La fine annunciata di una squadra abbandonata da tutti.
La Virtus Roma è scomparsa. La capitale d’Italia non avrà più la sua storica squadra di basket. Tante le voci rammaricate alzatesi in coro negli ultimi due giorni. Tante ma non abbastanza. Un coro funebre tristemente annunciato. Il mancato pagamento della quarta rata stagionale Fip, per un ammontare pari a circa 35,000 euro, ha costretto nella serata di mercoledì il proprietario del club Claudio Toti a ritirare la formazione dal campionato di Serie A svincolando staff tecnico e giocatori: la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La Virtus, abbandonata dagli sponsor, era moribonda da un pezzo. Chi aveva davvero a cuore le sorti della squadra il peggio se lo aspettava da tempo. Il punto è qui: a stringersi attorno alla bandiera virtussina negli ultimi anni erano rimasti in pochi. Anzi, pochissimi. Partiamo da questo aspetto della vicenda, riprendendo alcuni passaggi della riflessione nel merito pubblicata da Marco Bonfiglio su infobetting.com il 9 dicembre:
«Naturalmente non è solo colpa di Toti, così come è certo che la sua proprietà abbia fatto anche cose buone, a volte ottime, sia pure slegate da una progettualità fondamentale e a Roma ancora più necessaria perché, semplicemente, la Virtus Roma sta a Roma. E a Roma sono fallite, e ci hanno messo molto meno di venti anni, società professionistiche di pallavolo, pallanuoto, rugby. La sostanza è che a Roma lo sport professionistico che non sia il calcio, nel nuovo millennio, non si può fare.
[…] Riunire e non separare: purtroppo il contrario di ciò che ha fatto la Virtus Roma negli ultimi anni, somigliando sempre meno alla Virtus e sempre di più a una Roma arida, divisa e disinteressata. Ecco perché, concettualmente e concretamente, Virtus e Roma non si possono scindere. Dove comincia una finisce l’altra e viceversa. La Virtus, questa Virtus, quella romana, non poteva esistere senza Roma. Ora sappiamo anche che a causa di Roma non può esistere più.»
La Virtus vittima di Roma e quindi di sé stessa: Bonfiglio centra in pieno l’obiettivo. In una metropoli che vive morbosamente di solo calcio non sorprende che il fallimento di una società che ha scritto il proprio nome nella storia del basket italiano ed internazionale venga accettato con misera rassegnazione da istituzioni, addetti ai lavori e opinione pubblica. Diciamocela tutta, a commuoversi sinceramente sono “solo” qualche decina di migliaia di appassionati. In una piazza come Roma il dato è impressionante. In negativo, beninteso. Fedelissimi che quest’anno avrebbero voluto festeggiare i 60 anni della loro beneamata. E invece hanno dovuto vederla spegnersi davanti ai propri occhi.
Tra momenti di gloria, mancate vittorie, discese e risalite, la Virtus ha regalato loro momenti ed emozioni indimenticabili. «Un patrimonio di uomini e di ricordi», prendendo in prestito le parole di Tonino Cagnucci, che fa specie veder svanire così violentemente. Il disinteresse del mondo imprenditoriale, politico e sportivo capitolino ha condannato la Virtus tanto quanto l’incapacità di Toti nel trovare un degno acquirente. Il patron ci ha provato fino alla fine però, bisogna riconoscerglielo. Davanti alla fuga dell’ultima cordata interessata, ovvero il fondo d’investimento americano Kia Investment, è stato costretto ad arrendersi alla realtà. Vent’anni di vita distrutti in una notte, come ha affermato lui stesso. Vent’anni di gestione nei quali sono stati compiuti senz’altro degli errori:
«La Virtus Roma di Toti si è sempre distinta per l’eccezionale capacità di farsi terra bruciata intorno nel territorio. La Virtus naturalmente rappresentava il vertice del basket romano, l’apice professionistico del movimento, la punta della piramide. Con Toti, la squadra non ha mai collaborato con il territorio, lo ha anzi spesso snobbato con un atteggiamento di insopportabile superiorità, fossero le antiche glorie che furono in campo e in panchina all’epoca dei trionfi del Bancoroma o le tante società del settore giovanile a cui si potevano strappare talenti in erba senza chiedere il permesso.»
«Non ha mai coltivato un vero rapporto con le istituzioni se non durante l’epoca di Veltroni sindaco, principalmente non ha mai fatto un passo verso l’esterno se l’esterno non faceva un passo verso di lei. E questo anche dal punto di vista della comunicazione. Ed è l’epilogo più scontato del mondo che se bruci il campo in cui vivi, a lungo andare non hai più niente da raccogliere e alla fine muori di fame perché nessuno ti porge un pezzo di pane quando ne hai bisogno. La storia di questa proprietà è fatta di un sacco di nomi celebri che hanno iniziato a collaborare con la Virtus Roma per poi sparire da un giorno all’altro ed è fatta di un sacco di trattative, fossero sponsorizzazioni, l’ingresso di nuovi soci, un cambio di mano, che non si sono mai concretizzate.»
Bonfiglio non usa mezzi termini per indicare quelle che, a suo modo di vedere, sono state le maggiori colpe della gestione Toti. E visto l’amaro epilogo, sembra vederci lungo. Nell’ora più buia nessuno ha teso una mano alla Virtus. La domanda da porsi adesso è estremamente complessa ma necessaria: cosa fare per evitare che in futuro continuino a verificarsi situazioni simili? Questo fallimento tocca i nervi scoperti di tutto il settore dello sport professionistico italiano. Un settore strutturalmente in perdita che non può e non deve più mantenersi solo grazie alle elargizioni dei proprietari dei club o al sostegno di politici o notabili di turno.
C’è disperato bisogno di una svolta che venga realizzata attraverso un modello economico finalmente vincente e virtuoso che punti all’auto-sostenibilità. In questi termini, come scrive Flavio Tranquillo ne “Lo sport di domani”, va ricondotto lo sport nella sua dimensione di attività imprenditoriale ad alto valore aggiunto con elevato spessore socioculturale. Più investimenti nel medio-lungo termine, gestioni societarie maggiormente responsabilizzate e una governance all’altezza da parte delle autorità designate: il futuro dello sport italiano è una partita difficile ma ancora tutta da giocare.