Calcio
08 Febbraio 2024

Il Friuli e l'Udinese meritano rispetto

La gestione Pozzo si sta avviando al tramonto?

La passion e je la nestre fuarce”, recita una scritta sul lato nord della tribuna sotto l’arco dello stadio Friuli, da poco rinominato, forse per eccesso della sopracitata passione, in bluqualcosa stadium. Quella scritta è ora scolorita, disturbata dalla sovrapposta versione italiana che stenta a imporsi sulla dizione locale, facendo in modo che non si legga né l’una né l’altra. Nell’impianto più sostenibile d’Italia (cosa di cui dubitiamo importi a qualcuno fuori dall’ufficio marketing) si viene accolti da una fastidiosa musica sparata a volume altissimo, ben maggiore alla media degli stadi italiani, e dalle sguaiate urla dello speaker, a sua volta oggetto di petizioni online imploranti la sua sostituzione.

A tratti capita persino di scambiare i vivi per i morti, chiedere al sanissimo Paolo Pulici che prima della gara contro il Sassuolo ha visto comparire sul maxischermo il suo volto al posto di quello del defunto Antonio Juliano. Gli sfortunati fruitori dell’impianto, però, hanno motivi di afflizione molto peggiori. Dopo 23 partite di campionato i punti sono 19, proiezione finale di 31. La media negli ultimi 10 anni dice che per salvarsi occorre chiudere sui 34. Mai come quest’anno, dal ritorno in A nel preistorico 1995, la salvezza pare così complessa.

Ingenuo però stupirsi per le molte nubi che si rincorrono sopra l’arco del Friuli. Nubi minacciose, che si accumulano da parecchi anni.

L’ultima è l’indagine della Fiscalía Anticorrupción spagnola, che ha chiesto per Gino Pozzo, demiurgo delle (s)fortune di Udine e Watford, 36,5 milioni di multa uniti a ben 12 anni di carcere per aver eluso le tasse sulle plusvalenze dei giocatori del Granada ai tempi della gestione friulana della squadra spagnola. Eh sì, perché la famiglia Pozzo è stata anticipatrice su tante cose; non solo nell’inventare un avanguardistico modello di scouting a metà anni ’90, ma anche nelle multiproprietà. Il Granada venne preso nel 2009 in terza serie e rivenduto nel 2016 in Primera, mentre il Watford, compagine ormai ancorata alla media classifica di Championship, è ancora nelle loro mani.



Analizzando qualche dato, sportivo ed economico, si scoprono cose sinistre. Come che nel periodo d’oro dell’Udinese, dal ritorno in A del ’95 al 2013, la media friulana è attorno ai 53 punti, con undici qualificazioni alle competizioni europee. Dopo, la media scende a 43 punti e salvezze stentate. Curiosamente, la linea di cesura tra belle époque e decadenza è proprio l’estate 2012, data di acquisto del Watford da parte dei Pozzo. Ad ora l’Udinese, su 33 giocatori, ne ha ben 8 con un passato nei londinesi. Uno su quattro. E alcuni sono arrivati tutt’altro che gratis visti i 6,5 milioni per Kabasele, 33 anni e errori costati carissimo, nel girone di andata, contro Sassuolo e Verona.

Ma soprattutto come Kamara, 30 anni a marzo, travolgente terzino sinistro sbarcato in Friuli all’inizio di questa stagione. Il Watford lo pagò 4 milioni a gennaio 2022. 1625 minuti conditi da un gol e una retrocessione hanno quintuplicato il suo valore, dato che ad agosto 2022 l’Udinese fa partire un bonifico da ben 19 milioni verso Londra, rendendolo il secondo acquisto più caro della storia dell’Udinese. Curiosamente sei giorni prima Udogie era stato venduto al Tottenham per 18 milioni, ed entrambi sono rimasti in prestito nelle rispettive squadre per un anno.

Sarà certo una coincidenza, come è singolare l’acquisto di Mandragora, il più costoso della storia friulana, 20 milioni in un’opaca operazione con la Juventus, finito nel mirino dell’inchiesta “Prisma” in merito alle plusvalenze fittizie. A inizio novembre 2023 la Guardia di Finanza ha fatto capolino nella sede friulana per acquisire i relativi documenti. Nelle prossime puntate sapremo quanto siano fondate le ipotesi di reato su quisquilie come falso in bilancio, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza e dichiarazione fraudolenta mediante documenti falsi. Chissà se salteranno fuori altre coincidenze.



Ma oltrepassiamo le noiose faccende da azzeccagarbugli. Al tifoso dovrebbe importare solo quel che accade in campo, giusto? E allora come lamentarsi di una squadra che dopo un passato europeo oscilla da dieci anni tra il dodicesimo e il diciassettesimo posto, con un autentico dogma, il 3-5-2, che prescinde da ogni allenatore e da ogni campagna di mercato? Il ritorno di Cioffi non ha esaltato la piazza, un po’ per la simpatia verso la bandiera Sottil, un po’ per la fuga di due anni fa del tecnico toscano, ma va detto che a Cioffi venne offerto un biennale veronese sui 750.000 euro l’anno, contro un annuale friulano da 350.000: una proposta che, per le cifre che girano persino per la bassa fascia degli allenatori di Serie A, è ai limiti del ridicolo.

Del resto il monte ingaggi dei friulani è da parecchi anni tra gli ultimi 3-4 della lega, e anche se è vero che un basso costo del lavoro non è automatico sinonimo di bassa qualità, è comunque indicativo.

Soprattutto considerando che secondo il CIES Football Observatory, l’osservatorio svizzero sul mercato calcistico internazionale, l’Udinese è nella top ten mondiale della finanza pallonara, avendo macinato con le vendite dei suoi giocatori l’astronomica cifra di 750 milioni dal 1992 al 2020, con un saldo netto di 111 milioni solo negli ultimi nove anni. Periodo in cui a Udine, sebbene siano stati tritati 12 allenatori, vi sono stati 14 cambi effettivi in panchina, perché una delle specialità della casa, da sempre, sono i cavalli di ritorno. Si va dal carneade Velazquez, pescato nelle serie minori iberiche, al lancio dei vice, come Tudor, Gotti, Cioffi. Tutti obbligati a impostare la squadra con il 3-5-2.

Vero che le fortune bianconere si sono storicamente costruite con la difesa a 3, ma a fare la differenza, ovviamente, erano gli interpreti. Il motivo di questo dogma è più segreto della verità sul caso Orlandi. Per impostarlo si pescano allenatori a volte buoni, a volte pessimi, ma sempre blindati con un annuale a bassissimo costo e con la promessa di una squadra scientemente smantellata in estate, e non importa che in palio ci sia la salvezza o l’ingresso in Champions. Perché un conto è vendere uno, massimo due titolari in estate, altra cosa privarsi di 4-5 delle migliori pedine dello scacchiere tra giugno e febbraio. Quest’anno hanno salutato Becao, Beto e Udogie.

Pereyra, invece, dopo essere stato svincolato, è stato raccattato a settembre mentre vagava con una birra in mano per Friuli doc, immensa sagra regionale nel centro di Udine, e Samardzic era già stato impacchettato sulla via di Milano, salvo poi ripensamenti (mai davvero chiariti) dell’entourage del giocatore. Scongiurata per un pelo la cessione di Perez, che avrebbe violato uno dei pochi tabù di casa Pozzo: mai vendere titolari a gennaio. Vorrà dire che la terzultima peggior difesa, i 19 punti e il quartultimo posto fanno stare tranquilli. Il gioiellino Pafundi invece, 18 anni a marzo e ben 7 minuti in campo questa stagione, è volato a Losanna in compagnia del buon Francesco Facchinetti, per un sontuoso prestito annuale con diritto di riscatto a 15 milioni.



Certo, anche ai bei tempi successero cose deprimenti, come qualificarsi in Champions con Sanchez, Zapata, Benatia, Inler, e farsi eliminare ai preliminari con Fabbrini, Neuton, Ekstrand, Maicosuel. Anche allora qualcuno osò criticare la paradossale venalità dei Pozzo, osservando che le cessioni avevano precluso per ben due volte di fila i milioni e la visibilità mediatica garantiti dall’ingresso alla fase a gironi della più importante competizione per club al mondo. Critiche alle quali dalla dirigenza in questi anni ha sporadicamente risposto, tramite inadeguati yesman, ricordando con sufficienza che trent’anni di Serie A non arrivano per caso, che la società sa quel che fa e che il tifoso deve solo pensare a tifare (e, aggiungiamo, a pagare prezzi per biglietti e abbonamenti inversamente proporzionali allo spettacolo offerto).

Ma per un popolo orgoglioso come quello friulano esistono cose molto peggiori della finanza alla Bernie Maddoff o delle continue umiliazioni calcistiche.

Come sentirsi attaccati dalle stesse istituzioni che dovrebbero difenderli. In seguito ai recenti accadimenti nella gara contro il Milan, Udine e il Friuli sono stati dipinti come l’Alabama di metà ‘800. Dalla stampa nazionale nulla di nuovo, del resto non si è mai visto mezzo articolo di giornale quando per oltre vent’anni i tifosi friulani sono stati accolti al coro di “terremotati” negli stadi di mezza Italia. Come non stupisce il silenzio sul fatto che fu proprio Udine il primo stadio italiano ad eliminare le barriere, impresa possibile solo grazie alla correttezza di quel pubblico sempre ben distintosi nei premi fair play per le tifoserie.

Non stupisce nemmeno la ritrosia di alcuni nell’ammettere che tanti calciatori, specie i più celebri, su episodi del genere ci marciano sopra, salvo magari scordarsi tutto al momento più opportuno (Lukaku che si propone alla Juventus dopo gli insulti allo Stadium, a suo dire razzisti, dovrebbe far riflettere). Ma soprattutto, nemmeno 24 ore dopo i fatti di Udine a Salerno sono volati accendini, bottigliette, snack e persino calcinacci verso i giocatori del Genoa (uno snack ha colpito Retegui e Strootman, con una mossa geniale, per tutta risposta l’ha divorato). Risultato? Nessun daspo, nessuna chiusura dello stadio e 50.000 euro di multa alla Salernitana.


Per la magistratura sportiva, quindi, lanciare pietre in campo e colpire giocatori con le merendine è meno grave degli isolati insulti del Friuli. Tutte cose che forse non stupiscono, ma di certo indignano, e non poco. Se i titoloni valgono bene un pubblico processo, va detto che non si era nemmeno mai vista una tale grottesca messinscena locale: dal Messaggero Veneto, che ha indirizzato a Maignan una delirante e costernata lettera, al sindaco di Udine, nato e cresciuto in un paesino della provincia di Padova, che tragicomicamente ha colto la palla al balzo per proporre la cittadinanza onoraria al portiere rossonero, ottenendo una sacrosanta opposizione nel consiglio comunale ove detiene la maggioranza.

La ciliegina non poteva che metterla la dirigenza bianconera che, sperando di mitigare la spropositata ondata di fango mediatico e di scongiurare la farsesca chiusura al pubblico del Friuli per un turno (poi mutata in due giornate di blindatura della curva nord), ha allontanato a vita dallo stadio i tifosi protagonisti della faccenda. Uno di loro pare sia nero, supponiamo passerà le serate a dare la caccia agli immigrati e bruciare croci nei boschi della Carnia con un appuntito cappuccio bianco sulla testa. Tifoso condannati, senza processo, all’ergastolo sportivo.

Stranezze tutte nostre, ma i tifosi in questione potranno consolarsi al pensiero di non dover più vedere lo spettacolo che va in onda al Friuli ogni due settimane. Almeno con la vendita di Udinese TV non devono più sorbirsi Criscitiello che esonera in diretta gli allenatori e ricorda boriosamente ai tifosi bianconeri che il Friuli è fuori dal mondo, che si devono tenere questa società, che devono andare di più allo stadio e che è intollerabile urlino a Pozzo di spendere. Insomma, la misura è piena. E se le difficoltà in campo possono essere comprese (seppur con grande sforzo, dati i motivi per nulla in buona fede da cui derivano), il totale disinteresse verso il sentimento dei tifosi friulani non è più accettabile.

Un siparietto che a molti non è andato giù

Sia chiaro, i momenti epici ci sono stati, ed è doveroso ringraziare i Pozzo per certe stagioni, per le partite europee, per i tantissimi giocatori di talento transitati per Udine. Anzi, la colpa principale dell’ambiente è aver dato tutto questo per scontato. Si sorride con amarezza ripensando a certe partite di coppa Uefa con il Friuli pieno a metà, deluso di non giocare la Champions. Come sarebbe ingiusto non notare che guidare una società calcistica italiana ai massimi livelli nazionali per 38 anni filati (seconda proprietà più longeva della Serie A dopo gli Agnelli e con pochi eguali in Europa) con tanto di rifacimento dello stadio sia cosa più unica che rara. Però il calcio è cambiato.

In Italia girano molti meno soldi rispetto agli anni ’90, il nostro campionato è terreno di caccia per fondi stranieri e gli imprenditori italiani muniti di denaro, competenza e soprattutto passione per tenere in piedi le realtà di provincia ormai sono mosche bianche. L’Udinese nelle ultime preistoriche stagioni in B ha schierato gente come Graziani, Sensini, Balbo, Calori, Helveg, Bertotto, Carnevale, Poggi. Galeone, ultimo a riportare in A i friulani, disse «non fossi salito con quella squadra, avrei stracciato il patentino di allenatore». Oggi non è affatto scontato che a una retrocessione consegua una pronta risalita.

Stante l’attuale modus operandi, possiamo immaginare come verrebbero gestiti gli oltre 20 milioni di paracadute per la Serie B, possibilità mai concreta come quest’anno.

Riflettere sulle reali possibilità future della proprietà è cosa che deve fare chiunque abbia a cuore le sorti dei bianconeri più antichi d’Italia. È strano che persone scafate come i Pozzo non abbiano intuito che la rotta da loro tracciata trent’anni fa sarebbe stata copiata altrove e non in peggio. Certo, oggi un Sanchez non potrebbe mai venire a Udine. I costi dei talenti in erba, quelli veri, se sono già alti causa nutrita concorrenza, diventano del tutto fuori mercato grazie alle disgustose connessioni finanziarie con il Watford.

Si potrebbe quindi invertire il trend e rilanciare il vivaio, ma da oltre vent’anni il settore giovanile è lasciato nell’oblio più totale, e i talenti friulani o vengono venduti prima ancora di fare un minuto in bianconero (Meret) o tritati alle prime incertezze (Scuffet) o snobbati ancor prima di arrivare in primavera (Comuzzo, fresco esordiente con la Fiorentina) o celati gelosamente da sguardi indiscreti e scaricati altrove anche se già convocati (improvvidamente) in Nazionale (Pafundi, un anno e mezzo in prima squadra, 159 minuti in tutto, panchina anche in Coppa Italia).



Si potrebbe, si diceva, ma la corte di agenti, osservatori e faccendieri (su tutti Claudio Vagheggi) che a vario titolo gravitano attorno all’Udinese probabilmente avrebbe molte meno opportunità di incassare le commissioni sui trasferimenti degli stranieri – 90% della rosa, Lucca ormai unico italiano in campo – fisicati e tecnicamente approssimativi che tanto ama la dirigenza bianconera per impostare il 3-5-2 delle meraviglie. Rimane da sperare che qualcuno da un nebbioso ufficio londinese si renda conto che vendere una squadra di Serie A è ben diverso che trattare la cessione di una compagine di B.

Da mesi si mormora di trattative con un fondo americano. L’appetibilità dell’Udinese dovrebbe essere alta. Rimane una società munita di infrastrutture all’avanguardia e di un ottima rete di scout, inserita nella regione più mitteleuropea d’Italia, abitata da un milione di persone con il settimo pil pro capite della Nazione. Nessuno può e deve scordare cosa la famiglia Pozzo ha fatto per l’Udinese in 38 anni di gestione: 29 campionati di fila nel massimo campionato, impresa nell’attuale Serie A riuscita solo alle squadre di Milano e Roma, valgono uno scudetto. Ma continuare su questa falsariga vorrebbe dire inquinare quanto di buono fatto per così tanto tempo.

Anni fa, in un contesto informale, un alto dirigente del club disse al sottoscritto: «senza Pozzo, Udine sarebbe in serie Z». Ma quel dirigente, più che del calcio, è un sostenitore dei bêz, del guadagno, come si dice in città.

Non potrebbe esserci categoria più lontana dal tifoso, che è un essere irrazionale. Il tifoso investe in emozioni, e perde sempre. Lo mette in conto. In molte osterie, tra un bicchiere e l’altro, si iniziano a mormorare frasi del tipo «meglio in Serie B con dei ragazzi friulani che annaspare in A con questi fenomeni da baraccone, che giocano con il nome della regione sulla maglia e non sanno indicarla sulla carta geografica». Frasi dette da chi vorrebbe vedere un po’ di sentimento, di identità, di passione. Perché, nonostante abbiano il mondo contro, in Friuli sono in tanti a poter dire per davvero che “la passion e je la nestre fuarce”. E meritano rispetto.

Gruppo MAGOG

Jacopo Gozzi

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