E ha cambiato il nostro modo di vedere il pallone.
Mancano tre minuti al termine di una partita sudata, equilibrata, tesa. Quei tre punti servono come il pane e, mentre incroci gli sguardi di chi ti è accanto, pensi già al post-partita: al vociare indistinto dei tifosi che escono dallo stadio, alla camminata che ti porterà alla macchina e poi di corsa a casa, mentre in radio le lamentele condensano uno stato d’animo già ampiamente depresso. Basterebbe un piede, un ciuffo di capelli, un tocco di culo perché no; basta solo che qualcuno faccia gol. Eccola la gioia di cui ci ha parlato (in termini certo di calcio giocato) Eilenberger:
«prima di tutto il pallone è l’archetipo delle esperienze piacevoli. L’esperienza [calcistica] è infatti piena di gioia».
Quando la squadra del cuore segna la rete tanto attesa, accade la gioia: in quel momento il calcio cessa di essere un gioco, diventando la nostra esistenza in gioco. Così è sempre stato, almeno fino all’introduzione del VAR – sigla sinistra che, per uno strano scherzo del destino, rimanda alla divinità prediletta da quei vichinghi detti variaghi per il culto alla omonima dea della giustizia. In effetti sembra essere questa la prima e fondamentale caratteristica della dea-VAR: ponderare l’imponderabile e finalmente colmare il sogno (tutto americano) di un giustizialismo messianico. Come se il calcio fosse un gioco giusto, meglio ancora: come se l’ingiustizia non rendesse speciale questo sport, contro il quale imprechiamo dacché siamo al mondo.
A differenza delle altre culture, comunque, in Italia sembriamo particolarmente attratti – a livello sociale, sia chiaro, mica nei fatti – dall’idea di una “giustizia esemplare”. Soprattutto da quando i grillini sono saliti al potere. E nel calcio, da qualche anno prima: diciamo dall’estate del 2006, quella dello scandalo Calciopoli. Lungi da noi difendere una casta corrotta e corruttibile, incapace di aprirsi ad un serio e critico dialogo con l’esterno (hanno capito tutto, invero). Ma appunto: che si dialoghi, che si possa discutere dell’errore, è ancora umano e santo.
Segregarsi nel proprio Ordine senza rispondere alle voci di tifosi e stampa denota incapacità comunicativa, persino insicurezza, ma ancora e santamente umanità. L’umano sbaglia, e la tecnologia? La tecnologia non sbaglia mai. Al punto che l’errore, prima ammesso, è oggi la chiave diabolica per parlare di “malafede”, “scandalo”, “corruzione”. L’arbitro cornuto è presto licenziato. Così Lee Mason, arbitro da più di 500 partite (sul campo, mica roba da Big Brother Eye), si è chiamato fuori dalla PGMOL (ufficiali di gara del calcio inglese) per non aver tracciato correttamente la linea nella convalida del gol del Brentford contro l’Arsenal. Eccola, sotto i vostri occhi, la tecnocrazia (= il potere/governo della tecnica) unico Verbo e giudice. L’errore? Non è contemplato: se la tecnologia dice “a” e l’uomo ha visto “b”, “b” è in malafede e in stato di corruzione rispetto ad “a”.
Come è stato possibile che, a un certo punto della Grande Storia, l’uomo abbia preferito snaturare la propria essenza a servizio della tecnica? Come è possibile non rendersi conto dei danni che la tecnologia ha prodotto sulla nostra salute mentale, sul nostro benessere e sulla nostra esistenza in generale? Il VAR, questo ormai dovrebbe apparire chiaro a tutti, è un simbolo di qualcos’altro. Non è uno strumento “utile” – innanzitutto perché i fatti dimostrano che non lo è fino in fondo – né “necessario”, perché il calcio è un gioco nel quale la componente umana – l’errore, prima di tutto – non è un impaccio ma il nucleo del suo successo, l’intima e carnale essenza della sua leggera bellezza.
Per parafrasare il racconto di un autore che riprenderemo volentieri più avanti, il football sta al VAR come gli hobbit a Sauron – che non a caso ha un solo e immateriale occhio: ha un’unica e irreale visione delle cose (prendete i fermo immagine), come il Grande Fratello di Orwell o l’obiettivo di una telecamera.
Utile per utile, tecnico per tecnico, verrebbe quasi da chiedere quale sarà il prossimo passo: rimuovere dal campo i calciatori-giocolieri perché “inutili” ai fini del risultato? Sostituire magari i tifosi violenti e pericolosi con led di ultima generazione, oppure eliminare i giocatori stessi per simulare una partita nel Metaverso – ci arriveremo, chiaramente: ma che sia ovvio, questo è ciò che inquieta. D’altra parte cosa è l’introduzione del tempo effettivo, se non «l’ennesima tappa fisiologica di questo processo, in cui un calcio stanco di essere umano, ossessionato dalla giustizia e maniaco del controllo dichiara guerra totale alla contingenza, nell’utopia della prevedibilità totale; nell’obiettivo, concreto, di rimuovere le variabili esterne»?
Come si spiega ad un bambino che è sciocco e quasi sbagliato esultare col proprio papà – diciamo pure fuori dallo stadio, dove il tutto è chiaramente ampliato in negativo – perché la dea-VAR, mostro dalla testa piccola e dalle braccia enormi, è in fase di “check” del gol? Si potrebbe rispondere che qui il problema sollevato è un falso problema: d’altra parte perché il calcio non dovrebbe essere un gioco giusto? Cosa si aggiunge nel togliere il VAR a livello sportivo? Ma la domanda andrebbe capovolta: quanto abbiamo perso aggiungendo il VAR nel gioco?
Il calcio è un’altra cosa, almeno per chi scrive. È cantare, ballare, bere insieme in preda all’estasi di un momento irripetibile. È la gioia che arriva fino alle lacrime per un gol fatto in quel momento.
Finita la partita «c’è sempre un’altra partita», come notava brillantemente Nick Hornby in Febbre a 90°. Forse è per questo che gli inglesi detestano il VAR e stanno seriamente pensando di rimuoverlo. L’arbitro sbaglia, e fa parte del gioco. Ma il gioco rimane. Anzi, permane nei racconti dei pub proprio in virtù dell’errore, il sacro elemento che rende le nostre esistenze così dense di significato. Sempre Eilenberger l’ha definita “crociata contro la contingenza”: «grazie al VAR si è creduto di poter debellare l’imprevedibilità delle decisioni dei guardalinee […]. È chiaro che il calcio nel suo complesso sia stato influenzato dall’ossessione di annientare la contingenza, ma questa ossessione coinvolge l’intera società. In medicina, per esempio, si è ormai diffuso lo screening dei feti per portare nella nostra disponibilità una forma eminente di contingenza quale è la genetica; mi viene in mente anche che Angelina Jolie si è sottoposta a mastectomia preventiva perché sapeva di avere una predisposizione genetica a contrarre il cancro al seno. Sia il calcio sia la medicina tendono all’ideale della controllabilità totale delle nostre vite».
Per qualcuno, certo, questo è un sogno: è il raggiungimento (almeno ideale) del giustizialismo messianico, che vede prevede provvede. Ma che fine ha fatto, nel grigiore che alle volte può dominarci, il colore dato dal sogno proibito – e persino illusorio? Davvero siamo «la società del disincanto» (Weber) se abbiamo preferito il sorriso inquietante della Legge che detta legge (le linee sul fuorigioco semi-sic!-automatico segnalato dal VAR) all’emozione del cuore che è al di là della Legge.
«La ragione per cui il calcio è così amato risiede secondo me in massima parte nel fatto che è un gioco in cui l’indisponibilità delle nostre esistenze e la fragilità dell’essere umano vengono messe in scena in modo particolarmente intenso; ma molte cose che vengono ora annunciate come un’ottimizzazione del calcio – tipo il VAR – sminuiscono l’esperienza stessa del calcio. Credo che il VAR sia un perfetto esempio per illustrare l’ambivalenza di queste tecniche di controllo per la nostra vita».
E in termini simili, nel corso del mondiale più tecnocratico e insieme – non a caso – meno campanilistico di sempre, tra poveracci pagati per tifare la squadra di un’altra nazione e il divieto di autentiche espressioni da stadio, Marco Ciriello ha detto (commentando l’utilizzo del pallone anch’esso tecnocratico, ricaricabile come una macchina elettrica o uno smartphone): «è la differenza che passa tra uno stregone dell’Amazzonia e un radiologo: entrambi possono avere poesia, ma lo stregone un po’ di più. Ed ecco la voce del cinico invocare la giustizia del gioco, la limpidezza del fotogramma, l’assolutezza della prova.
Ma con questo pallone non ci sarebbe la mano di Dio e nemmeno Dio stesso, che vive nel fraintendimento, nella speranza, nell’oscillazione tra verità e menzogna, tra il visto e non visto, nella leggenda dell’impossibile che va dalle tenebre di Omero al canto di Victor Hugo Morales passando per il Vangelo secondo Matteo».
Sant’Agostino diceva (De Musica, VI, 13.39) che la curiositas «è nemica della securitas» come rivela lo stesso nome (entrambi i termini derivano da “cura”). Securitas, infatti, viene da securus, non “sicuro” ma “senza preoccupazioni” (lett. senza cure): esattamente come quel bimbo che insieme al papà voleva solo gioire del momento, disperarsi nell’istante e perché no apprendere dal calcio che la vita è ingiusta. Che l’errore è la nostra stessa vita, che inizia infatti con le doglie del parto (Mt 24,7-8). Eliminare questa componente dal calcio è stata una violenza imperdonabile, un atto di superbia demoniaco. «E colui che rompe un oggetto per scoprire come è, ha abbandonato il sentiero della saggezza», dice Gandalf a Saruman, il tecnocrate per eccellenza, nel Signore degli Anelli. L’uomo ha preferito la curiositas alla securitas, la matematica alla poesia, il VAR all’arbitro. In una parola, ha scelto di dominare l’imponderabile senza rendersi conto di finir lui dominato nella propria imponderabilità. Fino al punto di rinnegare se stesso.