Estero
06 Ottobre 2022

L'ultima danza al vecchio Wembley

Cala il sipario su uno stadio che ha fatto la storia.

Nel marzo del 1998 la Football Association conferma, dopo anni di incertezze, quello che molti si aspettavano. Wembley verrà demolito. Dalle sue macerie nascerà il nuovo impianto: moderno, capiente e senza l’anima che l’Empire Stadium possiede dal lontano 1923. I tempi cambiano e sull’isola lo sanno bene. Il pugno duro della Thatcher, una decade prima, ha accelerato il processo di rinnovamento del football nazionale. Uno tsunami che non risparmia nessuno: tifosi, squadre, campionati. Il romanticismo non è un sentimento che Lady Margharet serba nel proprio cuore. Dunque, addio al simbolo di un’era. Ombelico del mondo quando i “maestri” si autodefinivano i migliori; testimone dell’unico, lontano trionfo della nazionale bianca; arena perfetta per le note di Pink Floyd, Queen, Genesis.

Gli ultimi ad aver scaldato una platea da 70mila persone, quei ragazzacci talentuosi nati nei dintorni di Manchester: tra il 21 e il 22 luglio del 2000, gli Oasis infiammano la folla con ballate melodiche e rock a tutto chitarre. Serate dalle quali ricaveranno il live Familiar to Millions.

Oasis. Un nome che fa rima con Cool Britannia. Stagione scintillante e fulminea, che aveva colorato con impeto la coltre grigia che gravitava su Albione nei primi ‘90. Gallagher, Albarn e Ashcroft in classifica. Full Monty al cinema, Trainspotting in libreria. Mansell e Hill in pista. In campo, gli ultimi fuochi di Gazza il dannato. Elton John e Lady Diana. London Swings Again!titolava orgoglioso Vanity Fair Anni vissuti al massimo, che nascono e tramontano con la velocità di Song 2. La parola fine la scrive The Economist con un editoriale in cui afferma, senza mezzi termini, che la gente era esausta di quella espressione.

Il sipario sullo stadio per antonomasia chiude un’epoca, oltre che un secolo. Il football non è ancora tornato a casa e, da quel giorno, si sente anche più solo. Naturale immaginare che le emozioni di quel 7 ottobre, sublimate in negativo da una sconfitta, fossero il perfetto connubio di un’agrodolce nostalgia.



Tutto ricorda quelle lunghe storie d’amore che stanno per volgere al termine. Malinconica presa di coscienza che si scontra con un flebile desiderio di poterla allungare ancora, sperando in qualcosa che mai accadrà. La sensazione per i presenti sugli spalti quel pomeriggio deve essere stata più o meno questa. Nessuno voleva assistere alla demolizione della casa del calcio britannico. Ma nessuno poteva fare altro se non sognare un finale alternativo che non esisteva. Perché era già scritto che quel giorno, nei dintorni di South Way, i cancelli si sarebbero chiusi per l’ultima volta. Niente più corse dei cani, nè sporadico rugby. Niente più calcio, soprattutto. Al fischio finale di Braschi, Wembley saluta per sempre. Ci sarà tempo per rimpiangerlo, prima ci si gode l’ultimo grande match.

Contesa dal sapore antico, come quella tra due vecchi pugili sul viale del tramonto. Non sono i più forti, non sono in salute, ma sono pur sempre Inghilterra contro Germania.

È la classica giornata, sotto il cielo plumbeo, di questo pezzo d’Europa sparso tra le correnti del mare del Nord. Il sole va e viene. Il termometro segna 11 gradi. Pioverà, non vi è dubbio. Fosse anche per cinque dannati minuti. Quel che basterà per rendere l’erba di un verde smeraldo che si può ammirare solo qui, tra Edimburgo e Brighton, Liverpool e Dublino. Le radio passano in heavy rotation What It Is di Mark Knopfler e Beautiful Day, freschissima prima traccia del nuovo disco degli U2. Uno scozzese e un gruppo di irlandesi. Per cercare qualcosa che abbia salde radici sotto la bandiera di San Giorgio bisogna ingegnarsi. O rimettere nel walkman 13 dei Blur, o virare verso il pop smaccato delle All Saints. L’atmosfera sembra essere quella di sempre. Illusoria bugia. Non può essere la solita partita di qualificazione, se da domani tutto questo sparirà.

Un groviglio di giubbotti casual, l’odore della birra che si mischia a quello delle salsicce che friggono. Talmente tanto da annerirsi in superficie. Nuvole di Marlboro, note stonate di canti patriottici, poi tutti volgono un ultimo sguardo verso le Twin Towers e chi se ne importa delle più famose sorelle americane. Nel nord di Londra, di torri gemelle esistono solo queste. Chi si è portato la fotografica usa e getta, scatta l’ultima istantanea. Le ringhiere grigio metallizzate che salgono i gradini verso due bianche costruzioni neoclassiche. Bastioni che simboleggiavano l’Impero, il tempo di un Regno Unito che non c’è più. Come, tra poco meno di due ore, il suo stadio icona. Il nuovo emblema sarà un immenso arco, ma potrà mai essere la stessa cosa?


A maggior ragione dopo la scomparsa del vecchio Wembley


In cartellone, “la gara” del girone di qualificazione al Mondiale del 2002. Sia i padroni di casa che gli uomini di Voller sanno che il biglietto di prima classe per l’Estremo Oriente lo stacchi solo se prendi punti negli scontri diretti. Altrimenti, son dolori e spareggi. I precedenti sono molti, ma il più recente è un brutto ricordo per lo spettacolo che gli hooligans hanno offerto, devastando il centro di Charleroi nelle ore del pre partita. Kevin Keegan si gioca il posto da ct con una formazione che non si distacca molto da quella messa in campo a Euro 2000. Gli altri non è che stiano meglio. Gira voce che la Federazione voglia rifondare, con un progetto ad ampio respiro che ha come obiettivo la rassegna casalinga del 2006.

E allora, per il momento, ci si affida a quel poco che si ha: vecchi reduci dell’era Vogts e qualche volto nuovo. Tipo Michael Ballack, crack del Leverkusen, che dopo nemmeno un quarto d’ora si guadagna fallo sulla trequarti. Dietmar Hamann, mediano del Liverpool, senza pensarci troppo spara un destro da trenta metri che ha il solo intento di schizzare sul prato bagnato e creare problemi a Seaman. Il quale si erge a protagonista in negativo, buttandosi in ritardo su quel tiraccio sporco e centrale. 1-0 per gli eterni nemici. Attaccare a testa bassa con Owen, Beckham e il vecchio pirata Tony Adams non serve a nulla. E pensare che, per l’occasione, si erano affidati alla scaramanzia, indossando la seconda maglia rossa. Quella che fa tanto Bobby Moore e il gol fantasma di Geoff Hurst dei ragazzi del ‘66.

“A sad farewell” titola BBC Sport. Sport’s Illustrated rincara la dose e parla di doppio addio. A Wembley e a Keegan. Esonerato, dopo un biennio devastante con i Tre Leoni.

Ora è finita per davvero. Ed è un sipario triste, senza nemmeno il romantico ricordo di una vittoria a suo modo storica. Finisce con una sconfitta grigia, come le nuvole che aleggiano sulla City. Come lo smog dei double deckers che ripartono verso il centro. Qualcuno potrà dire “io c’ero”. Chissà se sarà così indimenticabile da ricordare; col tempo, forse. Ora però bisogna farsi passare la nostalgia. Due pinte al pub, un salto alla sala scomesse e magari al cinema. Dicono che quel Guy Ritchie ci sappia fare nel raccontare, in tono scanzonato, la criminalità dell’East End nel suo nuovo film Snatch.

I giornali dei giorni successivi insistono nello scrivere che il sostituto di Keegan sarà Sven Goran Eriksson. Uno svedese per la panchina della selezione inglese… ma se nessuno straniero vi si è mai seduto sopra prima! Dev’essere proprio vero che il terzo millennio sarà un’era di drastici cambiamenti.

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