Cinquanta campionati di serie A (record per il nordest, molto staccato il Verona fermo a trentadue) dei quali ventotto consecutivi (impresa negli ultimi trent’anni riuscita solamente alle milanesi e alle romane), dodici partecipazioni alle coppe europee, trampolino di lancio di campioni locali e stranieri che hanno scritto la storia del calcio italiano e mondiale, in campo e in panchina. È l’Udinese, la squadra di una regione e di un popolo, i friulani, portatori una bimillenaria storia dagli intrecci culturali unici. Massimiliano Allegri, il cui padre calcistico ed esistenziale non a caso è friulano d’adozione, sostiene che il calcio è un gioco stupido per persone intelligenti. E se una delle caratteristiche dell’intelligenza è la capacità di sintesi culturale, il Friuli, dominato per mille anni dalle due realtà europee che hanno vinto più mondiali, saldate in una cultura che ha fatto dell’assimilazione la sua ragion d’essere, deve alla sua storia la dolce condanna all’eccellenza calcistica.
Friuli deriva dall’antica denominazione di Cividale, gemma incastonata sulle rive del fiume Natisone che leggenda vuole fondata da Giulio Cesare, quindi Forum Iulii.
Ma lo stesso Cesare difficilmente avrebbe immaginato che quel castrum del remoto nordest nato sulle basi di un antico insediamento celtico avrebbe dato il nome a una regione, il Friuli, che sarebbe stata crocevia di ogni cultura europea. Il Friuli propriamente detto è la parte centrale della regione, distinto dal suo versante orientale, la Venezia Giulia. Si spazia dalle montagne della Carnia al mare di Lignano, dai dolci pendii del Collio ricoperti da filari di viti benedette da Bacco ai campi di mais della bassa. Dal capoluogo Udine, tutto raggiungibile in un’ora scarsa di auto. Una posizione geografica così importante, unita a una tale varietà di paesaggi, era destinata a divenire preda ambita da ogni popolo.
BREVE STORIA DEL FRIULI
In principio quelle lande furono di Euganei e Veneti, seguiti dai Celti, che in oltre tre secoli introdussero in Friuli una cultura che sopravvive tuttora, nella toponomastica, in certi termini dialettali, in alcuni riti tuttora in voga nelle campagne come il Pignarûl, il falò propiziatorio di inizio anno che origina da un tributo a Belanu, il dio celtico della luce. Poi venne il turno di Roma, che dopo essersi alleata con i Veneti, nel 181 a.C. ottenne la resa di dodicimila guerrieri celti. Tremilacinquecento famiglie di coloni romani fecero base in un minuscolo insediamento celtico attraversato da un fiume che conduceva dritto al mare. Passerà alla storia come Aquileia, principale porto dell’Adriatico, futura capitale della Regio X Venetia et Histria, quarta città dell’Italia imperiale.
L’incontro tra il latino e l’idioma celtico divenne la base della lingua friulana, che sarà poi integrata dalle parlate longobarde e slave. A giudicare dalla cartellonistica stradale odierna, con la denominazione friulana sotto quella italiana, rimane il dubbio che l’assoggettamento alla cultura italica si sia mai compiuto integralmente. Nel 452 d.C., dopo tre mesi di assedio, Attila prese Aquileia, per poi puntare Padova.
Alcuni aquileiensi assieme ai padovani ripararono verso la laguna veneta, dove implementarono un villaggio di pescatori che diverrà noto come Venezia. Seguirono secoli difficili. Ma nel 568 i Longobardi, guerrieri d’origine norrena, occuparono il Friuli. Stanziarono la loro corte a Forum Iulii, che rinominarono Civitas Austriae, e la contrazione Friûl passò a indicare l’intero territorio sotto la giurisdizione della città longobarda. È la definitiva fusione tra la cultura romano bizantina e quella germanica, fusione che la popolazione locale assimila al punto da farla diventare parte integrante del proprio modo di essere, gettando le basi della civiltà friulana.
Durarono oltre duecento anni, per cedere il passo al caos portato dalle devastazioni degli ungari, poi sconfitti dai duchi di Baviera. Il 3 Aprile 1077 l’imperatore Enrico IV istituisce il Patriarcato di Aquileia. Inizia il periodo d’oro, quattro secoli da pedina geopolitica autonoma e di massima rilevanza, retta da un’aristocrazia militare di origine germanica che nella gestione territoriale si salda perfettamente alla plebe originaria. Il vessillo della Patria del Friuli, tra i più antichi d’Europa ancora in uso, è un’aquila gialla su campo blu. Tutt’oggi sventola sulle tribune del Friuli.
Udine da paese si fa fiorente e ambiziosa città. I patriarchi iniziano a pensarsi guelfi. Udine sfida Cividale. Dal Veneto si fiuta l’affare, Venezia scommette su Udine. Padova, il re d’Ungheria e le armate imperiali, si alleano con la cittadina ducale. Dapprima Cividale ha la meglio, poi nel 1419 è occupata dai veneziani, che di lì puntano la stessa Udine, in cui non a caso si adotterà un dialetto cittadino simile al veneto. È la fine. Per 900 anni il Friuli è stato guidato da genti germaniche, ora si cambia registro.
La Repubblica Veneta è una potenza commerciale, non culturale. Il Friuli continuò a parlare friulano, a pensare in friulano, ad agire in friulano. L’esclusione della nobiltà locale da ogni compito amministrativo, che molti pagarono col sangue, ebbe l’effetto di legarla al popolo. Tutti si sentirono figli di un dio minore e friulano. Tutti in miseria, quindi tutti signori. Eppure il lascito di trecento e passa anni di dominio veneziano non fu da poco: la definitiva presa di coscienza della potenzialità commerciale dovuta alla posizione geografica.
Nel 1797, dopo averla conquistata, Napoleone cedette Venezia e i suoi territori, Friuli annesso, all’impero austriaco. Ma nel subconscio collettivo era ormai marcata la ritrosia alle amministrazioni esterne, senza contare il fermento risorgimentale che aveva iniziato a serpeggiare in tutta Italia a metà ‘800. Nel 1866, assieme al Veneto, il Friuli passa al neonato Stato Italiano. Per riottenere anche Gorizia bisognerà attendere il 1919. Gli ultimi cent’anni seguono le vicende del resto della Nazione. Il fascismo assimilò forzatamente le minoranze slave e germaniche. Già nel ‘45 vi fu un notevole revival delle istanze autonomiste, tra i maggiori sponsor di quelle iniziative impossibile non citare Pierpaolo Pasolini.
UDINE, I FRIULANI, L’UDINESE
Tutto questo ha conferito ai friulani un non immotivato senso di unicità della propria terra e della propria cultura che si trasla su ogni aspetto della vita sociale, sport compreso. Nel calcio ha portato a un’invidiabile capacità organizzativa. Pochi sanno che l’Udinese, datata 1896, è tra le più antiche squadre italiane. Vinse persino un antesignano del campionato, titolo oggi non riconosciuto perché non ritenuto competizione ufficiale dalla FIGC. L’Udinese è da subito una realtà sociale che attecchisce diffondendo speranze in una società in estrema difficoltà ai primi del ‘900.
Il Friuli del tempo è terra tecnologicamente arretrata, quindi condannata all’emigrazione. La gioventù da subito vede nel pallone un ottimo viatico per provare a sfuggire la miseria. Qualche nome? Uno dei primi fu Alfredo Foni, terzino destro metodista che da Udine seppe conquistarsi, oltre alla titolarità alla Juventus, l’oro olimpico nel ’36 e quello mondiale nel ’38. Assieme a lui nella selezione olimpica c’era anche un occhialuto esterno d’attacco della bassa, Annibale Frossi, singolare studente di giurisprudenza. Non si capì mai del tutto perché Vittorio Pozzo non lo portò al mondiale francese, ma l’ottima olimpiade gli valse la chiamata dell’Inter, dove divenne in fretta una colonna da giocatore e dove da allenatore, negli anni’50, fu il primo fautore del catenaccio in una grande.
L’anno dopo il mondiale francese a Ruda, paesino a pochi chilometri da Aquileia di origine longobarda e ricostruita dai cavalieri crociati, nacque Tarcisio Burgnich, pilastro difensivo della grande Inter e della Nazionale con la quale vinse l’europeo del ’68 e segnò il gol del 2-2 nella mitologica Italia-Germania dell’Azteca. In regione c’è anche una vena di follia che quando si esprime, magari aiutata da qualche bicchiere, non si dimentica. Casarsa infatti non ha prodotto solo Pasolini, ma anche il funambolico Ezio Vendrame, il George Best friulano.
Tra modelle negli spogliatoi e bicchieri di troppo (bimillenario passatempo regionale), quando giocava a Padova, durante una partita concordata al pari, prese palla dalla trequarti avversaria, si girò puntando la sua porta, e dopo aver scartato tutti i suoi compagni portiere compreso, la calciò fuori. Uno spettatore dell’Appiani morì d’infarto. Di cinque anni più vecchio e di opposto carattere Dino Zoff, miglior portiere della storia del nostro calcio assieme a Gigi Buffon, il quale zio di secondo grado, Lorenzo Buffon, portiere del Milan e della Nazionale degli anni ’50, era nato a venti chilometri da Udine. Zoff è la quintessenza della calma e dell’understatement friulano. Dopo la sconfitta all’europeo del 2000 Berlusconi, allora presidente del consiglio, giudicò “indegno” e “dilettantistico” il modo in cui Zoff aveva preparato la finale, che stava vincendo fino al 94esimo. Seguirono le dimissioni, atto ben oltre i limiti della follia in un ambiente dove non si dimette neppure chi manca la qualificazione al mondiale.
Mondiale che nell’82 Zoff vinse da indiscusso protagonista, alzando la coppa in qualità di capitano della nazionale più amata di tutti i tempi. Assieme a lui un corregionale collega del reparto difensivo, Fulvio Collovati. L’artefice di quel trionfo? Enzo Bearzot, da Joannis, 14 chilometri da Mariano, terra natia del suo capitano. Dopo quel mondiale il microfono della Nazionale passerà a Bruno Pizzul, The Voice, che scatenava le invidie dei colleghi discutendo in friulano stretto le previsioni sulla vendemmia locale con l’amico e compatriota Bearzot.
Terra di allenatori anche il vicino Venezia Giulia. Ferruccio Valcareggi, il demiurgo dell’europeo del ’68, era triestino come Cesare Maldini. Da Pieris, provincia di Gorizia, ecco don Fabio Capello. Sempre di quelle parti Edy Reja, attualmente all’Albania. In totale i commissari tecnici friulgiuliani sono stati ben quattro, lasciando in dote una medaglia d’oro e una d’argento al mondiale, un primo e un secondo posto all’europeo, e il rammarico per quei tiri di rigore ai quarti allo Stade de France nel 1998. Un ruolino che nessun’altra regione può lontanamente sognare. C’è anche chi, non brillando come calciatore, ha avuto la sagacia di inventarsi scopritore di talenti. Braida in longobardo era il termine con cui s’identificava il prato. È ancora molto usato in Friuli e non solo, ma ai dirigenti calcistici dell’élite pallonara europea quel termine si può associare solo ad Ariedo, che da Precenicco, paesello circondato dai campi di mais sulla strada per Lignano, seppe diventare, previa gavetta a Udine, direttore sportivo dell’epopea del Milan berlusconiano e del Barcellona. È uno di quei friulani stakanovisti, che non vogliono saperne di mollare, e a 76 anni ha appena aggiunto al suo palmares la promozione in serie A con la Cremonese.
Ma il Friuli è anche e forse soprattutto terra di approdo. Ne sa qualcosa Franco Causio, che a 33 anni, pensionato dalla Juventus, in maglia friulana si guadagnò la convocazione al mondiale ‘82. Non lascerà mai la città, diventando anche team manager dell’Udinese. Andrea Carnevale, da vent’anni il segugio dei talenti di casa Pozzo dopo una vita da emozioni forti, è un altro che potrebbe confermare il potere taumaturgico del piovoso (almeno un tempo) clima friulano. Forse glielo aveva consigliato l’amico e scafato trafficante di sogni Pierpaolo Marino, che ha fatto di Udine la sua casa adottiva da oltre vent’anni.
Anche gli allenatori mettono radici, come nel caso di Giovanni Galeone, napoletano di nascita e di gioventù triestina, che, dopo esser stato bandiera dell’Udinese da calciatore, s’innamorerà a tal punto di vini e donne locali da trasferirsi in Friuli in pianta stabile. Il mentore di Allegri e Gasperini vive a Udine da quasi sessant’anni, e nonostante ottimi risultati alla guida dell’Udinese compresa l’ultima promozione in A, forse a causa del suo carattere istrionico non entrerà mai del tutto nel cuore di casa Pozzo, al contrario del veneto Guidolin. Quest’ultimo è non a caso amante della sofferenza ciclistica che solo la pendenza dello Zoncolan, la montagna più alta della regione, sa offrire.
Anche i campioni affermati non scordano dove sono stati felici. Di recente da queste parti è riapparso Zico, che ha dimostrato di ricordarsi ancora alla perfezione la lingua friulana. E per gente che era più che pronta alla secessione in favore dell’Austria in caso di mancato trasferimento del campionissimo (per rovinare il sogno si era messa di traverso la solita Federcalcio), non potrebbe esserci ringraziamento migliore che essere salutati nella propria lingua da un mito del calcio mondiale a quarant’anni di distanza. Totò Di Natale, il giocatore più sottovalutato della storia del calcio italiano, sesto miglior marcatore di sempre della storia della serie A con i suoi 209 gol alla media di 0,47 a partita (davanti a signori del calibro di Baggio Del Piero e Inzaghi, tanto per citare i suoi contemporanei), rifiutò i soldi e il prestigio della Juventus per chiudere la carriera con i bianconeri più antichi d’Italia, facendo scoppiare in lacrime persino il non troppo sentimentale (ma forse solo in apparenza) Giampaolo Pozzo.
Il suo collega di reparto negli anni d’oro, Alexis Sanchez, pochi mesi fa ha acquistato una tenuta vinicola dalle parti di Corno di Rosazzo, uno scenario che per paesaggio e qualità delle viti non ha poi troppo da invidiare alla più quotata Borgogna. È solito passeggiare a cavallo tra i vigneti, sognando l’ennesimo rilancio di una carriera che seppur splendida, senza qualche dannato infortunio di troppo sarebbe potuta essere ancor più abbagliante. Qui nessuno l’ha dimenticato, e a giudicare dalle corse sotto la curva nord dopo ogni Udinese-Inter, preannunciate da commoventi amarcord social del cileno, la cosa è reciproca.
Questi alcuni degli attori sul campo. E dietro le scrivanie? È proprio nelle stanze del potere che si nota meglio la capacità di adattamento dei friulani.
Da principio si puntava sui giovani locali, perciò emersero i Frossi e gli Zoff, scoperti e rivenduti da signorotti locali come Dino Bruseschi, primo patriarca del calcio locale. Poi i soldi iniziarono a dettare legge per davvero, e ci si adattò alla svelta. A inizio anni ’80 a Udine giunse un gelataio di Conegliano, Teofilo Sanson. Fu il primo, con la scaltrezza mercantile tipica di certi ambienti rurali veneti, a inserire gli sponsor nei pantaloncini.
Sarà multato, ma è l’anticipatore di una nuova era. L’Udinese passa a Mazza, manager romano della Zanussi, colosso degli elettrodomestici. Anche lui s’innamora del Friuli, e la sua megalomania trova sponda fertile in Franco Dal Cin, industrioso ds veneto che ha un’idea rivoluzionaria: portare Zico a Udine. Siamo a metà anni ’80, impazza lo yuppismo, e anche stavolta il Friuli si adegua prima e meglio di tutti. Mazza rimane invischiato nel Totonero bis, dal quale uscirà assolto ma sarà costretto a vendere la società all’Henry Ford delle frese: Giampaolo Pozzo. I primi anni sono di saliscendi. Nel 1994, lo spartiacque. La sentenza Bosman sdogana i trasferimenti degli stranieri, cambiando per sempre la storia del calcio europeo. Pozzo fiuta l’occasione. Galeone riporta in A la squadra, ma non trova la quadra sull’ingaggio. Arrivano il carneade Zaccheroni e uno spilungone tedesco dalle sembianze di un capitano della Wermacht, Oliver Bierhoff.
È la svolta. Dopo l’agevole salvezza al primo anno, arrivano un quinto e un terzo posto. Nasce un nuovo modo di fare calcio, Marino arriva a Udine e lancia assieme ai Pozzo il modello a cui ora ogni società s’ispira: pescare in giro per il mondo, meglio se nel terzo, giovani talenti a costi irrisori, farli crescere, rivenderli a peso d’oro. Se non hai un bacino d’utenza da primissimi posti, serve fantasia. Prima di Wyscout e YouTube, prima di Transfermarkt, viene installata una sala video nella pancia dello stadio Friuli sintonizzata sulle partite dei campionati più assurdi. L’elenco dei nomi portati in Friuli è lunghissimo. Tra i molti: Bierhoff, Amoroso, Fiore, Pizarro, Iaquinta, Muntari, Jankulovski, Muzzi, Di Natale, De Sanctis, Handanovic, Quagliarella, Sanchez, Inler, Asamoah, Benatia, Pereyra, Muriel, Zapata, de Paul.
Dal ’96 al 2013 gli anni d’oro. L’Europa è frequentazione assidua, tre qualificazioni in Champions e undici in Coppa Uefa. La stampa nazionale, mai benevola verso il Friuli e per questo ampiamente ricambiata con rancorosa ostilità, ama ricordare l’eliminazione ai preliminari con l’Arsenal e soprattutto con il Braga grazie all’abominevole rigore di un brasiliano indegno di menzione, ma tace sui numerosi scalpi europei collezionati dai bianconeri. Qualche nome? Ajax, Bayer Leverkusen, un primitivo Dortmund di Klopp, Tottenham, Zenit, Liverpool ad Anfield. In quegli anni il peggior risultato è un quindicesimo posto. E non è affatto un caso che l’Udinese inizia a decadere dopo le acquisizioni di Granada (preso nel 2009 e rivenduto otto anni dopo con una buona plusvalenza) e soprattutto del Watford. Un network calcistico in netto anticipo sulle proprietà arabe e le affiliate alle loro scuderie di campioni. Viene persino rifatto lo stadio Friuli, cosa rarissima per una società italiana, seppur sporcando l’operazione con una squallida rinominazione che tuttora viene rigettata dai bar, dalla stampa locale, dalla cartellonistica stradale.
Anche stavolta ci vedono lungo, sebbene il passaggio di gestione effettiva da Giampaolo al figlio Gino svela anche la difficoltà della nuova generazione di casa Pozzo, non per caso formatasi accademicamente oltreoceano, a venire a patti con i propri limiti. Il Watford infatti non può competere stabilmente in Premier. Su dieci anni di gestione Pozzo in quel di Londra non si è mai andati oltre l’undicesimo posto, retrocedendo due volte e salendo altrettante. Nel calcio essere virtuosi è necessario, ma non sufficiente. La grigia razionalità del marketing sportivo di matrice anglo americana ha imposto al Friuli biglietti più cari, giocatori più fisici a scapito della tecnica, un settore giovanile trascurato in cerca del ventenne straniero di turno, la condanna a una mediocrità di medio bassa classifica che non può che stringere il cuore a chi ha vissuto le notti di Liverpool o Leverkusen.
Emblematiche le voci sul possibile trasferimento di Baggio a Udine nel 2000, con Giampaolo disposto a pagare i sette miliardi d’ingaggio in un mix tra amor di popolo e scaltra operazione commerciale, ma il figlio Gino preoccupato che lo stipendio monstre avrebbe destabilizzato gli equilibri di spogliatoio. Finì a Brescia, e con il massimo rispetto per gli amici bresciani, l’Udinese di inizio anni 2000 sarebbe stato senza dubbio un ambiente più consono alle ultime magie del Divin Codino.
I tempi migliori sono alle spalle. Difficilmente torneranno, anche se negli ultimi due anni si è visto un miglioramento, segno che qualche riflessione in società è stata fatta. Quindi Udine regge, anzi, al momento ride sicuramente più dei cugini del sobborgo londinese. Soltanto l’estate scorsa nell’Albiceleste che ha riportato in Argentina la Coppa America dopo trenta dolorosi anni di astinenza figuravano de Paul, Molina e Musso. Il futuro? Difficile da prevedere, specie quando calerà il tramonto sul quasi quarantennale regno dei Pozzo, che per ovvie ragioni (l’appassionato Giampaolo fresco ottantenne, il calcolatore londinese Gino va per i sessanta) si affaccia sul suo tramonto.
Le voci si rincorrono da anni, se prima si parlava della sciagurata Red Bull, è di questi giorni il mormorio dell’interesse dell’ennesimo fondo americano. Appare purtroppo destinata a restare utopica speranza che se ne voglia occupare la Danieli, multinazionale siderurgica da novemila dipendenti e tre miliardi di fatturato immersa nelle vigne di Buttrio. Ma conoscere la propria identità è il primo passo per sapere cosa poter divenire. La forza di questa terra è la sua eterna attrattività. Etnicamente e culturalmente è certo meno affine del Veneto al resto della penisola, eppure rispetto ai vicini i friulani sono portati a una più facile assimilazione dello straniero proprio grazie alla coscienza (reale e non caricaturale) della propria effettiva alterità, sempre rivendicata con orgoglio ma mai esacerbata.
Difficilmente un napoletano come Di Natale avrebbe piantato radici a Treviso, difficilmente un Sanchez avrebbe comprato una tenuta in Valpolicella, difficilmente uno Zico tornerebbe con frequenza a salutare in dialetto i vecchi amici padovani. Difficilmente un’altra terra saprebbe esprimere un così alto numero di allenatori d’élite se non avesse un’innata apertura culturale imposta dalla storia unita a una non lamentosa consapevolezza delle amarezze che la vita porta in dote.
Lo si intuisce osservando le croci dorate dei corredi funebri dei nobili longobardi, crasi esemplare tra cristianesimo e mitologia norrena. O passeggiando per Cividale, dove la statua di un benevolente Giulio Cesare si erge accanto al misterioso ipogeo celtico, dove il tempietto longobardo veglia sulle tombe dei primi duchi del Friuli in armonia con il Duomo patriarcale. Dove tutt’oggi, a ben seicento anni dalla caduta (tale solo nei libri di storia) della Patria del Friuli, a ogni epifania viene organizzata una sfilata medievale in onore del patriarca Marquardo di Randeck, preceduta dalla messa di benedizione della sua spada. Tra le figuranti potreste vedere ragazze slanciate, visi affilati, alti zigomi slavi incorniciati da lunghi capelli biondi di nordica ascendenza e occhi mediterranei. Questo è il Friuli. La sua migliore garanzia sarà sempre un identità unica, timone a cui aggrapparsi per navigare oltre le future burrasche. Riassunta nel motto della Divisione alpina Julia, con il suo sacrificio patrio estrema protagonista della più disgraziata pagina militare italiana, la campagna di Russia. “Anin, varin fortune”. Andiamo, avremo fortuna.