Intervista ad una leggenda del gioco.
Quell’uomo con il volto scavato e imperscrutabile, sangue ucraino nelle vene e tenacia nelle gambe, aveva fama di marcatore ostico e duro. Si francobollava ai rivali. La sua ombra diventava una prigione da dove non si poteva fuggire. Il suo fiato sul collo era un vento gelido, come quello che spira nelle steppe sovietiche, che ti spingeva lontano dalla tanto agognata area. E allora, rimane un sapore strano nel sapere che, passata qualche primavera, riuscire a intervistare Pietro Vierchowod, lo Zar del nostro calcio, è tutto fuorchè semplice.
Fugge alla marcatura dello scribacchino di turno, che vorrebbe raggiungerlo per una chiacchierata tra il lungolago di Como e le prealpi lombarde. Impresa ardua, nonostante il traino del vecchio amico Marco. E allora, non resta che alzare il telefono, foglio e penna tra le mani e ascoltare la voce di uno dei difensori più forti di sempre. Tra ricordi di una sconfinata carriera e un giudizio sul presente calcistico. In tackle. Onesto e senza fronzoli. Come da abitudine.
Pietro Vierchowod, qual era il “suo” calcio? Quello che ha cominciato a vivere da ragazzino di paese nell’Italia degli anni Settanta?
Un calcio semplice che scandiva le mie giornate. La scuola, a casa per il pranzo e poi a giocare a pallone tutto il pomeriggio. E come me, migliaia di ragazzi italiani. Una passione che accomunava tutti. Calcio, in larga parte, e molti altri sport di squadra. La strada, il campetto, il cortile. Parliamo di un mondo che non esiste più. Allora, dalle 2 di pomeriggio in poi, pensavo solo a giocare e divertirmi. Non avevano tutte queste distrazioni tecnologiche. Ora, sempre dalle 2 di pomeriggio, la gran parte dei giovani pensa solo a…. scrollare lo smartphone o cliccare sulla tastiera di un pc.
Vuol dire che i giovani italiani non amano più lo sport per antonomasia?
Fermiamoci subito. La risposta è molto semplice. Vi invito una domenica mattina qualsiasi, non appena ripartiranno i campionati giovanili, a Milano o nel milanese, dove mi reco per fare l’osservatore. Su 11 giocatori, circa 8 sono stranieri e di conseguenza tolgono lo spazio agli italiani. Ecco la risposta. Il motivo? Domanda difficile alla quale non so dare una risposta precisa, ma posso dire senza esitazione che le conseguenze si vedono. Eccome.
Si riferisce alla crisi della nazionale?
Certo. Basta tirare fuori un paragone, banale ma efficace. Nel 1982, Enzo Bearzot convocò, per il Mondiale in Spagna, il sottoscritto, Bergomi e Franco Baresi. Tutti e tre di età compresa tra i 21 e i 23 anni. Lo stesso Collovati non era di certo vecchio e davanti Daniele Massaro era un altro baby. Portiamo avanti la lancetta della storia e arriviamo ai giorni nostri. A 23 anni in nazionale A non ci arrivano in molti e la gran parte dei ragazzi o fa della panchina nelle cosidette big o è in giro per la provincia di B e C.
Eppure, Under 21 a parte, le giovanili azzurre hanno portato a casa qualche soddisfazione. L’argento al Mondiale Under 20 e l’oro europeo a Malta con gli Under 19 le recenti gioie.
Vero, ma alla prova dei fatti che succede? Che restiamo fuori dalla Coppa del Mondo per due volte consecutive. Due volte consecutive! Solo pensarlo è assurdo. Eppure, dopo gli Europei, abbiamo avuto due match point per andare in Qatar. Due rigori assegnati. Due rigori sbagliati.
Dal playmaker dell’Italia campione d’Europa. Peraltro, tornando al suo discorso, un brasiliano naturalizzato.
Che sbagliò anche ai penalty in finale. Conosco Roberto Mancini da tanto tempo, lo stimo come allenatore e due estati fa giocammo un’ottima rassegna, ma….forse andò tutto troppo bene. La nazionale italiana è in grande difficoltà, inutile nasconderlo. A Euro 2020 il gruppo si era cementato e ha tirato dritto per un mese. Finita la festa, abbiamo buttato all’aria tutto, nonostante le chances di restare a casa fossero pochissime. E parlando di stranieri e oriundi, non ditemi per favore che quel ragazzo che ora gioca nel Genoa valga la maglia azzurra titolare!
Ogni riferimento a Mateo Retegui è puramente voluto.
È la prova che il livello dei calciatori convocabili è davvero basso. Se in Serie A lo straniero è la prassi e non l’eccezione, se non si valorizzano i nostri sin dai vivai, allora come puoi pensare di rinforzare la nazionale? Io sono per l’obbligo di schierare in campo un numero minimo di italiani. Altrimenti, sapreste dirmi altre soluzioni?
Gli stranieri, occorre ricordarlo, c’erano anche ai tempi in cui giocava.
Assolutamente, ma vogliamo parlare del divario abissale tra loro e gli attuali? Ho giocato con Falcao, Prohaska, Souness, Francis, Cerezo, Deschamps. Per non parlare degli avversari. In Serie A arrivava solo il meglio dall’estero. Pochi, ma fortissimi, dei veri e propri mostri. Nomi di primissima scelta. A cui è seguito un lungo declino che ci ha condotto all’attualità. Su dieci giocatori, due sono forti, il resto valgono poco o nulla.
Visto il presente, meglio tornare a qualche ricordo del passato. Una lunga carriera, iniziata da giovanissimo a Como e terminata da over 40 a Piacenza. Per un punto non vince lo scudetto con la Fiorentina, trionfa a Roma, si aggiudica tutto con la Samp e, per finire, la ciliegina della Champions con la Juve. Si sentiva un leader o era parte di gruppi dalla mentalità vincente?
Forse entrambi. Dovessi descrivere la mia carriera, userei una sola parola. Un aggettivo: unica.
Perchè?
Perchè, tra i vari trofei vinti, tre di questi rappresentano l’essenza dell’unicità. Momenti che accadono di rado, che hanno fatto godere migliaia di tifosi e che mi hanno visto protagonista. A Roma, durante il campionato ‘82-‘83, tutti ci ricordavano che i giallorossi si erano cuciti lo scudetto sul petto “solo ai tempi di Mussolini”. Un po’ sfottò e un po’ maledizione. E invece, a fine annata, facemmo l’impresa. Impresa che poi bissarono Capello con Totti in campo, ma quel trionfo, proprio perché aspettato 41 anni, porta con sè un sapore diverso.
Un campionato in prestito. Vince e si torna sotto la Lanterna.
Dove Paolo Mantovani ci trattava come un padre. Non esiste descrizione migliore. E lo scudetto del 1991 nacque molti anni prima. Quando si iniziò a cementare un gruppo. Quello zoccolo duro che restò alla Samp per puntare all’impresa del tricolore. Io, Vialli, Mancini, Pagliuca, Mannini, Pellegrini, Lombardo eravamo la base alla quale si unirono Dossena, Cerezo e tutti gli altri.
Attenzione, però. È vero che visti da fuori, e come racconta “La Bella Stagione”, sembravamo un gruppo di amici, ma chi non si adeguava alla nostra cultura del lavoro, era fuori. Dal 1985 al 1992 vi fu un blocco di sette-otto calciatori che trainava il tutto. Dei trascinatori. I nuovi acquisti che duravano lo spazio di un campionato, spesso se ne andarono perchè non riuscirono a legare con noi. Questa fu la nostra forza. Tirare dritti per arrivare al sogno. Anche a costo di rigettare qualche nuovo compagno.
Nel docufilm, però, si narra di qualche scazzo anche tra voi senatori..
Più di uno. Avevamo tutti dei caratteri forti. Io, il Mancio, Pagliuca. Litigavamo e tanto, ma dopo dieci minuti finiva tutto. In campo come a Bogliasco. Eravamo amici veri, prima ancora che atleti. E con un grandissimo presidente come Mantovani. Un papà, ci tengo a ribadirlo. Per lui abbiamo dato tutto.
Arriva il momento di togliere la maschera e affermare il mio tifo bianconero. E chiederle le sensazioni di quella sera di maggio all’Olimpico di Roma.
Scudetto con la Roma, con la Samp e Champions con la Juve. Ecco cosa intendo con unicità. Tant’è vero che solo i giallorossi hanno rivinto quel trofeo dopo. I giorni che anticiparono la finale li ricordo come distesi. Sembrava che ci stessimo allenando per una amichevole. E invece, affrontavamo i campioni in carica. Quell’Ajax era molto forte. Litmanen, Davids, Kanu. Ricordo Musampa, velocissimo, ci faceva impazzire.
Eppure, noi eravamo tranquilli. Se gli olandesi erano forti, noi eravamo fortissimi. La Juve migliore di sempre per me. Luca (Vialli, nda), Pinturicchio (Del Piero, nda), Paulo Sousa, Peruzzi. Meglio di tutte quelle prima e dopo. Eravamo sicuri di vincere. Ho solo un rimpianto.
Quale?
Ancora non riesco a spiegarmi come non abbiamo potuto vincere nei 90 minuti, dove giocammo meglio e sbagliammo troppo. Però, anche ai rigori, eravamo sereni. Ciro (Ferrara) andò sul dischetto sorridendo, Jugovic idem. Io mi nascosi quando Lippi cercò i cinque tiratori (ride, nda), ma eravamo davvero sul pezzo. Marcai Litmanen e credo di aver fatto un’ottima gara. Sul gol, sinceramente, non mi aspettavo che Peruzzi respingesse la palla in quel modo, altrimenti non avrebbero mai segnato.
Quel successo cancellò la delusione di Wembley?
No, Wembley rimane e rimarrà. Nonostante la sconfitta, resta l’orgoglio di aver eliminato i detentori del trofeo, vincendo 3 a 1 a Sofia contro la Stella Rossa. Giocammo in campo neutro, perchè a Belgrado spiravano già venti di guerra. E quando Jugovic segnò fui felicissimo anche perchè, per me, Luca e Attilio, significava una piccola rivincita dopo quattro anni.
Non ricordo una esultanza incredibile come quella di molti miei compagni il 22 maggio 1996. E quando penso a chi ha vinto nove scudetti con la Juve mi viene da sorridere. Provate a vincere una Champions League a Torino e poi ne riparliamo. Di scudetti la Juve ne ha vinti e ne vincerà tanti ancora, ma in quanti hanno alzato la Coppa dei Campioni? Non ci sono riusciti nemmeno Zidane o Cristiano Ronaldo.
Due grandi, come quel Diego Maradona che ci tolse il sogno di vincere il Mondiale delle Notti Magiche.
Quella fu una delusione doppia. Per la sconfitta e per la mia esclusione. Al mattino del 3 luglio ero titolare, la sera in panchina. Cosa successe? Qualche telefonata di pressione? Non lo sapremo mai. Giocammo alla grande per tutto il torneo. Anche al San Paolo, nonostante il tifo non fosse unito. Nel secondo tempo, calammo molto. Troppo.
Eravamo stanchi, tutti in difesa e c’erano due cambi da effettuare. Io su Maradona e Ancelotti in mediana a bloccare il loro centrocampo. Vicini fece entrare Baggio e Serena. Una seconda punta e un centravanti. Non ho mai capito la logica. Anche perchè, con la Germania in finale, non ci sarebbe stata storia. Eravamo più forti e avevamo la spinta di una intera Nazione.
Il ct le spiegò mai quella esclusione?
No. Ricordo che a fine partita mi disse che avrei giocato la finalina di Bari. Partita che non interessava a nessuno. Lo mandai a quel paese. Vincemmo contro gli inglesi, ma con un amaro in bocca che non mi scorderò mai.
Baggio, Serena, Ancelotti e Vierchowod in panchina. In una semifinale di un Mondiale. Sono passati poco più di trent’anni, eppure sembra trascorso un secolo. Poi gli occhi si aprono e torniamo alla dura attualità. Aveva proprio ragione lo Zar. Parafrasando il grandissimo Arpino, ci aspetta un futuro da azzurro tenebra.