Francesco Maria Prisco
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L’Ungheria è una terra aliena in seno all’Europa, casa di un popolo che proveniva dallo sconfinato spazio geografico al nord dell’Iran chiamato Turan. Patria di popoli nomadi e conquistatori come i Magiari, che diedero il loro nome a questi luoghi. Millenni dopo, la fine della Grande Guerra e la nuova indipendenza del Regno di Ungheria rendono inebriante l’aria di Budapest: in questo nuovo clima il Paese è culla di grandi uomini di scienza ma anche e soprattutto di calcio. Persa la coabitazione con l’Austria per il dominio sull’Europa Orientale, questo popolo piccolo per numero ma grande per invettiva sviluppa un tipo di calcio così avanzato da poter essere definito sperimentale, quasi scientifico.
Da qui, come in un poema tragico ed epico, le tempeste si abbattono sul Paese spargendo ai quattro angoli del globo gli ancor sconosciuti geni della scuola ungherese. I Magiari, Prometei senza catene, portano il loro Fuoco in tutto il mondo: in Sud America La Máquina (soprannome dato alla squadra di calcio del River Plate negli anni ’40) fonda i suoi successi sulle basi gettate dal genio tattico di Imre Hirschl – che comunque al River aveva vinto due campionati, ’36 e ’37 –, mentre Izidor Kürschner, dopo anni di trionfi nazionali in Svizzera tra cui la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Parigi nel 1924, emigra in Brasile portando con sé nuovi metodi di allenamento, il modulo WM (o 3-2-2-3) e guidando la nazionale verde-oro alla conquista della terza Copa América. Anche in Italia i magiari scrivono la storia: Árpád Weisz è campione d’Italia con Inter e Bologna mentre Ernő Erbstein, il 4 maggio del 1949, muore portando con sé nella leggenda il Grande Torino.
In Patria però si consuma il vero grande miracolo della scuola di calcio magiara, ovvero la creazione di una delle nazionali di calcio più forti della storia.
L’epoca d’oro del calcio ungherese non è certo riassumibile in un singolo articolo, probabilmente non basterebbe un libro, ma un paio di riferimenti di quella nazionale tra il 1950 e il 1956 sono necessari. L’Aranycsapat (squadra d’oro) domina fino alla rivoluzione anti-sovietica: come scrive anche il sito della Uefa «da giugno 1950 a febbraio 1956, l’Ungheria perde una sola partita su 50: la controversa finale di Coppa del Mondo FIFA del 1954 contro la Germania Ovest». Ma gli ungheresi segnano la storia del calcio non solo per i numeri, ma soprattutto perché inaugurano una nuova fase della storia del calcio. Il flessibile modulo MM o 2-3-3-2 del leggendario selezionatore Gusztáv Sebes, ex sindacalista della fabbrica Renault di Budapest, permette veloci scambi tra attacco e difesa a seconda di quale fase di gioco viva la squadra.
Inoltre il sistema Sebes contempla la mobilità dei difensori e la pressione dei centrocampisti, primi marcatori degli attaccanti avversari; gli attaccanti, invece, cercano la profondità. L’altra rivoluzione del proto-calcio totale magiaro è poi la versatilità. A differenza del football di Sua Maestà, Sebes concede ampia autonomia tattica ai suoi calciatori. Basti pensare che Puskás in persona descrive lo stile di gioco della nazionale dell’epoca così:
«Quando attacchiamo, tutti attaccano, ed era lo stesso per la difesa. Eravamo il prototipo del calcio totale».
La rivoluzione ungherese nel calcio raccoglie una Coppa Internazionale (precursore del campionato europeo) e la prestigiosa medaglia d’oro alle olimpiadi ai Giochi di Helsinki nel 1952, dove si mette in luce il capitano Ferenc Puskás e la squadra, in cinque partite, segna la bellezza di 20 gol subendone solo 2. Tra la vittoria olimpica e il secondo posto al mondiale svizzero del 1954 ci sono poi due eventi – o meglio due incontri – decisivi: Inghilterra-Ungheria 3-6 del 25 novembre del 1953 e Inghilterra-Ungheria 1-7 del 23 maggio del 1954. Non solo semplici amichevoli, ma scontro tra culture: i Tre Leoni, gelosi e un po’ arroganti detentori del football, hanno prima di allora perso una sola partita casalinga risalente al 1949 contro l’Irlanda. E contro l’Ungheria insistono nella loro vanità, presentandosi in campo con il modulo WM opposto al rivoluzionario MM dei Magiari.
Il primo minuto, davanti ai 105 mila di Wembley, costituisce già uno spartiacque del calcio europeo: gli inglesi non sono più i maestri del football. Il gol segnato da Nándor Hidegkuti nella prima delle due partite sancisce il sorpasso, l’onnipotenza tattica e tecnica dei rivoluzionari ungheresi; e pensare che la bacheca della nazionale resta in definitiva – e ancora oggi – abbastanza povera di trofei: l’ultimo nel 1968, con la conquista dell’oro olimpico ai Giochi di Città del Messico. Dopo la presa del potere da parte dei comunisti e la collettivizzazione dello sport, infatti, la nazionale di calcio ungherese scompare dai grandi palcoscenici. Per rivederla nei maggiori tornei internazionali bisogna aspettare l’Europeo del 2016 in Francia, dove passa il girone per poi arrendersi al Belgio agli ottavi di finale.
Quattro anni dopo, guidata dall’italiano Marco Rossi, la Nazionale riesce a riqualificarsi per il torneo a scapito dell’Islanda grazie al gol di Dominik Szoboszlai – stell(in)a della squadra, che però non parteciperà all’europeo causa infortunio. Sorteggiata in un girone di ferro, anzi nel girone di ferro, l’Ungheria è sulla carta la squadra cuscinetto del gruppo F e, secondo tutti i bookmakers, ha chance di passare prossime allo zero. Quasi come uno scherzo del destino poi, la Nazionale affronterà la Francia campione del mondo in carica, il Portogallo campione d’Europa e la Germania: isolata nel girone così come in politica, con le grandi nazioni del Vecchio Continente che spingono per metterla all’angolo.
Membro UE dal 2004, il Paese è guidato da oltre un decennio dal Primo Ministro Viktor Orbán, già capo del governo dal 1998 al 2002. I suoi esecutivi si sono distinti nel corso degli anni per politiche in aperto contrasto con le direttive europee: dal ruolo della Legge alla crisi migratoria, dai rapporti con Pechino a quelli con la Turchia di Erdoğan. Ultimamente poi le relazioni con la stessa Germania sono precipitate anche nel calcio: vi ricordate la vicenda di Zsolt Petry, preparatore dei portieri dell’Herta Berlino licenziato dalla società tedesca per aver espresso concetti “non compatibili con i valori del club”? Questi aveva detto:
«Non capisco come l’Europa possa essere così moralmente in basso. La politica sull’immigrazione esprime questa decadenza. L’Europa è un continente cristiano. Continuiamo a vivere nei valori nazionali che abbiamo imparato negli anni. I liberali gonfiano ogni opinione contraria. Se credi che l’immigrazione non sia un bene pensano che tu sia razzista».
E ancora: «Non so cosa abbia spinto Peter – Gulaksi, portiere del Lipsia e della nazionale ungherese, ndr – a prendere posizione in favore degli omosessuali, dei travestiti e di altre identità di genere. Se fossi in lui come atleta mi concentrerei più sulle questioni sportive e non entrerei nel merito delle questioni sociali e politiche». Bene, il governo Orbán aveva addirittura risposto al licenziamento di Petry convocando l’ambasciatore tedesco a Budapest, pretendendo chiarimenti e invocando il diritto alla “libertà di espressione”. La stessa libertà che ha rivendicato il premier ungherese quando, per giustificare i fischi dei tifosi ungheresi all’inginocchiamento pro Black Lives Matter dei calciatori irlandesi, ha dichiarato:
“Gli ungheresi si inginocchiano solo davanti a Dio, al proprio Paese e alla donna che amano quando le chiedono la mano”.
Viktor Orbán
Più chiaro di così, è difficile. Oggi comunque l’Ungheria esordirà nell’europeo contro il Portogallo, e sarà la prima partita con lo stadio a capienza piena. A Budapest, allo stadio Ferenc Puskás (guarda caso), le limitazioni anti covid saranno solo un lontano ricordo e la Nazionale di casa verrà sostenuta da 60mila tifosi: non male come metodo per provare a ribaltare i pronostici, e per far sentire ai calciatori tutto il peso della maglia che indossano. Tornando comunque alla squadra e all’eta dell’oro, per una lettura di approfondimento sull’epoca d’oro del calcio ungherese consigliamo il saggio di Jonathan Wilson intitolato “The Names Heard Long Ago” (pubblicato nel 2019 nel Regno Unito da Blink Publishing), che ha fatto riscoprire al grande pubblico i rivoluzionari uomini agli albori del calcio moderno.
Alcuni sono diventati stelle nel firmamento di questo sport mentre altri, dimenticati dalla storia, sembrano perdersi nella leggenda e appartenere alle gesta antiche cantate da un bardo. Le idee di questi uomini, tuttavia, non sono morte con loro. Le innovazioni tattiche e di allenamento della scuola ungherese hanno gettato le basi per altre due grandi scuole di pensiero calcistico: il calcio totale olandese di Rinus Michels (e non solo lui) e quello sovietico di Valeriy Lobanovskyi. A questi uomini magiari e alle loro azioni, effettivamente, andrebbe dedicata un’Odissea: perché oggi la Nazione è quasi un’intrusa nell’Europa calcistica che conta, espressione più dell’Est illiberale che dell’Ovest democratico e progressista, destinata sul campo al massimo a ben figurare. Eppure, senza la tradizione della Grande Ungheria, nessuno può sapere cosa ne sarebbe stato del calcio continentale.