Quando Samuel Chukwueze ha bucato le mani di Manuel Neuer, spalancando al Villarreal le porte della semifinale di Champions League per la seconda volta nella propria storia, Pep Guardiola avrà pensato che sì, forse viviamo ancora nella preistoria. Non a caso Julian Nagelsmann, tecnico millennials forgiato dalla fede guardiolista, aveva scelto l’abbondanza per abbattere il muro giallo: Sané, Müller, Musiala e Coman alle spalle di Lewandowski, con Gorezka e Kimmich a svuotare il centrocampo e smistare il pallone sugli esterni.
I 18 cross concessi dai gialli prima dell’intervallo descrivono allora il canovaccio (e il catenaccio) della gara, con il Bayern costretto a gettare palla in area e il Villarreal a disporsi in trincea e meditare la ripartenza: quella letale è arrivata a due minuti dal novantesimo – finalizzata da quel Chukwueze inserito appena tre minuti prima dal suo allenatore –, dopo che il solito Lewandowski aveva pareggiato il risultato della gara di andata. Così si è consumato un delitto letteralmente perfetto.
«Una squadra degna del miglior Trapattoni», scrive questa mattina El Pais che parla senza misure di ‘catenaccio’. Qualcuno che non ha paura a dirlo, finalmente.
Unai Emery, ultimo rampollo della dinastia basca, ha fatto leva sulla straordinaria varietà del suo calcio, fatto di sostanza e qualità, organizzazione e strategia. E quello che stupisce del Submarino amarillo sta proprio qui, nella naturalezza con cui gestisce e alterna tempi di gioco e momenti della partita: quelli in cui deve solo schiacciarsi e difendere basso, quelli in cui deve lanciare qualche blitz di avvertimento nella metà campo avversaria, quelli infine in cui deve chirurgicamente fare male. Il Villarreal è una squadra straordinariamente consapevole, come poche se ne sono viste negli ultimi anni, allenata da un autentico maestro di coppe (e di uomini, e di momenti).
Una squadra che sta insegnando il mestiere a mezza Europa, e che riesce a compensare la legge del più forte con quella del più saggio. Davvero allora quella di ieri è sembrata la sfida fra una squadra “giovane”, di grande talento e ambizione (rappresentata in questo dal suo allenatore), e una formazione invece “matura”, di veterani, che ha fatto valere il peso e l’importanza della propria consapevolezza in campo. Lo svolgimento del ritorno in fondo somiglia un po’, nella trama, a quello che si è visto allo Juventus Stadium: difesa a oltranza nel primo tempo, fasi della gara in cui il Villarreal neanche provava a ripartire, e siluri lanciati ma solo quando era il momento – con la Juventus dal 60esimo in poi, ieri negli ultimi minuti.
La vittoria di Emery e dei suoi è una vittoria profondamente umana, di chi vuole restare umano
Così i tedeschi, che volevano ribaltare lo 0-1 dell’andata, hanno messo in campo una formazione iperoffensiva che non ha saputo alzare i toni della partita, e sono finiti per cadere nella trappola perfetta dei valenciani. È finita nel modo in cui spesso va il calcio, per la gioia di cholisti e preistorici: il Villarreal ha strappato la qualificazione con il 32% di possesso palla e 4 tiri totali contro i 23 dei bavaresi. E lo ha fatto soprattutto grazie ai valori umani del suo allenatore e dei suoi giocatori, con buona pace di Nagelsmann che sogna “calciatori da telecomandare con auricolari” per renderli più efficienti – neanche fossero robot da programmare. Evviva il Villarreal, evviva gli uomini, evviva la preistoria.
Anche perché c’è qualcosa di epico che accompagna i trionfi di questa città di 50 mila anime della provincia di Castellón, la più piccola – come ricorda il giornalista Giuseppe Pastore – ad aver eliminato il Bayern nelle competizioni europee.
Le vittorie del Sottomarino giallo riavvolgono il nastro dei ricordi, anacronistiche nella forma ma non nella sostanza. Sarebbe un errore, infatti, etichettare come puramente difensivista una squadra che sa alternare così sapientemente possessi lunghi e lenti, pressing e contropiede; che arriva con l’ingegno, e con il mestiere, laddove non può arrivare con il talento. Una squadra rappresentata da alcuni giocatori commoventi, su tutti Raúl Albiol, Dani Parejo, Gerard Moreno, spesso sottovalutati nei salotti del pallone ma che devono essere capiti, come il buon vino: giocatori che non si può giudicare con le statistiche, gli expected goals e nemmeno con le manifestazioni di “talento” più immediate e visibili, ma che devono essere valutati con quelle che nel basket si chiamano “Intangibles”.
Così le notti dell’Allianz, di Monaco e Torino, e l’Europa League alzata sotto gli occhi del Manchester United, hanno riportato ai primi vagiti europei del Sottomarino, quando furono i guantoni di Lehmann a privare Riquelme e compagni della finale di Champions League del 2006, dopo che un gol di Arruabarrena al Madrigal aveva eliminato l’Inter di Mancini ai quarti. Da allora il Villarreal ha soggiornato tra la media borghesia continentale attraverso un calcio moderno e raffinato, che ha saputo coniugare la tradizione basca alla scuola spagnola del nuovo millennio. Oggi, di nuovo, si trova tra le migliori quattro d’Europa. Chi lo avrebbe mai detto: al massimo, gli uomini delle caverne.