tanto solida e temibile quanto discontinua.
In panchina c’è poi lo storico CT Şenol Güneş, lo stesso che riuscì a portare la squadra al terzo posto mondiale nel 2002. Da allora la Nazionale è molto cambiata, e forse è una delle pochissime rappresentative che, con il trascorrere degli anni, ha rafforzato il proprio carattere particolare anziché diluirlo. Se d’altronde il calcio è uno specchio della società, e quella turca si è “riconvertita” nell’ultimo ventennio, non può stupire che la Nazionale rappresenti la Nazione: «l’Islam è diventato pervasivo in un senso moderno nella società turca – scrive Şerif Mardin, sociologo turco – e ha contrastato l’Islam come fede privata».
Ecco, quella turca è un po’ una Nazionale pop Islam, parafrasando a sproposito Giovanni Lindo Ferretti: un’eccezione ad Euro 2021 che, pur essendo in buona parte “europea” (più della metà dei calciatori gioca nel Vecchio Continente), mantiene uno spirito nazionale marcato. Per questo sarà un osso duro da affrontare per chiunque: perché è una squadra che riesce ad esaltarsi nelle partite importanti (contro la Francia nelle qualificazioni europee una vittoria per 2-0 e un pareggio per 1-1), che conosce Occidente ma è spinta da Oriente. L’unica Nazionale che tiene il piede in due Continenti e può prendere il meglio da entrambi. D’altronde, come dicono da quelle parti, «un turco ne sa più di mille cristiani»: non genericamente un islamico, ma proprio un turco.