El viejo è rimasto solo. La separazione con Cecilia fa ancora male. Si sono lasciati troppo presto. Incomprensioni, indifferenze, gelosie. Quello che resta del legame è un figlio da mantenere e proteggere: Ubaldo Matildo. La carne di manzo sfrigola sui ferri della griglia, cuoce lentamente, scola grasso sulla brace viva, pulsante. L’asado rosola con la sua corte dei miracoli ben stretta intorno: achuras, chorizos, morcillas. El viejo si chiama Luis, ha un grill a San Miguel del Monte, cento km di niente dalla grande Baires. Ubaldo lo aiuta, è in gamba, serve i clienti, sistema la merce.
La gratella fumante è appena fuori da quel buco di calce grigia del negozio. All’interno il vetro di una finestra dagli infissi di legno scoloriti fa filtrare una luce lattiginosa sopra il banco di lavoro posto al centro della stanza. Ai lati un paio di sedie impagliate e in un angolo, semiaperta, la porta che dà accesso al retrobottega dove appeso al braccio di uno sgangherato appendiabiti, pende disinvolta una maglia da calcio con il numero 5 stampato sulla schiena. Ubaldo ha dodici anni e gioca a calcio; gioca nel San Miguel ovvio, e fa il centrocampista. Ogni sera l’amico di sempre, Martillo Tolosa, passa a prenderlo al negozio e insieme vanno agli allenamenti.
C’è una foto. La foto. L’hanno chiamata El Abrazo del Alma. Uno scatto indovinato, rubato al frammento di storia che stava scorrendo e alla storia stessa subito riconsegnato. Al termine della finale mondiale del 24 giugno 1978, in un turbinio di papelitos, Ricardo Alfieri, straordinario fotografo argentino, immortala Ubaldo Fillol mentre stringe Alberto Tarantini. Un’immagine che diventerà la copertina della rivista El Grafico. L’albiceleste era diventata campione del mondo per la prima volta. Ubaldo è agilissimo, una molla, un autentico elastico. Un giorno nello spelacchiato campo del San Miguel si infortuna il portiere della prima squadra Pato Iglesias. E allora, come se improvvisamente fosse diventato il testimone più credibile di un’aula di tribunale, tutti guardano verso Ubaldo.
In fondo, pensano, è così veloce che potrebbe fare bene perfino in quel ruolo. Tentare non costa niente. Lo prendono e lo mettono fra i pali. Gli chiedono il nome e lui risponde… ma maldición, c’è troppo vento, troppa polvere, troppa confusione, e quasi nessuno capisce esattamente cosa dice, al punto che, durante la partita per non imbrogliarsi, tutti lo reclamano come il vecchio Pato, benché del papero Fillol non avesse davvero nulla.
Si, può andare anche così, alla fine un soprannome non sarà mica un problema, il problema casomai è per gli altri, perché cavolo, questo ci sa fare pure in porta. Ubaldo Matildo Fillol detto El Pato vincerà la coppa del mondo del 1978, quella del governo dei colonnelli, quella di Videla, quella dei desaparecidos e delle madri di Plaza de Mayo, quella dei complotti, quella che ad ogni costo doveva restare a Buenos Aires e ci restò. Ci fu chi gridò alla combine e continua a farlo.
“Kempes ci aveva portato in vantaggio, – dirà Fillol – poi cominciò la sofferenza dopo il pareggio di Nanninga”.
Fillol non ci sta, non ci è mai stato. Lui era in campo con la sua elegantissima maglia verde numero 5, e ricorda sempre che se nell’incandescente coda di partita non avesse respinto il tiro di Rep e deviato la conclusione da un metro di Rob Rensenbrink, quella coppa sarebbe andata in Olanda; altro che intrigo, altro che favoritismi, l’Argentina vinse con merito.
Sapevamo poco di quello che stava succedendo, la politica c’entra fino a un certo punto, le partite sul campo occorre vincerle. Andate a rivedervi la gara di finale e giudicate, dopo parliamo, come no, anche del 6-0 al Perù e di Quiroga, e non scordatevi che ci fu un altro bel 6-0 in quel torneo, opera della Germania contro il Messico; un complotto anche quello?
Capiamoci: contro i peruvianiMario Kempes risultò una furia, immarcabile, imprendibile. Aprì le marcature nel primo tempo dopo una caparbia azione personale, sciogliendo così le paure di tutta la squadra. Indirizzò le azioni del secondo, quarto e quinto goal, realizzando il 3-0 miscelando opportunismo e scatto. Daniel Passarellael caudillo non si erse unicamente a pilastro della retroguardia, si dimostrò scaltro altresì come attaccante aggiunto, partecipando da protagonista a diverse azioni offensive, servendo a Luque il cioccolatino del 4-0. Omar Larrosa non fece rimpiangere Ardiles messo fuori squadra a causa di un brutto colpo ricevuto nelle partite del girone eliminatorio. Omar sbuffò come un treno nella pampa, corse a una velocità sempre superiore rispetto agli avversari e ci mise lo zampino quando ce n’era bisogno.
Alberto Tarantini, racchiuso nel suo dispotico sinistro, si alternò sulle fasce con Oscar Ortiz con un sincronismo perfetto. Segnò anche un goal di testa e un altro lo sfiorerà, al termine di una poderosa percussione. Leopoldo Luque spesso sembrava estraneo al gioco, tuttavia quando ebbe fra i piedi la palla giusta non perdonò mai e la sua doppietta pesò come un macigno sull’esito finale. Quel Perù non era il gruppo di quattro anni addietro e faceva acqua da tutte le parti. Quiroga avrà pure fatto dubitare sul suo comportamento ma non risulta che dopo quella partita sia diventato un nababbo e sia fuggito a vivere in Florida, anzi Chupete oggi vive a Cuzco, non propriamente Miami.
La squadra intanto, ve la ricordate? Una litania. Fillol, Olguin, Galvan, Passarella, Tarantini, Larrosa, Gallego, Luque, Ortiz, Kempes, Bertoni. Al campo di San Miguel, Ubaldo si metterà sempre più in evidenza fra i pali. Ama la linea di porta, è un tradizionalista, un riflessivo, non si allontana mai dal suo regno, vi mette radici. Quella riga in gesso delimita non solo il perimetro ma parimenti la discrepanza fra lui e chi in questo ruolo cerca disinvolte licenze.
Un pomeriggio qualcuno lo vede e lo vuole portare al River Plate. Proprio al River, un salto enorme, pazzesco. Eppure colui che propone l’affare non è affatto uno sconosciuto, è Renato Cesarini l’ex Juventus, quello che ha involontariamente prestato il suo cognome a un particolare momento della partita quando segnare una rete si scontra con l’esiguità del tempo a disposizione. Tuttavia niente da fare, Ubaldo non accetta, resta a San Miguel, non si sente pronto, ciò nonostante il River rimane nel suo destino, occorreva soltanto aspettare.
Noi giocavamo a calcio – dice Fillol. Volenti o nolenti, nei giorni del mondiale la nazione era con noi. Tutta. Eravamo venticinque milioni di argentini contro il mondo intero. Venticinque milioni di persone dipendevano da noi, vivevano insieme a noi, respiravano con noi.
Fu Omar Sivori il primo tecnico a convocare Ubaldo Fillol nella Selección. Era il 1974 e da un anno circa si era trasferito dal Racing al River Plate. El Pato si accontentò di essere il terzo portiere di una spedizione che non raccolse niente fermandosi nella seconda fase, sconfitta malamente e perentoriamente dall’arancia meccanica allenata da Rinus Michels, e battuta amaramente anche da un Brasile ormai orfano di Pelé. Poi sulla panchina argentina arriva El Flaco Menotti e Fillol diventa titolare per qualche partita di una tournée. César Luis Menotti fu esplicito: «A settembre quando torna Hugo dall’infortunio, gli ridai il posto».
Altrettanto chiara la risposta. Evangelica. «No, se credi in me, devo giocare sempre». E Ubaldo Fillol diventò titolare inamovibile, con buona pace del Loco Gatti. A Quilmes, nel sud est di Buenos Aires in Avenida Vicente López, ce lo porterà un certo Pando nel 1968. Dalle sei di mattina alle due del pomeriggio deve però lavorare in una panetteria per pagarsi le spese di mantenimento visto che la società gli passa solo i soldi sufficienti a dormire in una modesta pensione dei dintorni. In quel crepuscolo dei ‘60 il club dei “birrai” stava attraversando una terribile crisi economica, eppure la sua covata lo salverà facendo emergere elementi di ottima qualità.
Qui Fillol si tempra a dovere, qui conoscerà Olga Inès (sua futura moglie), qui prenderà l’abitudine di bagnarsi la maglia all’altezza del petto prima di scendere in campo come aveva visto fare al portiere titolare Oscar Cavallero con l’alcol etilico. Questo gesto gli piace, lo carica, lo ripete. La svolta avverrà quando Cavallero si becca un guaio muscolare e il secondo portiere Michelangelo Tete Sanchez non darà particolari garanzie al tecnico Carmelo Faraone per aver beccato quattro reti nella partita contro l’Estudiantes.
E Fillol ancora una volta salta sul carro della fortuna non tradendo la buona sorte, anzi: ripaga subito le aspettative nel miglior modo possibile. Indossa El Buzo a collo alto griffato “Olimpia” e ci gioca sotto l’acqua e sotto il sole. E’ l’unica maglia disponibile, caldo o freddo deve bastare. Tre anni dopo sbarca a Avellaneda sponda Racing in cui si consolida definitivamente diventando lo spauracchio dei rigoristi e dove giungerà inevitabile il trampolino di lancio verso il Barrio di Núñez e il River Plate. Undici anni consecutivi, sette campionati vinti.
L’ultima partita della sua vita professionale meriterebbe una storia a parte. Fillol gioca nel Velez e deve affrontare, in un ribollente e stracolmo Monumental, il suo River alla disperata ricerca di una vittoria per poter sperare di agguantare o sorpassare il Newell’s allenato da Marcelo Bielsa. E’ il 1990. Ubaldo Matildo Fillol ha 40 anni sulla carta d’identità ma ne dimostra la metà nel fisico. Compie almeno un paio di parate prodigiose e si prende la briga di parare un rigore a Rubén Da Silva. Il Velez vincerà 2-1, dissolvendo ogni residua illusione di titolo dei millonarios.