Da qualche anno, con un caro amico, abbiamo preso l’abitudine di vagare i fine settimana per periferie romane (per lo più di mattina, con colazioni sorprendenti e dall’ottimo rapporto qualità-prezzo). Una cosa pasoliniana fuori tempo massimo, che a dirla sembra anche un po’ patetica ma a farla anestetizza quel male di vivere causato dalla civilizzazione – così la chiamano – occidentale. La scorsa domenica, in una giornata battistianamente uggiosa, eravamo a Laurentino 38, nell’estremo sud di Roma. A caccia della bettola più fatiscente che ci fosse, quella più vicina alle case popolari mangiate dal degrado e dalle intemperie, l’abbiamo infine trovata in un bar gestito da due egiziani.
Un luogo dell’anima, incontaminato dal progresso, dall’autentico quanto inconsapevole cattivo gusto. Mascherine neanche l’ombra, green pass figuriamoci, in compenso una suburra di clienti mezzi sciancati e già votati alle Ceres alle 9.30 di mattina (fuori) e un clima da festa di paese (dentro) con le famiglie dei due radunate tra mogli, figli e chi più ne ha più ne metta. In tutto ciò, tra improbabili tramezzini e un arredamento ibrido mediorientale-periferico romano, svettava una foto di Mohamed Salah con la maglia della Roma: una volta scoperto che i gestori venivano dall’Egitto, con fare paraculo ho chiesto loro come avessero vissuto l’addio di Momo dalla capitale. Da lì il racconto:
«ma non sai. Tutte le mattine che andava in moschea, che qua è di strada (?), lui si fermava qui: mangiava qualcosa e parlavamo di tutto, ma una persona *smack* (si bacia le dita). Ti giuro una persona straordinaria, di cuore, sempre gentile, umile, buono proprio».
Me lo sono immaginato Mohamed Salah, la mattina presto prima di andare in moschea, in quella bettola dell’estrema periferia romana incastonata tra i palazzoni popolari. E la cosa mi ha fatto molto pensare. Che ne sarebbe stato di Salah come calciatore senza la sua fede – e l’etica da essa derivata? Che ne sarebbe stato del Salah calciatore senza il Salah uomo? Certamente, o almeno credo, non avrebbe mai raggiunto certi livelli. Da qui però si apre un’enorme questione: ma siamo sicuri che un giocatore forte non debba essere prima un uomo forte, per citare un altro ex Roma come il buon Spalletti?
Nel calcio in fondo ha sempre funzionato così. A costo di passare per nostalgici, il pallone era questione di uomini ancor prima che di calciatori: di gerarchie quasi militari, di spogliatoi dittatoriali in cui vigeva una vera e propria tirannia dei senatori che ridimensionavano le pur ottime matricole; una scuola di vita in cui bisognava crescere in fretta, un ambiente privilegiato ma che ancora non aveva vissuto una netta frattura con la quotidianità delle persone.
Di tutto ciò si alimenta il mare della nostalgia, ormai un oceano che nel pallone può contare milioni di adepti: non tanto e non solo della Serie A delle sette sorelle, del grande calcio italiano degli anni ’90 e dei suoi campioni, quanto invece delfenomeno popolare all’epoca ancora riconoscibile, vicino;unanostalgia degli uominiprima che dei giocatori. Oggi al contrario, soprattutto nelle leghe maggiori, si è rotto il vincolo di rappresentanza e il football è diventato un mondo a parte, una sorta di bolla dorata (e viziata) con le sue regole interne che si avvicinano sempre più a quelle dello showbiz.
Lo sport è diventato uno spettacolo, gli sportivi degli influencer; la narrazione si è trasformata in pettegolezzo, il calciomercato in una telenovela.
Gli spogliatoi stanno perdendo con gli anni il proprio carattere di scuole di vita, piccole caserme in cui vivere, nel bene e nel male, le inevitabili dinamiche di gruppo. Recentemente ad esempio Balotelli ha rilasciato un’intervista svelando il trattamento che gli riservava Ibrahimovic: duro in allenamento, ancor più duro a parole – «lascia perdere, il calcio non fa per te. Sei troppo scarso, è meglio se te ne vai a studiare… me lo ripeteva in continuazione». Eppure Ibra, secondo la versione di Mario, poi consigliò a Raiola di prenderlo in procura perché “fortissimo”, come un padre severo che a casa sgrida il figlio ma fuori lo elogia e si spende per lui.
Questa durezza era prassi, e su di essa contavano anche gli allenatori. Tempo fa Mourinho, a proposito di uomini forti e leader, ha raccontato un aneddoto indicativo. Ai tempi del Porto, in una partita che la sua squadra stava perdendo per 2-0 a fine primo tempo, lo storico capitano Jorge Costa anticipò l’allenatore negli spogliatoi: «mister, resta fuori e aspetta due minuti».
«Lui entrò, chiuse la porta e fece il lavoro sporco per me. Fece tutto quello che avrei voluto fare io. Vincemmo quella partita 3-2: lui era un difensore centrale, penso non avesse mai segnato un gol nella sua carriera, in quella partita ne fece due».
José Mourinho
Un paio di minuti in cui saranno volati insulti, spinte, magari anche qualche ceffone. D’altronde quel Porto, di cui si parla solo in termini favolistici, vinse tutto perché era una squadra con le palle, non solo col talento. Allora forse non è un caso che oggi Mourinho a tratti arranchi in un football travolto da una mutazione antropologica epocale; che non si trovi a proprio agio con i calciatori trapper del Tottenham, con gli atleti influencer contemporanei, con una Snowflake Generation naturalmente portata al vittimismo, incapace di affrontare il conflitto.
Il fatto che lui stesso sia stato costretto a diventare un animale da social, a lanciare messaggi su Instagram e a postare la foto dei suoi Spurs tutti chini sugli schermi dello smartphone dopo una vittoria, lo inchioda – malgrado un’intelligenza camaleontica – ad un mondo che comunque non è più il “suo”. Mou è sempre stato un animale da spogliatoi importanti; un uomo da capitani, da leader, da uomini veri e di carattere, di quelli che in campo mettono tutto il loro peso e fuori fanno crescere i compagni con l’esempio. Come ha precisato dopo la vittoria di dicembre con l’Atalanta:
«per fare punti contro le grandi non basta organizzazione tattica, serve carattere». Lo stesso mancato pochi giorni fa contro la Juventus.
Il carattere, non solo la tattica. La testa, non solo le gambe. Ma così una volta la pensavano tutti i grandi allenatori, ultimi dei quali Ancelotti e Sir Alex Ferguson, splendidi rappresentanti di quella vecchia scuola di gestori innanzitutto di uomini. Anche qui, siamo certi che il giovane e funambolico portoghese di Madeira sarebbe diventato CR7 se non si fosse trovato nello spogliatoio di Roy Keane, Paul Scholes, Gary Neville, Ryan Giggs, Rio Ferdinand, in una squadra ancora guidata col pugno di ferro dal manager scozzese? Siamo sicuri che avrebbe sviluppato comunque, e così in fretta, quella mentalità e quel carattere da numero 1 del mondo? Difficile dirlo.
Nel frattempo, in pochi anni, nel calcio è cambiato tutto. La stessa polemica “giochisti-risultatisti”, malgrado abbia origini abbastanza longeve (pensiamo innanzitutto ai menottiani vs bilardiani), è una dicotomia molto contemporanea: un tempo come detto, eccetto sparute eccezioni, i grandi allenatori erano pressoché tutti risultatisti, ma non si poneva neanche il problema. A decidere le partite erano innanzitutto gli uomini,uomini dicarattere che in campo si assumevano responsabilità e non stavano neanche troppo a sentire i dettami tattici degli allenatori. Poco a che vedere con i giorni nostri, in cui la tecnologia è sempre più invasiva e il carattere sempre più latitante.
In questa cornice la tattica diventa centrale e i giocatori, prodotti di scuole calcio con un retroterra umano limitato, vivono nella necessità – innanzitutto psicologica e caratteriale – di essere telecomandati dall’allenatore: cresciuti in bolle di benessere, allergici al conflitto, rincoglioniti con i social, eterni giovani anche a 25 anni e non più uomini fatti e finiti già a 22. È un processo d’altronde che investe tutta la società: se i nostri nonni a 25 anni erano sotto le armi, se i nostri padri avevano già un posto fisso e iniziavano a mettere su famiglia, noi tendiamo a prolungare ad libitum il limbo della giovinezza, tra corsi di studio infiniti e insoddisfacenti fine settimana alcolici.
Sia chiaro, tutto questo non è una critica: né ai giocatori né tantomeno a noi. Parliamo di un processo storico fisiologico, ma la domanda di fondo resta sempre la stessa: quanto conta l’uomo per il calciatore? Quanto conta la sua vita? In una recente intervista rilasciata a Rivista 11, ad esempio, Davide Calabria ha più o meno affrontato simili concetti: partendo dai media che dovrebbero essere “più impegnati” per campagne di sensibilizzazione (ancora di più?) e meno nel «mettere alla gogna un ventenne che sbaglia qualcosa in campo o fuori», il terzino rossonero ha poi continuato:
«Tanti ragazzi fanno fatica ad affrontare le pressioni, e a superarle. Per esempio, non è bello ricevere insulti in partita, e non è facile giocare in uno stadio come San Siro. Devi essere caratterialmente molto forte, perché sennò ti uccide. E poi sei costretto ad andare via».
Caro Calabria, con tutto il bene e l’umana comprensione per i ragazzi, ciò fa da sempre parte del gioco. Di più, è anche dal modo in cui un atleta riesce a gestire le pressioni che si misura il suo valore – per citare Djokovic e Nadal. Cosa pretendiamo altrimenti, un calcio a porte chiuse per preservare il fragilissimo equilibrio psichico dei giovani calciatori? Un football di cui le più importanti promesse, di scena magari a San Siro, non sappiano gestire “gli insulti in partita” (chissà che ne penserebbe Ibra)? E basta un po’ con queste lagne!
Così si banalizzano pure i disturbi mentali, fino al punto in cui una Naomi Osaka può motivare la sua “depressione” con la pervasività dei media i quali «mettono in discussione chi sono» (ci vuole così poco?). E giù le grandi riviste a metterla in copertina (da Vogue a Sports Illustrated), le aziende di giocattoli a inaugurare una barbie col suo nome, Netflix a dedicarle un documentario. Ecco il marchio Osaka che nel 2021 l’ha resa la sportiva più pagata di sempre, per il secondo anno consecutivo l’atleta con più guadagni al mondo: 37,4 milioni di dollari nel 2020 di cui 3,4 dai risultati sul campo e 34 dal portafoglio di sponsor; 60 milioni nel 2021 di cui ben 55 dai contratti di sponsorizzazione.
Essere sportivi professionisti, soprattutto ad alti livelli, comporta onori e oneri. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato facile ma in alternativa ci sono altre squadre, altre categorie, altri lavori. Sgonfiamo una volta per tutte questabig bubble di ipocrisia e vittimismo che il campo se ne frega dei buoni sentimenti – ammesso e non concesso che, “buoni”, lo siano veramente.
«Èun mondo che ti porta a crescere molto prima, però devi scottarti», continua Calabria.
E viva Dio! Viva le scottature, le bruciature, le cicatrici. Oggi viviamo in una bolla iper-protettiva e pretendiamo di tutelare tutti, sempre e comunque, come quei genitori che tengono in casa i figli per paura che là fuori si facciano male. Il risultato è solo che diventiamo più fragili, e nel momento in cui siamo costretti ad uscire non sappiamo più dove mettere le mani.
Forse non c’è da stupirsi allora che uno dei nostri calciatori più forti sia Niccolò Barella: grande cultura del lavoro, carattere da vendere, spirito di sacrifico e pochi grilli per la testa; a 24 anni già marito e padre di tre figlie. E tornano alla mente le indicazioni dell’avvocato Agnelli e di Berlusconi, i quali volevano ragazzi sposati il prima possibile: non solo per evitare loro di andare per locali, ma anche per “imporre” una maturazione umana che si sarebbe poi inevitabilmente tradotta in campo.
Insomma, è in corso una rivoluzione copernicana che ha già mutato – e muterà ancora di più – il volto dello sport. Se si toglie dall’equazione calcio il peso degli uomini, o almeno si riduce e di molto la variabile del loro carattere, è naturale che come in una bilancia salga e si rafforzi l’altra parte: quella della tattica, della tecnologia e quindi degli allenatori. In un simile contesto cambia tutto anche per i tecnici perché in campo ci vanno i giocatori, certo, ma se questi sono ridotti a timidi esecutori di uno spartito, il contributo del direttore d’orchestra diventerà sempre maggiore.
Ecco perché un po’ ci spaventa che i top player diventino gli allenatori, perché è una riduzione del peso di chi scende in campo.
Eppure, per quanto il processo possa lasciarci perplessi, a rischiare sono tutti quegli allenatori della vecchia guardia cresciuti in un altro mondo e in altri spogliatoi: vittime potenziali della transizione post-umanacalcistica che, se non trovano l’intelligenza di rinnovarsi, rischiano di essere travolti dal corso della storia e dal mondo nuovo (il rimando ad Aldous Huxley, in questo senso, è puramente voluto).
In fondo fino a qualche anno fa, soprattutto se eri uno come Mourinho o Sir Alex, riuscivi a vincere in tanti modi: caricando i giocatori, contando sulla loro personalità, trasformando in atto tutto quello che avevano – caratterialmente – in potenza. O pensiamo davvero che convincere gente come Eto’o, Rooney e Pandev a fare i terzini, e spingerli a farlo come se si trattasse di una questione di vita o di morte, fosse solo una questione di tattica? Il problema è quando al loro posto ti ritrovi un Nicolò Zaniolo o un Dele Alli: dei talenti in campo, certamente, ma che impongono una gestione a dir poco diversa.