La sparizione degli stopper vecchia maniera dai campi di calcio non ha una data precisa, ma forse un giorno che può essere inserito negli almanacchi di storia del fútbol: è il 25 maggio 2016, quando Walter Samuel gioca la sua ultima partita, Grasshopper-Basilea, al termine di un’appendice di carriera in terra elvetica, dopo gli anni passati a calcare i prati più prestigiosi d’Europa e Sudamerica, con l’obiettivo permanente di sbarrare la strada, con le buone o le cattive, ai fuoriclasse avversari lanciati verso la propria area di rigore.
Alcuni mesi prima del ritiro arriva la consapevolezza che quell’obiettivo non era più raggiungibile. “Arriva un momento in cui bisogna prendere coscienza del proprio corpo. Se tutto fa male, anche la mente comincia a stancarsi” sentenziava Walter, spiegando che le sue condizioni fisiche lo obbligavano ad ammainare la bandiera di cui era portatore, quella degli stopper d’antan, quelli per cui distruggere il gioco è più importante che crearlo, o meglio quelli per cui la pars destruens si fa anche pars construens.
Nato come Walter Adrián Luján e cresciuto a Firmat, provincia di Santa Fe, con il cognome cambiato in Samuel, in onore del padre adottivo, il giovane Walter si mette in mostra nella provincia santafesina, a Rosario, nelle file del Newell’s Old Boys. Classe 1978 e quindi parte della generazione di talenti purissimi come Juan Román Riquelme e Pablo Aimar, con i quali costituisce la base dell’Albiceleste campione del mondo under20 nel 1997. Nello stesso anno la carriera del difensore cambia con il trasferimento a Buenos Aires: varcando i cancelli della Bombonera inaugura definitivamente il salto nel grande calcio.
Con l’arrivo sulla panchina del Boca de El VirreyCarlos Bianchi, ci sarà l’incontro che gli cambierà la carriera. Walter apprende dal suo maestro il ripudio per il gol subito, considerato un’onta da evitare anche in allenamento, per non passare il resto della partita a macerarsi interiormente all’idea di non aver fatto abbastanza per murare la propria area all’ingresso degli avversari. Un apprendistato alla corte del viceré che lo fa mettere sotto l’osservazione dalla Roma, che con un anno di anticipo lo prenota per il 2000, quando lascerà gli Xeneizes alzando la Copa Libertadores.
Nella Città Eterna ci vuole poco tempo per diventare un idolo della Curva Sud e di tutta la tifoseria giallorossa, che vede nel suo baluardo difensivo un’icona di quella stagione trionfale oltre, ovviamente, al Pupone e al Re Leone Batistuta. Nonostante sia il più giovane degli acquisti di quella Roma targata Franco Sensi, Samuel è subito leader. Tanto è perentorio il suo modo di comandare la difesa e braccare gli attaccanti dell’ancora campionato più bello del mondo che si merita il soprannome di The Wall.
Svezzato da Carlos Bianchi, è consacrato definitivamente da Fabio Capello, che ha bene in mente come si vincono gli scudetti in Italia. La sacra regola del “prima non prenderle” si assume ben volentieri il rischio di risultare noiosi. Nessuno meglio del ragazzo arrivato dall’Argentina risulta prezioso nelle fondamenta di una squadra destinata a uno storico Scudetto. Insieme a tutto il popolo giallorosso è in primis il presidente Sensi a coccolare il suo pupillo, considerandolo “il vero valore aggiunto: con lui non ci fanno più gol”.
Confermatosi stopper di livello mondiale negli anni in giallorosso, nell’estate 2004 il Real Madrid bussa alla porta per averlo. In quel contesto non stupisce vedere Samuel arrancare, finito com’è nella fase crepuscolare dell’era dei Galacticos di Zidane, Ronaldo, Raul, Beckham e compagnia, in cui la dottrina tattica della squadra è tutto tranne che il caro e vecchio adagio italiano del prima non prenderle. Meglio tornare, appunto, dopo una sola stagione, nel campionato che ha reso grande Walter, per approdare all’Inter.
L’orgoglio ferito di The Wall si sposa alla perfezione con la voglia di rivalsa della sponda nerazzurra di Milano, costretta da ben tre lustri a osservare i cugini festeggiare scudetti e Champions League. L’ultima volta sul tetto d’Europa, per il Biscione, risale addirittura a quarant’anni prima, quando un certo Helenio Herrera, con il suo catenaccio, consegnava alla storia l’Inter di quegli anni, insieme all’inseparabile aggettivo di Grande. Il tutto per dire che qui il mestiere di Walter Samuel è richiesto come il pane.
Il difensore argentino può tornare ad assestare le sue stecche intimidatorie nei primi minuti, o addirittura secondi di gioco, per far capire a qualche irriverente bomber o funambolo quale sarà il suo cliente nei successivi novanta minuti. L’astuzia di Samuel, inoltre, sta anche nel fare falli che non si vedono e non attirano l’attenzione dell’arbitro. Mestiere, appunto e con lui tornano quindi anche i trofei.
«Quando un attaccante ti vuole umiliare con dribbling, veroniche e slalom, fagli sentire lo spessore dei tacchetti sullo stinco»
(W. Samuel)
Walter, in cerca di una consacrazione definitiva, trova però sulla sua strada un macigno come la rottura del crociato anteriore del ginocchio sinistro. Nel derby del dicembre 2007, come in uno scherzo del destino, Kakà con un doppio passo manda in confusione Samuel che, con un movimento scomposto, stramazza al suolo. Il tutto nel momento migliore della sua carriera, dopo l’addio alla Roma.
Undici mesi lontano dai campi di gioco, aggiunti allo scoccare dei trent’anni, fanno pensare alla critica che il meglio sia ormai passato e che forse The Wall all’apice lo si sia visto ai tempi della Roma. Intanto il rientro, lento e graduale, è accompagnato dall’arrivo sulla panchina nerazzurra di José Mourinho, che fa tesoro dei primi mesi italiani per capire, come successe a Mago Helenio di fronte al Padova di Rocco quasi cinquant’anni prima, che tra la teoria e la pratica c’è un abisso. Risultato: tanti saluti al tridente con Quaresma e Mancini e spazio alla compattezza e al gioco in contropiede.
Dopo una stagione necessaria per tornare ad affilare gli attrezzi del mestiere, il 2009-2010 vede Walter tornare al centro della difesa da protagonista, stavolta affiancato dal coetaneo Lucio, anche lui in cerca di riscatto. I due trentunenni vanno a formare una coppia sudamericana che unisce classe, esperienza e furore agonistico. Furore che sublima nei grandi appuntamenti per cui è stata costruita quell’Inter, come nei derby, in cui Samuel si esalta sin dai tempi della Bombonera e in Italia, periodo giallorosso compreso, non ne ha perso neanche uno.
La prova del fuoco della miglior stagione nella carriera di Samuel passa però dalle notti europee. Si arriva in semifinale di Champions League e allora chi meglio del Barcellona, al suo apogeo, per testare la difesa del Biscione? Nel ritorno del Camp Nou, l’inter si trova in inferiorità numerica per l’espulsione di Thiago Motta, con più di settanta minuti da giocare e con il Barça che ha tutto il tempo per rimontare il 3-1 nerazzurro di San Siro. Contro avversari del calibro di Messi, Ibrahimovic, Xavi e Iniesta i dieci di Mourinho serrano i ranghi per tentare l’impresa disperata di uscire vivi da lì.
Scenario fin troppo assurdo per i palati fini del bel gioco, a questi livelli poi. Da una parte il tiki-taka, dall’altra il più grande esempio di catenaccio visto nell’era moderna. Samuel giganteggia, si trova nel suo habitat naturale, perché per difendere il fortino dagli assalti nemici all’Inter serve proprio un muro, niente di più niente di meno. Il tempo scorrerà lento, ma i blaugrana passeranno solo con Pique all’84°, il resto decreterà The Wall come migliore in campo, consegnandolo finalmente alla leggenda.
Nella finale di Madrid, l’Inter arriva con una tranquillità inedita, anche perché con Samuel là dietro i tifosi possono dormire sonni tranquilli. Contro il Bayern è il Principe Milito ad incaricarsi di mettere gli ultimi due sigilli al lavoro iniziato da Walter e compagni, riportando il Biscione sul tetto d’Europa dopo 45 anni. Una ciliegina chiamata Triplete che consente, senza se e senza ma, di canonizzare il difensore di Firmat, consegnandolo ai posteri come l’esempio dello stopper in estinzione.
In tempi di settori giovanili in cui si insiste sulla priorità dell’impostare l’azione da parte dei difensori, che spesso disorientati si mettono a guardare la palla e non più l’avversario persino dentro l’area di rigore, noi non ci dimentichiamo di Walter Samuel. Non solo non ce ne dimentichiamo, ma lo portiamo in trionfo. Con l’onore di averlo visto e la nostalgia di non rivederne più l’esemplare, di stopper, che fu.