Un amore mai nascosto per i colori rossoneri, iniziato con un battesimo singolare.
“Giulio, che è quella faccia? Che ttieni?” “Come che ttengo, al Milan!”.
Anni ’70: i rossoneri stanno regalando più dolori che gioie ai tifosi, il sentimento largamente diffuso verso una squadra che singhiozza ormai da troppo tempo è lo sconforto. Lo stesso dipinto sul volto di quel Giulio, il Basletti di “Romanzo Popolare”, una delle commedie più iconiche dell’epoca: un malinconico e bistrattato operaio, nato dalla fine penna degli sceneggiatori Age e Scarpelli, trascorre la settimana in fabbrica in attesa che arrivi la domenica, che giochi il suo Milan; incurante del fatto che la moglie Vincenzina – una giovanissima e affascinante Ornella Muti – gli preferisca, tra le lenzuola, un bel poliziotto pugliese, al secolo Michele Placido. Per il Basletti infatti il calcio è un’ossessione.
Ad interpretare, divinamente, il Caciavit, sfegatato tifoso tradito dalla moglie e dal suo Milan, un grande della commedia all’italiana: Ugo Tognazzi. Vecchia scuola di recitazione, artista poliedrico, un sommo filosofo moderno che ha lasciato ai posteri un’ardua sentenza illuminista:
“Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?”
Una scelta, quella di assegnare all’attore di Cremona i panni del Basletti, quanto mai azzeccata: lui, rossonero nella carne e nell’anima, ha saputo regalare “al Giulio” un realismo toccante, senza un briciolo di finzione. Tutte le ansie per quei colori non erano scritte sul copione, quel sentimento di sofferenza verso una fede calcistica avara di riconoscenze era già lì, ben presente nel cuore di Tognazzi.
Si è sempre definito “un milanista dal battesimo”, più che dalla nascita: colpa, o merito, di uno zio guascone, che per le sue idee bizzarre avrebbe potuto trovare un posto d’onore in Amici Miei, tra il Conte Mascetti, il Professor Sassaroli e Rambaldo Melandri. Le radici cremonesi di Tognazzi, inevitabilmente, lo legavano ai colori grigiorossi della città ma lo zio, poco prima dell’immersione nella fonte battesimale, gli legò agli attributi un nastrino rossonero. Il sigillo dell’unione era stato apposto: come dire, il Diavolo incontra l’Acquasanta, con buona pace del celebrante.
Uniti in quel rito, Tognazzi ed il Milansi ameranno per tutta la vita: prima il trasferimento nel capoluogo meneghino per respirare l’aria di San Siro, poi le trasferte, mano nella mano con lo zio – che poi parente non era, ma un amico in affari del papà chiamato bonariamente così per compiacerlo. Il piccolo Ugo aveva già girato l’Italia in lungo e in largo, con ogni condizione metereologica, per seguire le gesta sportive dei rossoneri.
Per lui, gli eroi nel prato verde avevano il nome di grandi bomber come Mario Romani, Aldo Boffi, Pietro Arcari – un campione del Mondo 1934 con l’Italia di Vittorio Pozzo, che giocò anche tre stagioni nella “sua” Cremonese – ma quando, al campetto sotto casa, era tempo di indossare maglia e pantaloncini, l’Ugo ragazzino prediligeva mettersi in porta. Forse per guardare negli occhi quegli attaccanti tanto amati dalle tribune: e così nacque quel soprannome, “il Zamora di Porta Vittoria”, per i grandi riflessi, simili – con le dovute proporzioni – a quelli del fenomeno portiere spagnolo. I primi applausi della sua carriera arrivarono proprio in quel campo sterrato e Ugo non li dimenticò mai.
Con l’adolescenza Tognazzi lasciò Milano e la porta, per passare prima a centrocampo, poi in fascia e, definitivamente, in tribuna. Sì perché se tra i pali aveva fatto vedere qualcosa di buono, come giocatore di movimento non c’era speranza.
“Ero una schiappa. Nessuno mi faceva giocare e a quel punto ho fondato una squadra, la Bonizzoni Calcio, così chiamata in onore di uno strepitoso terzino del Milan, Giuseppe Bonizzoni”.
La faccia tosta tanto amata dagli italiani del Tognazzi attore era già ben impressa sul volto di quel giovanotto: Ugo tornò a Milano per incontrare il giocatore, informarlo della squadra fondata a suo nome e chiedergli, senza troppi giri di parole, 11 mute da gioco, 11 paia di scarpe e 1 pallone. E ottenne tutto: la cosa fece così scalpore dalle parti di Cremona che attirò ottimi giocatori, desiderosi di indossare le maglie ufficiali del Milan. Ci furono così tante adesioni di talenti, che Tognazzi fu costretto ad autoescludersi dal suo stesso club. La strada da attore comico era già, inconsapevolmente, iniziata.
Ma anche durante l’intensa professione, Ugo non trascurò mai il suo amore per il Milan e per il calcio. All’epoca le compagnie teatrali, una volta abbassato il sipario, formavano squadre di calcio per sfidarsi tra loro. Dagli sketch ai tackle, dalle battute alle proteste, dai camerini agli spogliatoi il passo era breve: una rivalità talmente accesa che Tognazzi, insieme al suo compagno di palcoscenico Raimondo Vianello, scritturava ballerini bravi più sui tacchetti che sulle punte.
Da un lato il coreografo: “Ronde de jambe e tour en l’air? Sublime!”. Dal fondo della sala, le voci di Tognazzi e Vianello, all’unisono: “Dribbling?” “Come, scusi?” “Avanti il prossimo!” per la disperazione del regista. Si finiva per scritturare un corpo di ballo che non sapeva danzare, ma che in campo diventava una specie di nazionale. E gli scontri con le altre compagnie avevano la stessa carica di tensione dei derby tra Stella Rossa e Partizan.
Per portare a casa la vittoria, si utilizzava ogni mezzo possibile, lecito e illecito. Come accadde a Tognazzi alla vigilia della sfida contro la compagnia capitanata da un altro grande attore del passato: Renato Rascel. In quella occasione, il coreografo di Ugo disse al maestro: “Ho un amico che gioca da fenomeno, potremo chiamarlo per la partita. Ha giocato nel Monza”. “Se lo riconoscono dalle tribune succede un macello – rispose Tognazzi – ma vale la pena correre il rischio”.
Prima del fischio d’inizio, Rascel decise di andare in ispezione negli spogliatoi avversari e adocchiò subito il fuoriquota: “E tu chi sei?”, “Un orchestrale” esclamò l’ex giocatore brianzolo. Allora Rascel, che aveva mangiato la foglia, gli sparò una domanda a bruciapelo difficile anche per un fine conoscitore di spartiti musicali. L’oriundo ebbe la battuta pronta: “Io suono a orecchio”. Non era un attore, ma data la qualità nell’improvvisazione, avrebbe potuto diventarlo. E in campo, poi, diede spettacolo. Per la gioia di Tognazzi: che amava vincere, in campo, con la sua “nazionale teatranti”, e con il Milan, da spettatore, in tribuna.
Un tifoso immancabile a San Siro, Tognazzi fu sempre fedele ai colori rossoneri: solo la Cremonese, in serie A nella stagione 84-85, fece traballare una storia di passione e sentimento tra Ugo e il Milan. Ma fu una scappatella, durata il tempo di una stagione:
“Il Milan per me è stato prima la mamma, poi la fidanzata e poi la moglie. E la moglie si tradisce: il tradimento c’è stato, quando la Cremonese è arrivata in serie A. Mi dividevo tra moglie e amante con grande imbarazzo quando giocavano fra loro, come quando le due donne si incontrano ad una festa e tu non sai dove guardare. Poi la Cremonese è tornata in B e ho abbandonato quell’amore impossibile.”
Tornando dalla sposa, attempata ma di prestigio.
Ne aveva condiviso gioie e anche dolori, come nel 1980: il baratro della retrocessione a causa del Calcioscommesse, per il Milan, e una fase calante nella carriera di attore, per Ugo. Ma i grandi, si sa, non mollano mai: e così in poco meno di 12 mesi, insieme, come a braccetto verso l’altare, tornarono a respirare l’aria pura, quella della ribalta. L’anno dopo la discesa agli inferi per entrambi, mentre il Milan combatteva e ritrovava il palcoscenico della serie A, Tognazzi riceveva la Palma d’Oro come miglior attore al festival di Cannes per la sua parte, impeccabile, nel film “La tragedia di un uomo ridicolo” di Bernardo Bertolucci.
Lui che nella vita ridicolo non fu mai. O forse sì, durante quel battesimo con il nastrino rossonero allacciato alle palle: l’istante che lo legò per sempre al Milan. Gioie e dolori.