La favola imperfetta degli Azzurri sotto il torrido caldo americano.
La favola è una breve vicenda, narrata in versi o in prosa, i cui protagonisti possono essere persone, animali o cose, e il cui fine è far comprendere in modo facile una verità morale. La morale della favola è l’insegnamento che se ne ricava, il significato conclusivo di una serie di fatti o situazioni. Si tratta di un veicolo di modi di pensare e di agire, un serbatoio di valori, di ideali, di metodi per il miglioramento della condizione esistenziale. La costanza, i piccoli passi, l’autostima, la visione, la sana follia. Elementi fondamentali per la ricerca del successo, in svariati ambiti professionali e umani. Le difficoltà iniziali, la capacità di adeguarsi al contesto ostile, la crescita graduale, la vittoria.
La strada che conduce al risultato è una grande favola, ma una grande favola, per alimentarsi, ha bisogno di possibilità, di seconde chances. La vita, in generale, fornisce occasioni di riscatto per rimediare ad errori e mancanze. Tuttavia, non sempre le circostanze danno voce a un nuovo tentativo. A volte, il treno passa una sola volta, ed una volta perso, il sogno di salirci sopra è destinato a rimanere tale. Altre volte, la grande favola che muove i sogni si scontra con la realtà, non dando il giusto premio a sacrifici e valori. È una favola senza morale. È una favola imperfetta, come quella di chi perde la finale di un Mondiale all’ultimo respiro, ai calci di rigore.
L’avventura della Nazionale italiana di calcio ai Mondiali del 1994 ha le sue radici nell’autunno del 1991. L’Italia fallisce la qualificazione agli Europei che si sarebbero svolti l’anno dopo, e il commissario tecnico Azeglio Vicini viene sollevato dal suo incarico. Al suo posto, la federazione sceglie Arrigo Sacchi. Soprannominato “Il vate di Fusignano”, Sacchi è l’artefice del “Milan degli invincibili”, la squadra che tra il 1987 e il 1991 rivoluziona il calcio italiano. Una compagine capace di vincere uno Scudetto, due Coppe dei Campioni, una Supercoppa Italiana, una Supercoppa UEFA, una Coppa Intercontinentale. Il tutto all’insegna del calcio offensivo e spettacolare, una eresia per la cultura italica del “catenaccio e contropiede”. Con Vicini, è un avvicendamento tra romagnoli. Originari della stessa terra, ma straordinariamente agli antipodi nella personalità; in comune hanno soltanto l’accento.
Vicini è un allenatore cresciuto tra incarichi federali, prima come guida dell’Under 21, poi della Nazionale maggiore agli Europei del 1988 e ai Mondiali del 1990. È un uomo mite, gentile, amico dei calciatori. Per lui, il rapporto umano con i giocatori e la coesione del gruppo sono elementi che vengono prima della scelta della particolare tattica di gioco. Sacchi è un visionario, cultore degli schemi e della loro applicazione. I suoi allenamenti sono intensi, i suoi metodi di lavoro schietti e destabilizzanti. È un tecnico che vuole plasmare a tutti i costi le squadre a sua immagine e somiglianza, senza mezze misure, tagliando il superfluo. Per il vate di Fusignano i calciatori a sua disposizione devono assimilare i concetti del suo gioco: chi non si adegua, non gioca. La tattica prima di tutto, anche prima degli uomini.
Sacchi è un allenatore di club che si mette alla prova in un contesto (quello federale) a lui molto lontano, nelle logiche e nei modi. Gli attriti con l’ambiente e con la stampa sono frequenti, la sua figura divide l’opinione pubblica: chi lo considera davvero un vate, chi un venditore di fumo. Emerge la difficoltà nel dare alla Nazionale un gioco scintillante come quello mostrato dal suo Milan, ma l’Italia riesce a qualificarsi senza particolari patemi ai Campionati del Mondo del 1994, che si disputano negli Stati Uniti. La squadra è composta da grandi campioni: Baresi e Maldini in difesa, Donadoni e Albertini a centrocampo, Signori in attacco. È una rosa forte, completa in tutti i reparti e che può contare sulla immensa classe di Roberto Baggio, il Divin Codino, reduce dalla conquista del Pallone d’Oro.
La presenza di Sacchi in panchina è, sulla carta, garanzia di bel gioco e di successi. Tutto sembra predisporsi per una grande prestazione, ma sarà una enorme fatica. La prima partita degli Azzurri è contro l’Irlanda. Si gioca al Giants Stadium di New York, in condizioni climatiche infernali: sole a picco, 35 gradi, umidità del 100%. Il caldo asfissiante è una costante di quei Mondiali: per questioni di audience e di diritti televisivi, la FIFA decide di far disputare gran parte delle partite in orari europei, ovvero tra le 12 e le 13 statunitensi. Le ragioni dello sport sono piegate a quelle televisive, il business mette in secondo piano lo spettacolo. In condizioni simili, il calcio tutto pressing e intensità di Sacchi non è che un miraggio.
La Nazionale passa subito in svantaggio per via di un disimpegno sbagliato del capitano Baresi e di un susseguente tiro quasi dal limite dell’area che scavalca Pagliuca, colpevolmente piazzato troppo in avanti. Una vera reazione non perviene, Baggio non riesce ad incidere. La fornace del Giants Stadium, gigantesco impianto da 73.000 persone, mette in ginocchio i piani di Sacchi. L’Italia perde, 1 a 0. È un esordio disastroso. Le “notti magiche” di Vicini e di Italia ’90 sembrano lontanissime, un dolce ed effimero ricordo nell’inferno americano. Il cammino si fa subito in salita, e la qualificazione alla fase successiva è fortemente a rischio. Nella seconda partita del girone, contro la Norvegia, è vietato sbagliare. Sacchi subisce critiche, diversi giornalisti gli suggeriscono di cambiare tattica, ma il romagnolo, convinto delle sue idee, prosegue con il suo 4-4-2, il modulo che lo ha reso celebre in tutto il mondo col Milan.
Contro gli scandinavi, l’inizio è promettente. L’Italia attacca e sfiora più volte il gol nei primi minuti, ma è soltanto un’illusione. Proprio uno dei dogmi di Sacchi, la difesa alta, si rivela un boomerang: la tattica del fuorigioco non funziona, e Pagliuca, nel tentativo di fermare l’avanzata solitaria dell’attaccante avversario, colpisce involontariamente fuori area il pallone con la mano. Per il portiere azzurro è espulsione diretta. Sacchi, con l’Italia in dieci, è costretto a togliere un giocatore di movimento. Con l’intento di dare equilibrio alla squadra, decide di far uscire Roberto Baggio. Lo stupore è generale, la punta di diamante della Nazionale è fuori dalla partita. Baggio si dirige verso la panchina portandosi il dito alla tempia come per dire “Questo è matto”, chiaro riferimento all’allenatore. Gli Azzurri soffrono, ma rimangono a galla.
La disperazione di Pagliuca, l’ingresso di Marchegiani e la perplessità di Baggio
All’inizio del secondo tempo, una nuova tegola: Baresi, perno della difesa e guida morale della squadra, si rompe il menisco dopo un contrasto, ed è costretto alla sostituzione. Il clima è torrido e afoso, ma per l’Italia piove sul bagnato. Qui, accade l’imprevedibile: la Nazionale sembra ormai alle corde, ma non molla. Lotta su ogni pallone, è resiliente, e cerca di trovare la via del gol. La resilienza è l’unica àncora di salvezza possibile in una situazione apparentemente compromessa.
E proprio qui, nasce una sottile ma importante differenza tra questa Nazionale e quella che partecipò a Italia ’90: la squadra di Vicini, nonostante un cammino esaltante, alla prima vera difficoltà (il gol dell’argentino Caniggia) e ormai stremata sul piano fisico, non aveva saputo rispondere con decisione, subendo l’eliminazione. La squadra di Sacchi sembra stremata già in partenza, barcolla costantemente, è spesso sul punto di capitolare, ma resiste. La scorza dura, “l’ossessione” sacchiana è l’inattesa benzina di un motore che avanza a stenti, ma senza fermarsi. Così, punizione in favore dalla sinistra, Signori mette in mezzo un cross teso e Baggio insacca il pallone in rete con uno stacco di testa. Segna Baggio. Non Roberto, ma Dino: nessuna parentela, piedi molto meno educati ma sostanza e grinta da vendere. La Norvegia è battuta, 1 a 0.
Una piccola impresa è stata compiuta, e le speranze di qualificazione agli ottavi si sono riaccese. L’ultima partita del girone, un pareggio striminzito contro il Messico, permette agli Azzurri di accedere agli ottavi per il rotto della cuffia, come una tra le migliori terze dei gironi. Ad attenderli, la Nigeria. Urge cambiare passo. Gli africani sono una compagine strabordante dal punto di vista atletico e dotata di una buona tecnica; un avversario ostico, soprattutto per la remissiva Italia vista finora. L’avvio è sconfortante: su un calcio d’angolo, in seguito a una deviazione maldestra di Maldini, la Nigeria passa in vantaggio. Un gol “balordo”, per stessa definizione del mitico Bruno Pizzul in telecronaca. Il prosieguo del primo tempo è desolante, ma nel secondo tempo si vede una Nazionale più convinta. Nonostante la flebile reazione, arrivano altri colpi bassi: un rigore negato, e soprattutto l’espulsione ingiusta di Zola. Si arriva verso la fine del secondo tempo in un clima impietoso, mesto. Non più di due passaggi di fila, un Baggio impalpabile, i nigeriani che dominano nella corsa e, paradossalmente, anche nella tecnica, permettendosi di azzardare colpi di tacco e tunnel. Sotto gli occhi del Pallone d’Oro.
È la chiave di volta del Mondiale azzurro. Nel punto più basso, l’improvviso scatto di orgoglio: Mussi riceve un lancio sulla fascia destra, vince un rimpallo e mette un passaggio al centro. Dal limite dell’area, Baggio colpisce di prima intenzione verso il palo opposto. Un colpo da biliardo, un gioiello, un colpo da fuoriclasse. All’improvviso, si vede finalmente il vero Baggio, il campione assoluto che stravolge le partite con una sola azione. E la sua esultanza dice più di mille parole: le braccia larghe e distese, il sollievo dopo la grande paura, il sorriso tenue di chi sa di aver semplicemente svolto il compito che milioni di italiani gli avevano affidato.
L’Italia pareggia, si va ai supplementari. Benarrivo conquista un rigore. Baggio, ancora lui, lo trasforma. La Nazionale, rinata a un passo dal baratro, passa il turno e affronta la Spagna nei quarti. È la risurrezione della consapevolezza, di una squadra che non molla mai. Adesso, ben poco può spaventarla. Il primo tempo contro gli iberici è la prima buona prova nella qualità di gioco dall’inizio del Mondiale. Si rivede una frequente applicazione degli schemi di Sacchi: la ricerca delle fasce per allargare la difesa avversaria, inserimenti, sovrapposizioni, fraseggi, scambi rapidi tra le due punte. La prestazione è convincente, e l’Italia passa in vantaggio. Nel secondo tempo, la squadra si ritrova in debito d’ossigeno dopo le energie spese negli ottavi, e la Spagna pareggia. La flessione costringe Pagliuca al miracolo sul tiro ravvicinato di Salinas, e si soffre. Dal nulla, ancora Baggio: lancio di Berti, prolungamento di Signori, Baggio si ritrova davanti al portiere avversario, lo salta con un tocco, e ancora un prodigio. Da posizione defilata, dà prima uno sguardo alla porta, poi al pallone, infine con un guizzo conclude sul lato a lui opposto. Un’altra prodezza balistica, che lui soltanto poteva fare.
Baggio fa sognare l’Italia, e l’Italia sogna sotto la voce del duo Ciotti-Pizzul
Si va in semifinale. In pochi ci avrebbero scommesso. Sembra ormai un cammino lanciato a tutta forza verso il lieto fine: contro la Bulgaria, ancora Baggio. Due reti, una più bella e difficile dell’altra. Il lieto fine, dopo le pene dell’inferno: la grande favola sta andando a compimento. Manca soltanto un passo all’epilogo trionfante, la finale contro il Brasile. A 90 minuti dal sogno di una vita. La competizione è ormai agli sgoccioli, gli ultimi minuti della semifinale sono il preludio ai festeggiamenti per un traguardo storico. Ma la vita sorprende, nel bene e nel male. E fino a quando non è stata scritta l’ultima parola, tutto può succedere. Così, una delle regole di cui gli azzurri erano stati la dimostrazione positiva si riafferma, ma in negativo. Uno scatto verso l’area, lo stop del pallone, una fitta dietro la coscia. All’improvviso, Baggio si ferma: fa una smorfia di dolore, si dirige verso il bordo campo, si fa massaggiare la coscia. Dopo pochi minuti, chiede il cambio, abbraccia Sacchi e si dirige in panchina con lo sguardo cupo.
Al termine della semifinale, l’Italia intera è in festa, gli Azzurri si abbracciano. Anche Baggio si unisce ai compagni, ma non ha l’aria di essere in vena di festeggiamenti. Si lascia andare ad un pianto, non di gioia, ma di dolore. Teme che l’infortunio possa costringerlo a non disputare la finale. E l’infortunio non è di poco conto. Il Divin Codino cerca di fare di tutto pur di essere in grado di scendere in campo, e lo staff medico della Nazionale lo prende in cura nel tentativo di rimetterlo in sesto. La sua presenza rimane in dubbio fino al fischio di inizio della finale. Le squadre scendono in campo, e Baggio è tra i titolari. I tifosi italiani presenti allo stadio esultano, quasi come fosse un gol.
Ma Baggio non è al meglio: la sua corsa è bloccata, non riesce a scattare, il suo raggio d’azione è limitato. È l’ombra di se stesso. A ben vedere, è già un miracolo che sia sul rettangolo di gioco. In generale, è tutta la partita ad essere bloccata. Si gioca alle 12:30, orario americano. Il caldo è asfissiante, le fatiche di un mese di Mondiale si fanno sentire. È una delle finali meno spettacolari della storia. I brividi e le occasioni non mancano, sia da una parte che dall’altra, ma l’equilibrio regna sovrano e i ritmi sono blandi. I tempi regolamentari terminano 0 a 0. Durante i supplementari, gli Azzurri sono stremati e in preda ai crampi. I due più affaticati sono Baresi e Baggio.
Baresi è rientrato in campo a tempo di record dopo l’operazione al menisco, tornando a disposizione proprio per la finale, e la sua prestazione è eroica. Baggio non riesce più a reggersi in piedi. Sono l’emblema dello stato in cui la Nazionale conclude quel Campionato del mondo. Si va ai calci di rigore. Sia Baresi che Baggio vengono scelti come tiratori dal dischetto. Baresi è il primo della serie, Baggio l’ultimo. Entrambi falliscono, nella stessa modalità, con un tiro centrale e alto. Ironia della sorte, l’uomo che aveva condotto letteralmente per mano l’Italia a giocarsi la finale del Mondiale affossa definitivamente le speranze di vittoria. Con l’errore di Baggio, il titolo va al Brasile.
La sconfitta a un passo dal sogno, l’epilogo amaro e privo di motivazioni plausibili. Eppure, tutto sembrava configurarsi per il meglio. A volte la realtà spegne il sogno, anche quel sogno che stava per diventare realtà. L’avventura della Nazionale italiana ai Campionati del mondo del 1994 è una grande favola. Ci lascia insegnamenti e valori morali, ma non una morale finale. È una favola imperfetta. Un ricordo e una ferita che rimangono indelebili nella storia del calcio nostrano.
Quarant’anni fa i rossoneri, guidati da Nils Liedholm, conquistarono il decimo scudetto, l’unico della storia milanista vinto con una rosa tutta italiana.
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