Le parole su Mbappé diventate un caso (perso).
E così pure Arsene Wenger, un francese da III arrondisement parigino, algido signore del football, uomo simbolo di una nuova sinistra moderata e progressista e storico fautore del fair play (celebri le sue invettive contro i tackle troppo duri di Scholes e non solo), è stato tacciato di razzismo. Non gli è bastato il suo ruolo in FIFA e l’impegno a coinvolgere quante più federazioni possibili per il mondiale (per carità), che vorrebbe addirittura fare ogni due anni (per carità, pt.2). Quando ti lasci andare a certe dichiarazioni e scivoli su simili “bucce di banana” – finché si potrà ancora usare questa espressione, dal vago quanto indiscutibile retrogusto razzista – nessun curriculum resiste, nessuna giustificazione è accolta.
«Mbappé ha radici africane ma si è formato in Europa. Se fosse nato in Camerun, non sarebbe diventato il giocatore che è oggi. C’è l’Europa e il resto del mondo, e il resto del mondo ha bisogno di aiuto, altrimenti perderemo troppi talenti».
Arsene Wenger
Ecco, per chi non avesse seguito, la frase incriminata. Una frase che ad esempio secondo Tuttosport “fa accapponare la pelle” e che “definire infelice sarebbe riduttivo”. “Una caduta di stile assolutamente imperdonabile“, per cui è “ovvio che ci si domandi quali insegnamenti possa dare Wenger ai giovani che non sono bianchi” (considerato che ha spesso lavorato con e per i giovani, ndr). Ma il sentiment è abbastanza comune, cavalcato da decine di giornali internazionali e alimentato dai sempreverdi social, e porterebbe a drastiche conseguenze: l’allontanamento – perché licenziamento non si può più dire, anche in questo siamo diventati corretti – di Wenger dalla FIFA. Neanche avesse fatto un elogio della teoria razziale di Gobineau.
Inutile stare qui a spiegare il senso della frase dell’ex allenatore dell’Arsenal, che anzi denunciava proprio il fatto che certe zone del mondo – a livello di strutture e risorse – fossero calcisticamente meno sviluppate. Con l’isteria dei risvegliati (e annoiati) il discernimento non vale. E così la dichiarazione di Wenger, invece di essere presa come l’ennesima ammissione di colpa di un Occidente predatorio che pensa solo a sviluppare se stesso anziché ad un equo sviluppo mondiale (questo era il senso), è stata accolta come un “aiutiamoli a casa loro” pronunciato dal borioso razzista di turno, colpevole di aver detto quello che tutti pensano e il buon senso impone: a livello di strutture per lo sviluppo del talento etc., “c’è l’Europa e il resto del mondo”.
E in questo resto del mondo, aggiungiamo noi, alcune zone (larghe parti dell’Africa) sono più indietro – ecco che tornano i tuoni della bufera calcisticamente corretta – di altre. Tutto ciò per noi inguaribili antiprogressisti, critici dell’irregimentazione delle scuole calcio e teorici del calcio di strada, naturale e gerarchico, è solo un bene (umanamente parlando); ma è evidente che Wenger, calcisticamente, sul punto abbia ragione.
Ad andare all’attacco è stata però anche la CONMEBOL (Confederazione Sudamericana, neanche fosse stata quella africana), che ha stigmatizzato le parole “molto infelici” di Arsene le quali, «oltre a rivelare un’insolita ignoranza del prezioso contributo dei giocatori africani al calcio mondiale, in particolare europeo, mostrano un pregiudizio denigratorio che rende invisibili gli sforzi dei calciatori e delle istituzioni sportive che non ‘sono in Europa’. I pregiudizi più riprovevoli si travestono da riflessioni ‘fondate’ e ‘intelligenti’. Il talento, lo spirito di sacrificio e la voglia di eccellere dei calciatori africani e sudamericani vanno apprezzati e rispettati».
Anche qui, in realtà si tratta solo di battaglie politiche travestite da morale a buon mercato. Nella stessa lettera la Confederazione Sudamericana si lamenta infatti di alcune riforme, come quella sulle cinque sostituzioni, approvate dalla FIFA “senza un processo di consultazione“, e di “pratiche escludenti che destano grande preoccupazione“. Una battaglia per il potere, come scrive anche il Corriere della Sera, che però viene fatta passare per una questione ideologica, di lotta al razzismo e ai pregiudizi. D’altronde ormai lo sappiamo: quando un solo cane si mette ad abbaiare a un’ombra, come recita un vecchio proverbio cinese, diecimila cani ne fanno una realtà. E pensare che, a quei tempi, ancora non c’erano i social! #wengerout