Con l'introduzione a pieno regime del VAR l'uomo sta diventando un impiegato delle macchine.
Gran parte della filosofia contemporanea d’altronde ci aveva messo in guardia. La rivoluzione tecnologica, e il conseguente dominio della nuova tecnica, avrebbero cambiato profondamente non solo il funzionamento della società, del lavoro, della guerra etc. ma avrebbero inciso sull’uomo stesso. Praticamente, per renderla più semplice, laddove l’uomo rinuncia al suo ruolo, lì qualcos’altro finisce per sostituirlo: lo vediamo tutti i giorni nel nostro quotidiano, quando non sappiamo più orientarci senza l’ausilio delle mappe, quando per la minima necessità facciamo affidamento sul web ma soprattutto quando diventiamo schiavi dei telefoni, dei computer, e non siamo più in grado di pensare la vita senza che questi ci scandiscano le giornate. Per dirla con le parole di Henry David Thoreau:
“Gli uomini sono diventati gli strumenti dei loro stessi strumenti”.
L’uomo diventa angestellten, per rifarci invece a Martin Heidegger: impiegato della tecnica. Da che la aveva “creata”, piano piano le si sottomette. È quanto accaduto in questo primo sabato di Serie A ancora carico di polemiche, partendo dal gol di Ronaldo annullato dalla tecnologia per un fuorigioco – stavolta è il caso di dirlo – millimetrico. Che poi pure queste sbagliano, lo sappiamo dal tennis in cui il giudizio del “falco” non garantisce precisione al 100.00%, tuttavia è verbo sacro; anche se magari la pallina ha lasciato un segno, valutabile dall’uomo, anche in quel caso noi diamo priorità al responso della macchina (e monta nel circuito la volontà di inserire Hawk-eye anche sulla terra battuta, laddove la palla lascia un’inequivocabile traccia sul terreno di gioco).
Fa specie quindi cambiare un verdetto per un’ipotetica punta di scarpino o per mezza spalla, con l’arbitro ridotto a burattino in attesa della Verità suprema, come fa impressione la conduzione arbitrale di Fiorentina – Napoli. Già il primo rigore per i viola, rivisto più volte per quel braccio un po’ troppo largo, che porta a un ribaltamento della valutazione iniziale e al tiro dagli undici metri, per proseguire, soprattutto, con un rigore su Mertens inventato e giustificato in diversi modi, piuttosto ridicoli, pur di garantire l’infallibilità della macchina.
Noi ci affidiamo alla tecnologia per avere certezze che essa da sola non può darci: lì serve l’interpretazione e quindi la decisione umana, ed è questo che gli arbitri via via non saranno più in grado di garantire (prima di tutto per timore, d’altronde è molto più comodo cedere l’ultima parola/decisione a qualcun altro). Ma poi l’uomo si scorderà pian piano come fare a leggere la situazioni, a risolverle e a darsi una risposta senza il provvidenziale intervento dall’alto della divinità Tecnologia.
Succederà la stessa cosa, mantenendo l’alone pseudo-filosofico che ha avvolto queste righe, che prevedeva re Thamus nel mito di Theuth presente nel Fedro, celebre dialogo platonico. Interrogato sull’introduzione della scrittura, il sovrano rispondeva che questa non avrebbe aiutato gli uomini a ricordare, ma invece a dimenticare.
“Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi”.
Ecco, fidandoci della tecnica noi ci dimenticheremo come interpretare, ci affideremo non solo al centimetro o al mezzo braccio, ma soprattutto all’immagine mediata, bloccata, accelerata e decelerata, rivista da mille angolazioni. Per cercare spasmodicamente la certezza, garantita dalla macchina, sceglieremo una presunta “oggettività” a discapito dello sviluppo del gioco, delle reazioni istintive dei tifosi, a volte persino del buon senso. Fino a che, come diceva Erich Fromm, avremo macchine che si comportano come uomini, e uomini che si comportano come macchine.