Cultura
26 Novembre 2022

Vladimiro Caminiti, con la testa e con il cuore

Un artigiano (colto) del giornalismo sportivo.

Quando il calcio era un foglio battuto a macchina, non era un sogno che le cronache cominciassero, prima ancora di sciorinare dati e aneddoti, dal verde del prato e dal blu del cielo. Era con questa idea che un grande giornalista dimenticato, Vladimiro Caminiti detto Camin, poeta dell’aggettivo e principe di una stampa che fu, raccontava i capricci del pallone sotto la Mole e dispensava consigli cromatici a quelli che, una volta, si chiamavano “biondini”, e cioè giovani cronisti precari, divenuti poi inviati e direttori.

Una piccola cavalleria di allievi che, come Darwin Pastorin, Vittorio Oreggia e Roberto Beccantini, ne cantano ancora la gloria sin dal giorno della sua scomparsa, avvenuta a Torino, la città che lo aveva adottato, il 5 settembre 1993. Un giorno in cui, mentre la “maggica” di Mazzone sconfiggeva la Juventus, un maledetto e indomito male spegneva il cuore di Camin. Un cuore che scriveva a colori, certo, ma con un occhio di riguardo verso le sfumature che furono del neorealismo: il bianco e il nero della Vecchia Signora.

Caminiti era siciliano. Sui documenti si leggeva: nato a Palermo, capoluogo della sua “isola bedda”, il 31 maggio 1932 da una famiglia vecchio stampo, con un capo famiglia vecchio stampo: suo padre Peppino, maestro di violoncello nel locale conservatorio e primo strumento nella filarmonica del Teatro Massimo. “Padre dal rigore inflessibile, spesso eccessivo, non perdonava la mediocrità ma premiava il talento”, lo ricorda Benvenuto, ultimo dei sette fratelli Caminiti, anche lui giornalista. A casa si respirava musica classica, ma anche il calcio godeva del suo (piccolo) spazio: così, come per ogni palermitano (o “panormita”, come scriveva lui) che si rispetti, prima ancora del bianco, il primo colore a fare coppia col nero non poteva che essere il rosa.



I gradoni della “Favorita” divennero una casa per Vladimiro Caminiti, eccetto nel giorno in cui rinunciò “con calde lacrime” ad assistere ad uno storico pareggio dei suoi con gli angeli del Grande Torino.

“Dai 15 ai 20 anni il Palermo è stato tutto per me – scriverà alcuni anni dopo –, ho gettato i libri alle ortiche per volare da palo a palo. Presa una assai brutta pleurite, ho ripiegato sul giornalismo sportivo”.

Camin insomma, prima ancora di raccontare, difende i pali, para, respinge, devia e, nonostante non sia sicuramente un watusso, arriva dove non sembra possibile. Un discorso che, per uno come lui, vale anche al di fuori del rettangolo verde: appesi i guantoni al chiodo, approda nella redazione del giornale “L’Ora”, che a Palermo chiamavano “il L’Ora” oppure, più brutalmente, “il L’Ora morti e feriti”, come gridavano gli strilloni per annunciare gli ultimi delitti di mafia. Uno di questi, che ancora oggi ha un’immagine seppiata e dai contorni sbiaditi, cancellò nel 1970 la penna del cronista di nera Mauro De Mauro, che di Vladimiro era stato il maestro, commissionandogli, appena ventenne, il suo primo servizio importante: una storia del Palermo a puntate per il supplemento domenicale del quotidiano.

La Conca d’Oro palermitana, tuttavia, soffoca il suo talento anche sulla scrivania del giornale “Sicilia del Popolo”: sono gli anni del Palermo del presidente Casimiro Vizzini e del segretario “tuttofare” Totò Vilardo. «Benni, ricordatelo – spiegava Camin al fratello minore, che oggi custodisce la sua memoria –: oggi Vilardo, domani un altro, prima la sua gloria poi quella della squadra!». Ci aveva visto giusto, ed erano solo i primi anni ’50. Per questo si diede subito da fare cercando voce altrove. La trovò a “Tuttosport”, diretto allora dal grande Antonio Ghirelli, leader carismatico della scuola critica napoletana detestata da Gianni Brera: quella, per intenderci, del “tutti avanti”, che sebbene abbia sulla coscienza alcune retrocessioni dei suoi eroi forgerà anche Camin, mai realmente interessato alla tattica e fautore di un giornalismo “dannunziano”, secondo cui non esistono schemi modello ma piuttosto un costume tecnico che via via si evolve.



“Ti allego il contratto, vieni subito su!”, gli scrisse Ghirelli dopo aver letto un suo articolo. Tuttavia, come ricorda ancora Benvenuto Caminiti, i primi mesi nella capitale sabauda furono un inferno o quasi: «Umiltà e soggezione? Non sapeva cosa fossero e, anche l’avesse saputo, se ne sarebbe infischiato: Vladi rappresentava uno di quei rarissimi casi di grande bravura sposata ad altrettanta, se non superiore, autoreferenzialità». Anche grazie a queste armi, la fama del giovane “Napoli”, come allora si chiamavano i meridionali emigrati, cresceva di giorno in giorno.

Perché, nonostante il carattere spigoloso e il filosofico candore, Camin scriveva da urlo: una prosa fantasiosa, letteraria e ricca di aggettivi pesanti e giudizi inusuali, più vicina ad Umberto Saba che ad Ettore Berra. Un suggerimento appreso quando ancora muoveva i primi passi e sognava la firma, scrivendo, come fanno ancora un po’ tutti, lettere ai suoi totem di carta e inchiostro, ricevendo da Bruno Roghi la massima:

“E i giornalisti sportivi vengano anche dai libri”.

Era burbero, istrionico e spesso e volentieri imbronciato, ma al tempo stesso puro, incapace di far male ad una mosca. La sua squadra preferita, da inviato di “Tuttosport”, divenne la Juventus, che proprio allora forgiava i caratteri e i simboli con cui è nota tuttora: schiacciasassi “fino al confine”, padrona assoluta del campionato, ricca e arrogante. Così Camin ebbe a scrivere parole al miele come: «Qualunque sia la situazione sociale, storica, il ruolo della Juventus non può cambiare. Ruolo perennemente vincente, ruolo glorioso». Smisurati, capirete, la stima e l’affetto con cui i tifosi bianconeri gli rendevano omaggio, non solo per i pezzi sul quotidiano, ma anche per una rubrica fissa, che Vladimiro firmava sul mensile del club, “Hurrà Juventus”.

Vladimiro Caminiti Agnelli
Vladimiro Caminiti (a destra) in foto con l’avvocato Agnelli,

I suoi beniamini erano gente come Furino, Anastasi e Causio, che come lui e come decine di famiglie operaie erano giunte nella malinconica Torino dal profondo Sud, quello di “Cristo si è fermato a Eboli” (scritto proprio da un torinese), e adesso, candidamente, sbarcavano il lunario sulla scia degli Agnelli, intesi come famiglia. Insomma: calciatori, una folla oceanica di tifosi e poi addirittura un inviato per cui «la Juventus è qualcosa di più di un hobby domenicale, di una ragione di tifo, ma può ipostatizzare un’intera vita, l’illusione di una vita», come egli stesso scrisse.

Era un artigiano del giornalismo, innamorato del mestiere, ma un artigiano che aveva letto molti libri, e qualcuno ne aveva anche scritto. Qualcuno di troppo, forse, è dedicato alla Juventus. Ad ogni modo, cercateli sulle bancarelle o in qualche angolo di Internet e non ve ne pentirete. Camin, infatti, sebbene meno celebre di alcuni suoi contemporanei come lo stesso Brera (che pure gli aveva dedicato un apprezzamento originale: “Noi due scriviamo, gli altri riscrivono”), dei “divi in poltrona” (come lui chiamava i calciatori) raccontava un romanticismo che oggi, probabilmente, non esiste più – o quantomeno non come allora.

Ma, a voler essere pignoli, i suoi scritti raccontano, forse più di chiunque, un giornalismo libero, affrancato dal fantacalcio e dal fantacalciomercato; un giornalismo dove si parla ancora di catenaccio e contropiede, e non solo: se ne parla anche bene. Un giornalismo in cui, come afferma la prima regola del breviario di Camin ai giovani, per guardare il colore del cielo sopra lo stadio e del campo ai suoi piedi, e per cercare di raccontarli, quei colori, perché ancora facevano parte della cronaca, non conta solo la penna: conta anche il cuore. E anche se bianconero, chissenefrega, purché ci sia.


Si ringraziano i gestori della pagina “Vladimiro Caminiti” per le due foto inserite nell’articolo

Nell’immagine di copertina, con Armando Picchi


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