Calcio
20 Ottobre 2020

Uruguay, la terra del pallone

Uscire dall'anonimato geografico tramite il calcio.

Se è vero che gli Inglesi hanno inventato il football, i Francesi organizzato, gli Italiani insegnato ed i Brasiliani ballato, la storia di quello che fu il “meraviglioso gioco” ne testimonia la predilezione per l’Uruguay ed i suoi figli. Risulta quindi doveroso un approfondimento che si potrebbe definire di “antropologia calcistica”, magari esagerando un po’, nel tentativo di indagare l’essenza del futbol celeste, che risale proprio ai caratteri delle popolazioni che vivevano in tale territorio sin dalla notte dei tempi.


Il principio


Il terreno è arato e reso fertile. Il germe è curato da un suddito dell’Impero britannico, come nella maggior parte degli incipit delle vicende calcistiche. In questo caso si tratta di William Poole, giunto attorno al 1890 a Montevideo, dove insegna presso il locale liceo inglese. Dopo i pregiudizi iniziali nei confronti di un passatempo considerato appannaggio di “inglesi pazzi”, il calcio diviene l’espressione di un paese tanto giovane, quanto avanguardista nell’ambito sociale.

Così, nei cortili e sui prati il pallone è lo strumento prediletto dell’integrazione tra ceti ed etnie. Agli albori del Novecento, sulle sponde del Rio de La Plata, immigrati spagnoli, italiani e discendenti degli schiavi dall’Africa si conoscono, si sfidano e si mescolano, combinando tecnica e passi di danza al ritmo di tango, “milonga” e “candombe”. Anche la tattica evolve, discostandosi prima dalla “Piramide di Cambridge”, poi dal “Metodo” del Vecchio Continente, trovando infine l’equilibrio in un peculiare “2-3-2-3”.

La Celeste del 1930

Le due anime di Montevideo


Intanto nella capitale sono venuti alla luce i duopolisti che assoggetteranno il campionato per oltre un secolo, concedendo agli altri club soltanto le briciole. Infatti nel 1891 nasce il Central Uruguay Railway Cricket Club, che nel 1913 è rinominato “Peñarol” in onore della cittadina taurinense di Pinerolo, terra natia di Giovanni Battista Crosa, uno dei fondatori.

Di colori sociali gialloneri, diventa il vanto del ceto popolare e sarà nominato “Club sudamericano del XX secolo”, in virtù della conquista di oltre 50 titoli nazionali e 5 Coppe Libertadores. Otto anni dopo, si celebra la nascita della sua nemesi, ovvero il Club Nacional de Football, originariamente emanazione dell’orgoglio creolo, tanto che la maglia bianca-blu-rossa, ispirata alla prima bandiera uruguaiana, è preclusa ai giocatori stranieri. In seguito raccoglierà il tifo del certo borghese e potrà festeggiare 46 campionati e 3 trionfi continentali.

 
La “hinchada” della tifoseria del Nacional

A proposito, proprio questa coppia di titani dispotici offre gli esempi che permettono di introdurre i due elementi più veraci del futbol uruguaiano. Cominciamo da Abdon Porte, trascinatore e motore della mediana dei Tricolores. E’ arrivato a Montevideo poco più che ragazzino ed ha iniziato a giocare per il Nacional non appena maggiorenne. La sua squadra rappresenta un sentimento viscerale, una ragione di vita.

Quando, all’inizio della primavera del 1918, i dirigenti del club gli annunciato che dalla stagione seguente verrà relegato tra le riserve, l’angustia più inarrestabile lo travolge, tanto che la notte tra il 4 e il 5 marzo 1918 si spara al petto. La mattina viene ritrovato nel centrocampo dell’Estadio Gran Parque Central, di fianco a due lettere. Nella prima rivolge alla madre una disperata richiesta di perdono, mentre la seconda, diretta al presidente del club, è una dichiarazione d’amore:

Nacional anche quando sarò polvere.
E anche in polvere sempre amante.
Non dimenticare un istante quanto io ti abbia amato.
Addio per sempre.

 
Una storia d’amore e di sangue versato

La vicenda di Abdon Porte si perpetua da ormai un secolo, assumendo un significato ancora più profondo in quanto originale e massima espressione del sentimento più caratteristico del popolo uruguaiano, ovvero la “Garra Charrùa”. Se il sostantivo significa alla lettera “artiglio”, è l’aggettivo a fare riferimento direttamente all’omonima tribù indigena che abitava le rive settentrionali del Rio de La Plata. Evocandola oggigiorno, si rende omaggio alla pugnace resistenza che gli amerindi opposero all’invasione spagnola, inaugurata con l’uccisione dell’esploratore Juan Diaz de Solis.

Quasi tre secoli dopo, nel 1831 l’etnia charrùa è stata praticamente sterminata durante la campagna condotta sotto al primo presidente, Fructuoso Rivera. In questa occasione gli indigeni furono attirati nei pressi del fiume poi ribattezzato “Salsipuedes” (n.d.t. Si salvi chi può) e massacrati. La loro eredità spirituale è raccolta e celebrata soprattutto in ambito sportivo, dove richiama un indomito temperamento, acceso da estrema dedizione alla maglia o bandiera, che spesso travalica il confine tra smisurata passione e lucida follia.

Estadio “Campeon del siglo”, tana del Penarol (da mundohinchada-twitter)

Invece, la maglia “aurinegra” ci presenta il capostipite della dinastia di virtuosi del pallone, generati dal cosiddetto Paese degli uccelli colorati in lingua guaranì. José Piendibene traduce il verbo e lo diffonde tra le genti che si affacciano sul Rio de la Plata. Eleva il gioco ad un livello superiore, predicando tra la mediana e la linea d’attacco.

Il ventennio disputato con il Penarol è tradotto in circa 500 presenze, ad una media di un gol ogni due partite. Nel frattempo ha guidato la maglia Celeste alla conquista di tre Coppe America. Addirittura, sulle pagine del “Grafico” i rivali argentini definiscono “El Maestro” come miglior giocatore del pianeta. Abbandona la cattedra nel 1923, quando ormai ha mostrato la via che sarà percorsa dalla “Generacion Dorada”.

Una delle rare immagini di Piendibene, il secondo in alto da destra

Parigi e l’inizio della Storia


Quando nel 1924 il CIO invita la nazionale uruguaiana ai Giochi Olimpici di Parigi, questa ha già conquistato 4 Campionati Sudamericani, antesignani della Coppa America, eppure si presenta nel Vecchio Continente nella massima indifferenza. Tra i convocati figurano un operaio della carne, un verduriere, un postino, un lustrascarpe, un trasportatore di ghiaccio ed il capitano Nasazzi si guadagna da vivere tagliando lastre di marmo. Sono letteralmente dei dopolavoristi, ma impiegano meno di un’ora e mezza a dimostrare di essere alieni, non soltanto per la provenienza geografica.

Al primo turno rifilano 7 gol alla Jugoslavia, poi 3 agli USA e regolano 5 a 1 i padroni di casa. In semifinale piegano 2-1 l’Olanda, quindi nell’atto conclusivo non lasciano adito a dubbi: 3-0 alla Svizzera ed oro al collo per questi ragazzi, ormai ex sconosciuti. È il principio dell’epopea del portiere Mazali, di Nasazzi, caudillo della retroguardia, e di Josè Leandro Andrade, “Maravilla negra” che fa impazzire i laterali avversari e le femmine del quartiere parigino Pigalle, componendo una mediana insuperabile con Fernandez e Figueroa. La sopraffina qualità del gioco espresso collettivamente è convertita in marcature dagli avanti Petrone, che poi giocherà anche a Firenze, Pedro Cea e Hector Scarone, figlio calcisticamente legittimo del Maestro Piendibene.

A proposito di quest’ultimo, per quanto il palmares e gli almanacchi siano espliciti, per tratteggiarne il profilo si può fare riferimento al leggendario numero uno iberico Zamora ed al nostro Peppin Meazza che lo considerano il miglior giocatore dell’epoca. In più, Eduardo Galeano, tra i massimi cantori del pallone, lo descrive così:

Hector Scarone donava passaggi come offerte votive e segnava gol con una mira che affinava negli allenamenti, facendo volteggiare bottiglie da trenta metri… Lo chiamavano “El mago” perché tirava fuori i gol dal cilindro ed anche “El Gardel del futbol”, perché giocando cantava come nessun altro.

“Volver” di Carlos Gardel (1934)

Proprio le origini del sopracitato cantante, la cui voce è stata dichiarata “Patrimonio culturale dell’Umanità” nel 2003, sono uno dei temi che acuiscono maggiormente la rivalità tra Uruguay ed Argentina ancora oggi, oltre ovviamente al calcio. All’epoca infatti, a sud dell’estuario rioplatense, non si sentono inferiori a nessuno e si battono per spodestare dal trono i cugini, sia nelle seguenti Coppe America, sia soprattutto alle Olimpiadi di Amsterdam, del 1928.

Come da copione, alla finale che si tiene all’Olympisch Stadion si presentano entrambe, finalmente decise a risolvere la questione inerente la superiorità calcistica globale. Mentre l’Albiceleste ha letteralmente liquefatto USA, Belgio ed Egitto, la squadra del c.t. Primo Giannoti ha raggiunto l’ultimo atto ai danni dell’Olanda, della Germania e poi dell’Italia di Rangone, battuta in una semifinale al cardiopalmo. La sfida conclusiva del 10 giugno è talmente equilibrata che nemmeno dopo i supplementari si supera l’1-1 del tempo regolamentare, così è necessario ripetere la partita tre giorni dopo. Nella replica non ci sono dubbi, perché Figueroa ed il rientrante Scarone piegano la Selecion, trascinata da Luis Monti, futuro oriundo e juventino: il calcio è ancora celeste.

Infine nel 1930 Jules Rimet, presidente della FIFA, riesce ad organizzare il primo torneo mondiale dedicato esclusivamente al pallone, la cui prima edizione è ospitata proprio dall’Uruguay, in occasione delle celebrazioni per il centenario dalla nascita della repubblica. Tredici squadre suddivise in quattro gironi, da cui emergono le quattro semifinaliste. Come secondo un copione già scritto, in finale arrivano di nuovo Uruguay e Argentina, dopo aver superato rispettivamente Jugoslavia e USA.

Veduta aerea dell’Estadio Centenario nel 1930

Il 30 Giugno lo stadio Centenario, edificato per la manifestazione, è gremito da centomila appassionati ed altrettanti vorrebbero entrarvi. All’ingresso della tribuna si presentano addirittura 13 sedicenti arbitri della partita. Soltanto l’ultimo è l’autentico fischietto belga, Langenus, che dirige la partita con in tasca una congrua assicurazione sulla vita ed un biglietto per la prima nave diretta in Europa.

Pronti e via, la Celeste passa in vantaggio, quindi l’orgoglio degli ospiti ribalta il risultato prima del duplice fischio. Nello spogliatoio l’arringa di Nasazzi risveglia gli animi dei compagni di squadra, che nel secondo tempo sono inarrestabili. Cea fa 2-2, Uriarte firma il sorpasso, quindi Castro, che da ragazzino ha perso una mano a causa di una fresa, chiude la partita, scatenando il tripudio per le strade di tutto il paese.

Successivamente, il connubio tra abilità tecniche e garra charrùa renderà l’Uruguay ancora protagonista nella Coppa Rimet del 1950, culminata con il drammatico e vittorioso epilogo del “Maracanazo”, quindi, dopo una lunga eclissi sul palcoscenico globale, nei Mondiali del 2010, il cui quarto posto è suggellato dalla conquista della Coppa America 2011.

Dorado, Cea, Iriarte, Castro: Uruguay campione 1930

L’eredità


Per concludere, oggigiorno, il giocatore che meglio rappresenta i due caratteri dello stile uruguaiano, ed i loro estremi, è senza dubbio Luis Suarez. Evitando di approfondire le sue doti balistiche, nonché la vena realizzativa, ci soffermiamo sugli episodi più controversi della carriera in maglia celeste del nativo di Salto, secondo centro del paese, a 500km da Montevideo.

Iniziamo citando la “parata” con cui si sostituisce al portiere Muslera nel quarto di finale dei Mondiali sudafricani, nel 2010. All’ultimo minuto del secondo tempo supplementare, il colpo di testa del ghanese sembra rompere l’equilibrio dell’1 a 1, sennonché Suarez respinge di mano sulla linea di porta. Rigore ed espulsione, ma il sacrificio è ricompensato dal conseguente errore dal dischetto di Gyan Asamoah e dalla vittoriosa lotteria dagli undici metri.

 
Il “miracolo” del Pistolero

Nell’edizione brasiliana, risalente al 2014il “Pistolero” si presenta dopo un fulmineo recupero da un intervento chirurgico al ginocchio sinistro, eseguito a fine maggio. Trascorso nemmeno un mese, esordisce nella seconda partita del girone, rifilando una decisiva doppietta agli Inglesi, in una gara da “dentro-fuori”, dopo la sconfitta alla prima partita contro la Costa Rica.

Quindi la seguente sfida all’Italia è un autentico spareggio per gli ottavi, perché agli Azzurri basterebbe un “x” per passare il turno, mentre la sopravvivenza degli uomini del condottiero Tabarez non prescinde dai 3 punti.

Oscar Washington Tabarez, degno comandante di una squadra di combattenti

Poco prima dell’incornata risolutiva di Godin, l’attaccante del Barcellona morde sulla spalla Chiellini, scatenando le proteste dell’Italia per la mancata espulsione. Un gesto folle e sconsiderato per chiunque non abbia appreso l’arte del pallone tra le strade ed i cortili di una periferia degradata, ma ad ogni modo sufficiente per destabilizzare la già spaurita retroguardia azzurra. Come sappiamo l’Uruguay giunge agli ottavi, ma Suarez non ci sarà, perché verrà squalificato per 10 giornate dalla FIFA. Ne sarà valsa la pena? Certamente.

Infine, per concludere il nostro approfondimento, non possiamo accomiatarci senza citare nuovamente Galeano che, meglio di chiunque altro, commentava così gli anni fastosi della Celeste e la condizione del suo intero Paese:

L’Uruguay non era più un errore. Il calcio aveva strappato questo minuscolo paese dall’ombra dell’anonimato universale.

Classe e follia, tecnica e garra charrùa: lunga vita all’Uruguay, la terra del calcio!


Articolo liberamente ispirato al libro “Quando il calcio era Celeste” di Niccolò Mello (Bradipo Libri, 2018)

Foto di copertina: Joe Raedle/Getty Images


 

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