Marco Pinti
1 articoli
Agosto 1999, Varese. È notte fonda quando quattro ragazzini entrano in un bar di cui è meglio non fare il nome, per ragioni che tra qualche riga saranno più chiare. I ragazzini hanno quattordici anni: uno di loro, quello con le orecchie a sventola e il passo dinoccolato, vagamente mi assomiglia ancora. Si siedono mentre nel locale sono già iniziate le manovre di chiusura, tuttavia un cameriere ha pietà di loro e assiste all’esito della colletta da cui dipende la magra ordinazione.
Il bicchiere è piccolo, il rum basta per due sorsi, ma è pur sempre roba da duri. Gesti lenti, sorseggiare adulto, sbirciare intorno. Il dinoccolato è il primo a notare gli unici altri avventori: sono quattro anche loro, lontani ma a tiro di sguardo. Non serve molto per riconoscerli: “Quelli della pallacanestro”. Gli eroi che solo tre mesi prima hanno conquistato lo scudetto della stella di Varese. Sulle prime non sembrano accorgersi di essere stati notati, continuano a ridere e a confabulare tra loro, misteri da spilungoni.
Stop: fermo immagine. Se questa storia fosse ambientata ai giorni nostri, a questo punto si vedrebbe uno dei quattordicenni avvicinarsi timidamente al tavolo dei campioni per chiedere un selfie, desiderio subito esaudito tra sorrisoni e pacche sulle spalle a stelle e strisce.
Ma questa storia è ambientata nel 1999, a Varese, dove non sono i ragazzini ad alzarsi per raggiungere i campioni d’Italia, ma i campioni a lanciarsi all’arrembaggio dei ragazzini. Con uno scatto improvviso, da contropiede in transizione, i giganti accerchiano il tavolo, ognuno si piazza in piedi dietro una sedia, incombono, sono talmente vicini che non ha senso continuare con la terza singolare. Anche perché di singolare c’è solo il miracolo di quella stagione, che ognuno di noi ha vissuto in prima persona, ma talmente al plurale che Varese non è stata più la stessa.
Ci hanno appena circondato, quando iniziano a prenderci in giro, impietosamente, per l’esiguo contenuto di alcol nei nostri bicchieri. Chiamano a gran voce qualcuno in cucina, mentre alle nostre spalle sento pronunciare una parola che non ho più dimenticato: “il pentolino”. «Adesso vi facciamo bere il pentolino!», specifica uno dei giganti, forse in un lampo premonitore della sua futura carriera da telecronista. Intanto, il capitano, proprio lui, mette fretta dietro il banco dove stanno preparando l’intruglio. Questo non lo distrae dal tenerci d’occhio, al punto che, se appena tentiamo di alzarci, subito ci rimette a sedere con la manona sulla spalla:
«fermi tutti che adesso arriva il pentolino!».
“Il pentolino, il pentolino”, finalmente atterra davanti a noi questo benedetto elisir di cui ricordo solo quanto fosse bollente, mentre nelle orecchie mi risuona ancora la voce del terzo gigante, oggi diventato ascetico maestro di yoga, che mi incita a berlo tutto d’un fiato. Nel frattempo, chi mi sta accanto è incalzato allo stesso modo da quello che, venticinque anni più tardi, sarebbe diventato uno stimato dirigente sportivo. Misteriosa miscela il pentolino, di cui è superfluo dire l’effetto sull’organismo di quattro quattordicenni: sbronzi all’istante! Poco male, tanto eravamo tutti a piedi…
E poi lo sentivamo che ci stava succedendo qualcosa di speciale, da raccontare e da ricordare. Anche se lì per lì, mentre il futuro telecronista mi bersagliava con l’ennesimo «Coppino, frontino, se ti muovi sei un cretino!», non mi ero reso conto che quei quattro matti ci stavano dando una lezione ben più importante di un rito di passaggio da osteria. Perché a vincere lo scudetto son bravi tutti. Ogni anno qualcuno lo vince, prima o poi succede ovunque. Ma vincere lo scudetto e passare una notte di fine estate a giocare con quattro ragazzini incontrati per caso, annullare a suon di “coppini” ogni distanza con i cosiddetti tifosi, è precisamente quello che rende indimenticabili i ragazzi di quella squadra.
Erano matti, certo, ma a Varese i matti vengono presi dannatamente sul serio. Perché sono loro che cambiano il mondo. Non sto esagerando, se per “mondo” intendiamo il “come si vince” piuttosto che il “quanto si vince”. Soprattutto se la smettiamo di venerare le statistiche dei rimbalzi e delle percentuali di tiro per concentrarci sul perché amiamo la pallacanestro. Per noi è quasi una religione, non a caso l’ultima chiesa sorta in città dal dopoguerra, la Kolbe, l’abbiamo costruita a forma di palazzetto. Tanto dovrebbe bastare per accorgersi che nello scudetto della stella c’è più di un’impresa sportiva. C’è l’idea che si possa vincere anche quando si parte sfavoriti, ma soprattutto che i risultati contano, ma le emozioni di più.
Un po’ come dice l’unico assente della notte del pentolino, ma che di certo non si sarebbe tirato indietro dalla giostra. Da un paio d’anni è diventato allenatore della nazionale italiana di pallacanestro, perciò capita abbastanza spesso che i giornalisti lo intervistino. Solo che lui, forse neanche se ne accorge, ma proprio non ci riesce a rispondere con le solite banalità. Quindi, può capitare di accendere la televisione e sentirlo dire una frase che suona più o meno così: «…perché nella vita, in campo e fuori dal campo, alla fine quello che resta non è il numero delle partite che hai vinto o di quelle che hai perso, ma le relazioni umane che sei riuscito a costruire. Quelle contano davvero, il resto è solo un gioco».