A distanza di 44 anni, la morte di Vincenzo Paparelli rimane un evento tristemente cruciale nella storia del calcio italiano.
Vicende come quella del derby Roma-Lazio 28 ottobre 1979 rappresentano una linea di confine. Un tratto di orizzonte rispetto al quale c’è un prima e un oltre. Poi, nulla sarà più lo stesso. Si può anche tornare allo stadio, riprendere a tifare la propria squadra ma con la consapevolezza che un equilibrio è rotto. Allo stadio si può anche morire. Come accade a Vincenzo Paparelli, raggiunto da un razzo proveniente dalla curva giallorossa. In un’epoca nella quale la violenza non è soltanto un mezzo ma quasi un fine. Finisce quel giorno l’età dell’innocenza nel calcio. E non soltanto nella Capitale.
Il sostrato calcistico-politico
La vicenda di Vincenzo Paparelli è a tutt’oggi l’evento esemplare della cronaca nera legata al calcio. È la fine degli anni ’70, un momento storico particolarmente inquieto e carico di tensioni. La violenza è un po’ dappertutto e il calcio è forse l’ambito nel quale la rabbia sociale trova un canale espressivo forte e netto. In un Paese dove tutto diventa politicizzato anche tifare una squadra o un’altra assume un certo significato. Nella Capitale vige uno stereotipo rigido e non sempre veritiero, ma duro a morire nel sentire comune.
Secondo una vulgata grossolana ma solida, essere della Roma vuol dire appartenere ai ceti popolari, il che sarebbe a sua volta sinonimo di appartenenza politica a sinistra. Per una teoria quasi speculare i tifosi della Lazio sarebbero di ceto borghese e, almeno in termini di tifo organizzato, si riconoscerebbero nella destra. Talvolta, anche quella estrema. Visioni che avrebbero acquisito negli anni sfumature sempre meno nette, ma nel 1979 il panorama calcistico appare fortemente dualizzato. Esattamente come la società italiana.
C’è inoltre un malinteso senso della romanità a inasprire i rapporti tra le due fazioni. Più che di rivalità si potrebbe parlare di un tentativo di delegittimazione reciproca, che nel corso del tempo avrebbe avvantaggiato le potenti squadre del nord. Alla fine del decennio Roma e Lazio sono compagini di media classifica, più che altro procedono ad alti e bassi. In quel momento hanno vinto uno scudetto ciascuna e non impensieriscono chi è abituato a dominare la scena generale. Domenica 28 ottobre 1979 è previsto allo Stadio Olimpico l’ennesimo derby.
Tira un’aria…
Settima giornata del girone d’andata. Non sarà un derby importante per gli alti livelli della classifica ma perdere non fa piacere a nessuno. Il tempo è grigio, tuttavia non piove. Giusto qualche goccia d’acqua nella prima mattinata. Prima di mezzogiorno la radio parla già di qualche scontro fra opposte tifoserie in zona Stazione Termini, a piazza Bologna e all’altezza di Ponte Milvio, ma nessuno sembra particolarmente preoccupato. Tutto sommato, è pura ritualità. Verso le 11 si sono aperti i cancelli dello stadio, deve entrare il materiale da coreografia.
Le perquisizioni da parte delle forze dell’ordine sono un po’ sbrigative ma anche una certa superficialità gestionale sembra far parte del rituale. Anche l’aria di tensione è quella che si respira ogni volta che c’è il derby, ma qualche striscione va oltre l’ironia e travalica anche il sarcasmo. Non sarebbe la prima volta nemmeno in questo caso ma nella Curva della Roma qualcuno è dotato di armi non convenzionali e non vede l’ora di usarle. Per quanto di cattivo gusto, certi striscioni da parte dei tifosi della Lazio fanno da pretesto a ciò che segue. Non si porta un’arma allo stadio per non usarla.
Un lampo improvviso
Sono le 13,30 circa. Qualcuno decide di passare all’azione. Dalla curva giallorossa partono due razzi. Il primo oltrepassa la curva nord, il secondo procede per dritto, ha una gittata di 250 metri e colpisce una persona. Lo sfortunato spettatore si chiama Vincenzo Paparelli, meccanico di 33 anni sposato con Vanda Del Pinto, 29. La coppia ha due figli piccoli, Marco e Gabriele. Per i tifosi laziali presenti in curva è uno shock, poteva toccare a chiunque, è toccato a uno di loro. Ignari delle possibili conseguenze, molti tifosi della Roma presenti in curva applaudono alla bravata.
Se ne pentiranno quasi subito.
La signora Vanda ha la presenza di spirito di estrarre il razzo dall’occhio del marito ma la mossa non è risolutiva, tutt’altro. Ne tira fuori una parte, un’altra rimane nell’orbita del marito, tra fumo e sangue. Lei stessa si ustiona una mano. Un terzo razzo non arriva a destinazione, un quarto verrà ritrovato intatto in curva sud. Vincenzo Paparelli viene trasportato d’urgenza all’Ospedale S. Spirito ma vi giunge morto. La notizia della tragedia comincia a diffondersi e sembra l’inizio di una guerra fra tifoserie. Dentro e fuori lo stadio.
Leggi, approfondisci, rifletti. Non perderti in un click, abbonati a ULTRA per ricevere il
meglio di Contrasti.
Abbonati
Per motivi di puro ordine pubblico, la partita viene disputata come se nulla fosse. Finisce 1-1 con gol di Zucchini e Pruzzo, ma il risultato importa a pochi. Al termine di Roma-Lazio la violenza si trasferisce per le vie della città. Sassaiole, uso di bastoni e catene sullo sfondo di automobili incendiate. Il centro di Roma è in stato d’assedio e ci vorrà un intervento massiccio per riportare l’ordine. Le prime domande che ci si pone sono chiare e stringenti: come sono entrati i razzi allo stadio? Chi ha lanciato il colpo mortale? È una tragedia senza precedenti.
Dopo Paparelli: la ricerca dei colpevoli
Gli esperti balistici stabiliranno con precisione la natura dell’arma: un cilindro di alluminio lungo 30 centimetri, diametro di 5 centimetri senza punta. Può essere sparato anche senza pistola, un tubo di circa mezzo metro di lunghezza e largo quanto basta può già garantire il risultato. Dalla sera di domenica 28 risulta irreperibile un ragazzo di 18 anni, si chiama Giovanni Fiorillo e nella curva romanista è personaggio abbastanza noto. In sua assenza viene arrestato un amico, Enrico Marcioni, il quale confessa quasi subito. Anzi, racconta nel dettaglio la genesi dell’omicidio.
Il giorno prima, lui e Fiorillo, noto nell’ambiente ultras come “lo tzigano” perché va in giro con abiti da straccione e un orecchino pendente al lobo destro che a fine anni ’70 ancora non va di moda, avevano comprato razzi di tipo nautico per la spesa di 15.000 lire al pezzo. Dopo di che, la domenica entrano allo stadio nascondendo le armi dentro i giubbotti. Una volta elusi i controlli, Fiorillo sistema l’arma, punta il cannone contro la Nord e dopo una lunga preparazione spara il colpo. Lui è l’esecutore, dietro di lui c’è un gruppo di ragazzi in vena di bravate. E, naturalmente, qualcuno che ha venduto loro le armi, forse ignaro delle finalità.
Nei giorni successivi scatta l’ordine d’arresto anche per un altro tifoso della Roma, Marco Angelini, 20 anni. Le biografie dei tre parlano di esistenze quasi pasoliniane, almeno nel caso dell’uccisore materiale. Lo tzigano è appena maggiorenne, non ha mai finito la scuola dell’obbligo e per guadagnare qualcosa si arrangia con lavoretti vari. Gli altri due sono di condizioni sociali più elevate ma riconoscono anch’essi la violenza come strumento di autoaffermazione sociale. Come Fiorillo, anche Angelini risulta latitante ma per entrambi il capo d’accusa è pesante: concorso in omicidio per il primo, omicidio volontario per l’altro.
Chi li ha visti
Se Marcioni è da tempo a disposizione degli inquirenti, Fiorillo e Angelini fanno perdere le loro tracce per parecchio tempo. Le indagini vanno comunque avanti, emerge un underworld difficile da credere vero. Non finiscono sotto la lente d’ingrandimento solo i tifosi organizzati ma anche impiegati del CONI e della stessa Roma, tutti sospettati di favoreggiamento. Una forma di connivenza che all’inizio non si spiega. Nel 1980 due giornalisti rintracciano Fiorillo in Svizzera. E lo intervistano pure. Non solo si scopre che a Lugano circola a piede libero il fior fiore dell’eversione nera italiana in fuga. C’è quasi di peggio, se possibile.
Lo “tzigano” si è costruito una latitanza senza troppi rischi dopo aver peregrinato in Italia di città in città e aver superato il confine in anni in cui i controlli alla frontiera, teoricamente, erano capillari. È stato a Milano, a Firenze, a Bergamo, a Genova e mai nessuno si è accorto di lui. Dovrebbe avere con sé un passaporto, le generalità dovrebbero essere note. Se ne conosce anche il volto, non può essere così facile sfuggire alle forze dell’ordine. Una latitanza di un anno e mezzo non trova giustificazioni se non in presenza di una rete ramificata in grado di nascondere e proteggere. Eppure lui dice:
«Sto facendo una vita infame e modesta. Devi sempre correre, scappare, diffidare di tutti e di tutto. Per questo, tra un mese al massimo, mi costituirò, tornerò in Italia e affronterò il processo. Non ce la faccio più a tirare avanti così, sono a tocchi».
Giura di essere stato abbandonato da tutti, dai vecchi amici alla ragazza. Ma per la prima volta ci si pongono domande che ancor oggi faticano a trovare risposta definitiva. Soprattutto ci si chiede perché le società calcistiche di riferimento tollerino situazioni del genere, tanto da fornire appoggio logistico ad armi e strumenti impropri, se serve. Si comincia a profilare lo scenario di una connection calcistico-politico-imprenditoriale in un momento storico nel quale forze estremiste trovano nelle curve l’humus giusto e la legittimazione che le piazze ancora non concedono.
Il processo per la morte di Paparelli
L’intervista che Giovanni Fiorillo rilascia ai due giornalisti è parte di una strategia avvocatesca. Dopo aver sondato il terreno, Fiorillo torna infatti in Italia e si consegna. Nel frattempo l’ipotesi di reato è declassata a omicidio preterintenzionale. Il 25 gennaio 1981 lo tzigano è a disposizione degli inquirenti, Angelini lo sarà qualche mese più tardi. L’11 giugno ha inizio il processo e nella serata del 3 luglio 1981 viene raggiunto il verdetto. Dopo sette ore di Camera di Consiglio, la Corte d’Assise condanna Giovanni Fiorillo e Marco Angelini a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, più un anno e quattro mesi per detenzione d’armi.
Enrico Marcioni deve subire una pena pari a tre anni e cinque mesi, più un anno e tre mesi per detenzione d’armi. La famiglia Paparelli sarà indennizzata per una somma pari a venti milioni di lire. La sentenza definitiva è dell’8 maggio 1987 e condanna lo tzigano e Angelini a sei anni e dieci mesi. Quattro anni e cinque mesi di reclusione è la pena ultima per Marcioni. Cala così il sipario mediatico su una delle storie da stadio più atroci di sempre. I colpevoli sono condannati, tutti i dubbi d’altra natura restano tali.
Fiorillo è morto nel 1993 all’età di 32 anni, dopo essere sprofondato in un tunnel di galera e droga. La signora Vanda Del Pinto, moglie di Vincenzo Paparelli è passata a miglior vita nel 2011.
All’amaro che la storia lascia in bocca si assomma una sensazione chiara, sempre più avvalorata dai fatti nel corso dei decenni. In termini di fenomeno nazionale, i tifosi organizzati non sono e non saranno sparute minoranze di persone che cercano nel calcio gli ideali che nelle loro vite mancano. Sono invece, soprattutto nelle grandi città, gruppi perfettamente efficienti, forti di connessioni politiche e imprenditoriali, ma anche onda d’urto in chiave di consenso elettorale. Proprio per questo, rappresentano una forza con la quale la società civile dovrà fare i conti. Nel 1979 era solo un sospetto, oggi è una certezza. Le certezze che non piacciono, ma che non si possono ignorare.