Perché è importante che lo sport non dimentichi la sua dimensione religiosa.
Il calcio è uno sport cultuale. Ciò significa che tra i professionisti del gioco – pagati per compiere le sue arti – e i suoi fruitori, i tifosi, non si dà distanza ma intima connessione, dialogo. Eppure, per una sorta di tacita legge non scritta, di codice d’onore feudale, è bene che entrambi i poli della relazione – tifosi e professionisti, appunto – rimangano (e si pensino) come ben distinti l’uno dall’altro.
Certo oggi le cose rispetto a qualche anno fa – diciamo fino agli anni Novanta, con l’avvento delle pay-tv – sono cambiate. I nostri padri e molto più i nostri nonni possono ancora raccontarci di uomini-calciatori a stretto contatto con la gente e non di pop-star rintanate nella propria bolla di fama e successo, al riparo dai fumi maleodoranti dei poveri tifosi. D’accordo, ma il tifo non se ne è mai andato. Magari è cambiato, si è evoluto – non per forza in senso positivo, anzi – ma è ancora qui, vive e lotta insieme a noi. E insieme ai calciatori, loro malgrado.
«Il casino che hai fatto è stato un momento cruciale in tutto questo, perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori, e se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio?».
N. Hornby, Febbre a 90°
Credere che i calciatori stiano da una parte e i tifosi dall’altra non è un’opinione, ma una menzogna. Il calcio in quanto tale, nella sua stessa essenza, è la dinamica sportiva, emozionale, psicologica, sociale, religiosa instaurata dal dialogo (anche non voluto) tra professionista e tifoso. Detto altrimenti, quando Nick Hornby scrive, parafrasando, che senza il tifoso a nessuno fregherebbe niente del calcio, l’autore inglese non sta semplicemente romanzando l’esperienza da stadio, ma sta sottolineando un legame ontologico: non si dà il calcio senza i tifosi.