Sono passati 21 anni da quando Arsène Wenger ha preso le redini dell’Arsenal. Meritevole di aver introdotto notevoli cambiamenti tecnico-tattici al calcio britannico, aumentandone la qualità e lo spettacolo estetico, ha guidato una rivoluzione trasformatasi col tempo in monarchia indesiderata.
Così, ancora inebriati dall’annata degli Invincibili (2003/04), i tifosi del piccolo quartiere di Holloway hanno visto il proprio successo voltarglisi contro; oggi, il regno inglese di corona francese è alla fine del suo corso. Almeno questo è ciò che si vocifera. Perché Wenger ci sta lasciando un bel romanzo incompiuto?
L’Arsenal non vince la Premier League da tredici anni. L’anno in cui la storia prestò il proprio nome a le Professeur, Thierry Henry e compagni riuscirono in un’impresa così memorabile (non perdere neanche una partita nell’intera Premiership) che a nessuno venne il dubbio di ridimensionare la figura dell’allenatore. Oggi il calcio, rispetto a tredici anni fa, è radicalmente cambiato: il direttore d’orchestra viene prima dei calciatori e fa la differenza quanto – se non più di – quelli.
L’esempio che ci si presa sotto gli occhi è Antonio Conte. All’epoca – perché di diverse epoche stiamo parlando – l’allenatore gestiva un gruppo che gli veniva affidato. In questo senso, si può ancora dire, il salto lessicale e calcistico da coach a manager ha mutato per sempre l’idea di allenatore: e non è un caso che uno dei pionieri di questo movimento sia stato proprio Arsène Wenger. La risposta più repentina che viene formulata a chi si interroga sul perché Wenger, nonostante il malcontento di piazza e stampa, sieda ancora sulla panchina dei Gunners, trova in questo fenomeno la sua motivazione cardine. Come licenziare il direttore di una fabbrica se questo è al tempo stesso il suo capo? Il discorso, in questo senso, non è solo economico. Il professore è geloso della sua cattedra.
Prima dell’arrivo di Wenger all’Arsenal, la notorietà del club londinese, oltre che per il celebre romanzo di Nick Hornby Febbre a 90°, era riassunta splendidamente nell’ironico e veritiero ‘Boring, Boring Arsenal’. Una noia che pur portando risultati rischiava di non rimanere al passo coi tempi; paradossale che l’arrivo di un innovatore li avrebbe incatenati alle memorie del passato, in balìa del tempo. L’estetica del gioco wengeriano, a dirla tutta, è per brevissimi tratti del campionato tra le più intriganti e piacevoli all’occhio calcistico – è pur vero che con l’arrivo di Guardiola, nell’arco di due anni confidiamo in un salto di qualità, da questo punto di vista.
Per i primi tre o quattro mesi (Ozil e Sanchez permettendo) l’Arsenal, in un loop che dura con continuità da tre stagioni, gioca il miglior calcio d’Inghilterra, per poi squagliarsi nella sua bellezza in stile surrealista – si guardi a tal proposito La persistenza della memoria di Salvador Dalì, per la rubrica Se l’Arsenal di Wenger fosse un’opera d’arte.
Il gioco dell’Arsenal è quello di un cavallo di bella razza che per mettere in mostra tutta la sua estetica e la sua abilità arriva stanco al traguardo, cadendo rovinosamente al suolo. Vedremo grandi salti, piroette e potenza durante la preparazione; mancherà però l’allungo finale. L’interrogativo che più ricorre dalle parti dell’Emirates è se ci sia bisogno di cestinare il passato per ricominciare, o se piuttosto – magari ancora sotto la supervisione di Wenger in un ruolo “altro” del club – non si debba continuare sulla scuola dell’emerito professore, rinnovandosi per il futuro.
Si dovrebbe parlare, a tale proposito, di due rami post-wengeriani: la sinistra wengeriana, che vorrebbe superarlo, e la destra wengeriana, tradizionalista e fedele alle idee del maestro. Ora, senza scadere in parallelismi hegeliani di difficile lettura, lo snodo a cui si è giunti non è più ulteriormente rinviabile. A Londra, come in tutta la Gran Bretagna, il clima è ballerino e propende maggiormente per le nuvole: ma è dietro queste che potrebbe celarsi il destino dei Gunners. Guardiola, vero genio del calcio moderno, si presentava con queste parole alle porte di Manchester, nell’estate del 2016:
Arrivare nel paese che ha inventato il calcio e credere di dover cambiare qualcosa sarebbe presuntuoso. Io non sono abbastanza bravo per modificare tutto. Cambiare la mentalità di un club con più di 120 anni di storia sarebbe presuntuoso.
Ma all’Arsenal serve un genio o un ribelle? Un Augusto o un Filippo il Bello?