Un amore dolce e intenso come pochi, consumato a San Siro.
Gli anni Sessanta e un matrimonio tipicamente italiano. I convitati che si radunano attorno al banchetto, le cravatte macchiate, i piedi alla lunga un po’ dolenti e un vociare allegro che di tanto in tanto esplode in risate fragorose: un altro brindisi, un altro chiassoso scontro di calici a mezz’aria. E poi l’eccitazione elettrica che nel viavai di portate cede il passo a un torpore sonnolento, come un’ondata di vino rosso che attraversa il corpo e lo riempie di calore. Pochi patemi, un bicchierino di Ramazzotti con ghiaccio, una vita senza noie che pare possibile.
Solo due figure, in modo quasi comico, se ne stanno un poco in disparte: hanno la radiolina accesa e si piegano in avanti come ipnotizzate dalla voce metallica che arriva dalla cassa. Sono il padre della sposa (sic!) ed un amico, i poeti Vittorio Sereni e Franco Fortini, appartati ed estraniati dalla festa: scusate un attimo, c’è l’Inter che gioca, sembrano dire, agitando la mano nel vuoto come a scacciare sul nascere qualsiasi richiamo; le foto a dopo, lo spumante tra un minuto.
È una scena grottesca che ha del surreale, se si pensa a due grandi del nostro ‘900 letterario assentati dal brio nuziale per seguire le sorti di una partita di cui oggi a stento si ricorderebbe il risultato. In particolare Sereni, persona fine ed elegante, e nondimeno tifoso spasmodico, in gastrica balìa delle sorti della sua squadra – e non si sa mai come spiegarlo, agli altri, che una sconfitta domenicale manda alla malora ogni buon proposito per il lunedì.
A dire il vero Vittorio, «nerazzurro da infiniti anni», non è originario di Milano, e lì come tanti ci arriva in gioventù, scendendo dalle rive del Lago Maggiore che bagnano la natia Luino. L’infanzia lacustre, in cui cresce non avendo pensieri che per Giuseppe Meazza, mito nazionale; poi il ginnasio a Brescia e gli studi universitari a Milano «regno di filibustieri, indigeni e non».
Ed è quest’ultimo, decisivo approdo che diventa terreno fertilissimo: per gli stimoli intellettuali, è ovvio, ma anche per la mania interista del giovane poeta, che comincia così a frequentare prima l’Arena Civica e poi San Siro, il quale diverrà presto un luogo privilegiato per le domeniche pomeriggio, trascorse in compagnia di Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi – la bella scola delle gradinate di allora, che attirano sulla sponda interista praticamente tutti coloro che abbeverano i propri versi con le acque dei Navigli.
Allora più che oggi si credeva che certi hobby fosse meglio lasciarli al popolino. Eppure Sereni, poeta ancorato alla realtà – «io in poesia sono per le cose» – è tra i primi a scardinare il principio per cui del calcio i poeti non se ne possano fare un cruccio personale. E non è un caso che in questo il suo genio tutelare sia Umberto Saba. Ma il poeta di Trieste, che al pallone dedica il noto ciclo di cinque poesie, è un tifoso ‘agnostico’, innamorato della forma ben più della sostanza: un giorno finisce un po’ per caso allo stadio cittadino e s’infatua, fulmineo, di quei rosso alabardati; non in un improvviso ardore per la maglia paesana, ma come spettacolo del mondo che in un attimo ne ispira il carme.
Per Sereni, invece, il calcio non è solo un pretesto narrativo, uno stralcio di realtà da avvinghiare con l’inchiostro, bensì una passione febbrile che lo porta per una vita sui soliti gradoni di cemento freddo, a seguire le sorti non sempre fortunate della Beneamata. Tuttavia, su questo fronte, il poeta di Luino non combatte con le spalle coperte da una folta schiera di accademici ed eruditi. Un esempio su tutti di questo diffuso atteggiamento di sufficienza: Eugenio Montale.
Cantore aristocratico (e probabilmente insuperato) che non aveva in alcuna simpatia il gioco del pallone, fino ad augurarsi un mondo senza porte e senza reti, in cui i campionati si ripetessero in una catena di zero a zero impossibile da sbrogliare.
Addirittura si dice che nascondesse La Gazzetta dello Sport tra cumuli di carte e giornali pur di non farsi beccare con le dita macchiate di quel rosa – un rosa proibito per uno della sua statura intellettuale. Ebbene, egli avrebbe forse visto nel tifo di Sereni un vezzo inadatto; e nel poeta lombardo uno che si apprestava a scalare i muri coi di cocci di bottiglia in cima a volto coperto, con sciarpa da ultrà, più che con il bagaglio raffinato che ci si aspetta da chi ha letto certi libri. Sereni, invece, da perfetto genio guastatore, riesce a sabotare fin dalle prime produzioni questa sciocca divisione valoriale.
E allora gli interlocutori sportivi li trova in altri, come Volponi e Pasolini, che salgono spesso in Lombardia per seguire le trasferte del Bologna. «Ti avverto che domenica il mio cuore è a Milano, insieme a quello grassoccio di Volponi: tutti e due a palpitare fino sull’orlo della trombosi. E mi dispiace che la gioia nostra sarà la tua disfatta» scrive PPP nel novembre del ’54, al quale Sereni risponde pochi giorni dopo, con sconsolata ironia: «ieri ho visto al 90° sul cielo di San Siro effondersi il tuo ghigno e il serafico sorriso di quel volpone di Volponi».
In quell’occasione, come sempre quando va alla partita, Sereni porta con sé uno di quei tipici cuscinetti che si vedono allo stadio, piegato in due parti foderate, tenute assieme da un elastico che fa da cerniera. Ma non si siede mai. A dispetto del cognome, preferisce passare l’intera partita in piedi, stringendo tra le dita quell’oggetto di culto in gommapiuma; muto, a braccia conserte, mentre osserva con ansiosa regolarità l’orologio da polso, tanto più spesso quanto più il risultato appare in bilico. E poi magari si perde, e alla sconfitta maldigerita i tre amici rimediano con un piatto di spaghetti al pomodoro:
«Ce li meritiamo…» commenta con un sorriso Vittorio, rimasto in un turbato silenzio per tutto il tragitto che porta da San Siro alla tavola calda in cui si sono infilati.
Non molto lontano da casa, comunque, dal momento che si era poi stabilito proprio in via Paravia, a due passi dall’anfiteatro del calcio ambrosiano; e poi magari, una volta rientrato, si siede a scrivere qualche verso, ispirato da quell’undici-contro-undici appena giunto al punto finale – e per un attimo lo spettacolo in campo non è poi così lontano da un distico perfetto, in un intreccio di endecasillabi che da porta a porta gridano e scalpitano sui loro tacchetti, a ritmo ora giambico e ora dattilico a seconda dell’intensità di gioco.
San Siro, lo si diceva, è luogo prediletto del Sereni Uomo, ma anche del Sereni Poeta, fino a diventare ai suoi occhi un’ideale allegoria dell’esistenza, di cui solo la poesia si può fare portavoce. E l’interismo contratto in giovinezza, che gli smuove le budella col contegno tipico di un uomo mite e garbato, lo segue senza sosta. Addirittura ne apre e ne chiude la parabola lirica, in un sigillo di lacca vistoso (e chissà quanto volontario) che ha per matrice lo stadio di Milano, arena ed epicentro di infiniti scossoni emotivi.
Quando scrive una prosa intitolata “Il fantasma nerazzurro”, Vittorio è da tempo un habitué del rito domenicale, «spesso portato a chiedersi se l’Inter non occupi una parte troppo grande dei suoi pensieri», preso come d’incanto dallo spettacolo sbalorditivo della folla compatta, avvolta di nerazzurro, e nient’affatto rinunciatario dinnanzi agli strali di certe perpetue da biblioteca, piuttosto facili da scandalizzare. La passione sportiva, in questo caso, è per Sereni emblema di vitalità pura e, in controluce, meditazione sulla finitezza delle cose. Come fa uno che scrive e che ha studiato tanto ad appassionarsi alla danza pedatoria? Senza remore, Sereni confessa che l’origine di quel fantasma passionale e misterioso si radica qui, nella
«cifra che la squadra assume ai tuoi occhi, per analogia ma anche per contrasto o semplicemente per complementarità rispetto all’immagine che hai di te stesso. Diventa una metafora della tua esistenza, la sorte della squadra […] è un possibile diagramma del tuo destino».
Nella sua prima raccolta, “Frontiere”, ci si imbatte subito in un frammento dallo spunto giornalistico: Domenica sportiva, fotogramma di un’avvincente sfida con la Juve, che da cronaca incolore si eleva a faticoso bilancio dell’esistenza. «Il verde è sommerso in neroazzurri. / Ma le zebre venute di Piemonte |sormontano riscosse a un hallalì / squillato dietro barriere di folla». La partitura di punte e calcagni diventa sulla bocca di Sereni un evento di note e tonalità intensissime, una campana che suona a festa. E «la passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne».
Così anche il tifo non è più una semplice cornice, e si dilata e si contrae negli spasmi che seguono ad ogni tocco di palla. Ma poi il baccano raggiunge il suo apice, si ode il triplice fischio. La folla abbandona a passi lenti il tempio gradinato, e non resta che un ultimo amaro sguardo al campo ormai deserto: «A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella». Con una clausola fulminante, come se i fari si fossero spenti d’improvviso, ogni cosa che pareva esistere sfuma, e il rumore di prima non è che un’eco distante e impercettibile – l’unica prova, forse, che siamo esistiti per davvero.
Per la durata del match la realtà pare costruirsi in significati comprensibili, e in un travolgente furore collettivo la vita si sopporta volentieri. E però dietro il giro di meriggio canoro si apre una voragine di silenzio dove a trovare posto è solo il ticchettio della pioggia sugli intonachi. L’acqua dilava ogni entusiasmo e sull’impronta di ciò che è stato, in un malinconico senso d’attesa, si tasta la misura di un vuoto personale, preludio della settimana – e cioè dell’esistenza – che verrà. Il tempo scorre, travolge, annega; e riporta a galla il dubbio che il quotidiano sia una gabbia senza senso.
Pieno e vuoto, dunque, che si amalgamano di continuo, come l’avvicendarsi della vita e della morte. A San Siro, confessa il poeta in una lettera, è «bellissimo andarci di giorno, durante le ore di lavoro, e girare là intorno in quel gran vuoto e silenzio». Le gradinate che si svuotano nella vacuità e nel rimpianto, il tempo che si getta alle ortiche. Perché, continua Sereni: «forse non esiste un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontroallavarietà dell’esistenza: ai suoi andirivieni, rovesciamenti, imprevisti, contraccolpi. Ma anche alle sue stasi, alle sue ripetizioni, alla sua monotonia: la tua squadra ha appena vinto lo scudetto e la Coppa dei Campioni, e perciò stesso hai creduto di poter finalmente placare il tuo antico fantasma di tifoso? Beh, ti sbagliavi, e di grosso, perché è già tutto ricominciato, è tutto da rifare».
Ad un altro pomeriggio di pallone, parecchi decenni dopo, Vittorio dedicherà la chiusura della propria esperienza poetica, tornando a quel San Siro che così spesso aveva fatto da specchio alle sue vicende intime e personali. È il 27 luglio, giornata per lui d’auguri e candeline, cui egli stesso allude nel titolo del componimento, “Altro compleanno”:
A fine luglio quando
da sotto le pergole di un bar di San Siro
tra cancellate e fornici si intravede
un qualche spicchio dello stadio assolato
quando trasecola il gran catino vuoto
a specchio del tempo sperperato e pare
che proprio lì venga a morire un anno
e non si sa che altro un altro anno prepari
passiamola questa soglia una volta di più
sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore
e un’ardesia propaghi il colore dell’estate.
Tolti gli schiamazzi di un vecchio derby d’Italia, ci troviamo qui immersi nell’afa di una Milano torrida e desolata. Gli anni incalzano, e dal tavolino del baretto sotto casa Sereni si lascia andare con sguardo sconsolato al rettangolo di cielo da cui s’intravede lo stadio, chiuso e inerme. San Siro senza la sua squadra e senza la sua gente è un monito cupo e tenebroso, scavato dal sole che batte le nuche sudate e le lamiere bollenti.
Non ci sono riverberi di vita: la città sonnecchia, le croci sul calendario cancellano tutto quello che trovano lungo il loro cammino, e quella che in primavera si presenta come la Scala del Calcio, qui non è che un ammasso scolorato di cemento e acciaio, l’ossatura mostruosa di un gigante accasciato al suolo. Sembra quasi impossibile che proprio lì si sia giocata la benché minima azione degna di memoria.
Il prima è ormai sperperato ed irrecuperabile come il più malinconico tramonto dei “Diari d’Algeria”; il dopo, invece, suscita sgomento proprio perché non si sa affatto come immaginarlo. Una fitta serie di subordinate, poi un’esortazione: passiamola questa soglia, una volta di più. Quasi un imperativo, ma pieno di tremore, col gusto impastato della calce e della polvere, che va ad accompagnare i colori di un’estate prossima a morire. In un moto che è disperata resistenza e mirabile frammento di luce, nella speranza che l’ennesima soglia si possa oltrepassare ancora. Lo stesso ordine morale che il poeta si sarà forse posto da tifoso, sulle gradinate di San Siro.
Lasciandosi alle spalle un campionato deludente, gli obiettivi mancati, le cessioni di lusso. Ma anche, al di là del calcio, un fallimento personale, l’amarezza di un’illusione rivelatasi per quello che è, un rovescio improvviso che spariglia i piani di un anno appena cominciato.
Come una finale persa, così anche un’occasione mancata per sempre; come un rigore sparato in alto che tormenta i sogni di un ragazzino, così pure un amore difficile e chissà se perduto. Palestra di sofferenza e culla di gioie incontenibili. E cioè la più seria delle faccende interiori di un uomo, almeno tra quelle faccende che si possono pur dire secondarie, perché di più sarebbe troppo. Ma solo se il calcio è visto come somma di azioni cinetiche, e non come la metafora agonistica che meglio di tutte ha saputo imitare la vita di chi la gioca e di chi la assiste.
Passiamola sta soglia va’, si potrebbe dire, perché un altro campionato è sempre lì ad attenderci. Basta saper pazientare, guardando a vista la fine dell’ennesima estate e dei suoi caldi asfissianti. In un battito è settembre. Insomma, «tutto è già ricominciato, tutto è da rifare. E anche questo somiglia stranamente alla vita, al lavoro, all’arte stessa».