Il metallo più prezioso ha cinto il collo di un ragazzo pugliese che incarna lo spirito del taekwondo.
C’è un termine coreano, baekjul boolgool, con cui si indica uno dei cinque principi cardine del taekwondo: lo “spirito indomito”, la capacità di tirarsi fuori da una situazione (sportivamente) disperata ossia di di ribaltare l’esito di un combattimento partito male, usando come sole armi la propria integrità e il proprio coraggio. Vito Dell’Aquila di baekjul boolgool ne ha fatto vedere parecchio alla Masuhari Messe Hall di Chiba, cittadina a quaranta chilometri da Tokyo dove si tengono le gare olimpiche di quest’arte marziale elegante, un po’ una scherma combattuta con i calci.
Per capire bene di che pasta sia fatto Dell’Aquila, chiedete al tunisino Mohamed Khalil Jendoubi, in vantaggio per una ripresa e mezza su tre contro l’italiano, prima che un pressing indemoniato sul 10-10 lo costringesse a scoprire la guardia e a capitolare 16-12. Il metallo più prezioso ha cinto il collo di Vito, il quale ha dimostrato grande Ye Ui, ossia cortesia, non esultando come un pazzo di fronte all’avvilito rivale, bensì abbracciandolo e sorridendo con compostezza: missione compiuta.
Un carattere particolare
Il primo oro italiano in terra nipponica lo firma questo ragazzo dagli occhi vispi, magro come un grissino, eppure con due fruste al posto delle gambe. Vito non ha mai nascosto di essere una persona molto timida, introverso quasi all’eccesso: chi scrive lo può garantire, dato che a inizio dicembre 2019 – dopo che Dell’Aquila trionfò all’Europeo di Mosca – lo intervistai per il Corriere dello Sport. Contattarlo fu un incubo: non rispondeva al telefono, visualizzava i messaggi ma non scriveva mezza parola, era evasivo di fronte alle richieste del team manager di ricontattarmi. Alla fine riuscii a raccogliere le sue dichiarazioni, anche se confesso che il suo atteggiamento mi aveva infastidito molto.
Dopo quasi due anni, parlandoci di persona pochi minuti dopo l’oro di Tokyo, mi sono reso conto che il mio giudizio era errato. Il neo medagliato non è un individuo con atteggiamenti da star, ma un ragazzo ancora molto giovane e di una sensibilità estrema, uno che ci tiene a ripetere tre-quattro volte “quanti sacrifici” abbia fatto per dedicarsi anima e corpo al taekwondo: dieta, allenamenti, duri, pochissimo tempo per famiglia e amici. La sua fragilità è emersa in maniera brutale durante il primo lockdown, quando “non c’erano stimoli” e lui si è dovuto recare da uno psicologo per sconfiggere le sue angosce.
Mesagne, capitale mondiale del taekwondo
Ma la forza di questo figlio della Puglia è maggiore di quanto lui stesso non creda. Quando parla della sua famiglia, Vito colpisce nel segno come i suoi yop chaki (i calci laterali), quelli con cui ha rimontato Jendoubi:
“Vengo da una famiglia molto umile, che però mi ha insegnato una cosa: lavorare duro per realizzare i miei sogni”.
Strano ma vero, anche Vito viene da Mesagne, paesino della provincia di Brindisi che ha dato i natali al primo oro olimpico della storia del taekwondo italiano: Carlo Molfetta, che a Londra 2012 fece scoprire questo sport a tanti italiani. Da quel momento il taekwondo a molti non sembra più una parolaccia, c’è stato il boom dei nuovi affiliati (che continuano a crescere), e la palestra di Mesagne col maestro Roberto Baglivo sono ormai conosciuti in tutto il mondo. L’eccezionalità del nostro Paese risiede anche in questi piccoli dettagli meravigliosi: un luogo di venticinquemila anime quante probabilità aveva di sfornare due ori olimpici nella stessa disciplina?