La strana coppia Tita-Banti ha compiuto un'impresa incredibile.
In ogni edizione delle Olimpiadi la stampa parte alla ricerca del personaggio. I giornalisti di tutto il mondo cercano di trovare curiosità sugli atleti, così da ricamarci un po’ sopra. E’ più che normale, ma a volte si cerca di far passare – agli occhi del lettore – una storia normale per qualcosa di assai interessante. L’oro di Ruggero Tita e Caterina Banti ai Giochi di Tokyo ha invece ribaltato questo cliché: perché ciascuno dei due velisti è veramente sui generis.
Fino alle 15.30 di oggi (orario giapponese) credevo anche che non avrei mai apprezzato completamente una regata dal vivo. E invece a Enoshima, cinquanta chilometri a sud-est di Tokyo, mi sono ricreduto. Ho avuto il privilegio di godermi la finale olimpica del Nacra 17 dal ponte rialzato di una barca a motore, da cui abbiamo salutato il sesto posto dell’imbarcazione azzurra sventolando il tricolore e fischiando beceramente. Ma perché esultare così tanto per un sesto posto? Perché la coppia Tita-Banti aveva talmente dominato la precedente settimana di regate, da arrivare alla finale da capolista con un vantaggio di dodici punti sui britannici.
In parole povere: per fa suonare ‘God save the queen’ alla premiazione, il catamarano di Sua Maestà sarebbe dovuto arrivare primo e quello italiano settimo. Pura utopia, visto gli azzurri sono rimasti attaccati agli avversari d’Albione per tutta la gara: strategia perfetta, visto che era inutile prendersi il rischio di raggiungere i primi posti. La storia insegna: basta che il vento giri di 30 gradi e chi conduce si ritrova ultimo, e allora sì che prendere un argento al posto dell’oro sarebbe stato un flop.
C’erano una volta un ingegnere e un’arabista
Ruggero e Caterina hanno la freddezza e il raziocinio che solo chi ha studiato per anni materie difficilissime può vantare. Lui è un ingegnere, gli angoli di virata sono il suo pane e le decisioni istantanee il suo vino. E quando dice che “oggi era facile, era soltanto una passerella per l’oro”, non lo fa per spacconaggine, ma perché nella sua testa aveva ripetuto plurime volte la gara da fare, tanto da sapere ogni virata in anticipo: “Il rischio maggiore era la falsa partenza”. A uno che sa smontare e rimontare quella specie di astronave che chiama catamarano, crediamo sulla parola.
Chi scrive rispetta profondamente il sapere tecnico, ma ha sempre proteso verso tutto ciò che è letterario. E perciò si emoziona quando sente queste parole: “Ho cominciato a studiare arabo a diciassette anni, e dopo il liceo sono andata in Tunisia per impararlo meglio. Sono stata lì un anno e poi tornata in Italia mi sono iscritta a Lingue Orientali”. Sembra quasi la storia di un’eroina di inizio Novecento, eppure Caterina la sua esperienza in Nordafrica l’ha fatta in un’epoca – i primi anni Duemila – in cui figure di un certo spessore ormai latitavano.
“Ho voluto seguire le orme di mio padre, che è professore universitario di linguistica e glottologia di lingue del Corno d’Africa”. Anche se dopo la laurea con lode in Studi Islamici ha scelto di non proseguire la carriera accademica (“mi avevano anche proposto un dottorato”), la Banti si consola con la conoscenza di cinque lingue: i ‘banali’ francese, inglese e spagnolo impallidiscono di fronte all’arabo e al turco. E ora che i giornali si sono fiondati su di loro cercando anche il minimo segno di gossip, la sincerità di Ruggero e Caterina fa sorridere: “Se siamo una coppia? No, ma ci vediamo venti giorni al mese per allenarci, passiamo di sicuro più tempo insieme che con i nostri rispettivi fidanzati”.