C’è un passaggio di Heart of Darkness (‘Cuore di Tenebra’, ndr), il romanzo con cui allo scoccare del Novecento Joseph Conrad racconta con pungente e dolceamaro spirito di denuncia i comportamenti delle potenze coloniali occidentali in Africa, che a oltre un secolo di distanza sembra ancora attuale. Per lo meno in uno squarcio di verde e terraced houses a sud ovest di Londra. A Wimbledon per l’esattezza.
«Incontrai un bianco vestito con tale eleganza che, in un primo momento, lo presi per una specie di visione. Vidi un colletto alto inamidato, polsini bianchi, una giacca estiva di alpaca, pantaloni candidi come la neve, una cravatta immacolata e stivali di vernice. Niente cappello. Capigliatura ben curata, con scriminatura e brillantina, sotto un parasole bordato di verde sostenuto da una grande mano bianca. Era sbalorditivo, e aveva un astuccio portapenne dietro l’orecchio».
Nelle righe che seguono, l’uomo che Marlow – il marinaio attraverso i cui occhi Conrad riporta la sua esperienza coloniale nel Congo Belga – incontra è descritto come un “prodigio” nella “trasandatezza generale del luogo”. Come da più classica lezione Levis-Straussiana, nelle vecchie colonie europee come a Wimbledon, il bianco non è infatti solo quello che connota le divise degli atleti. Eredità salvifica di un decoro d’antan che per un paio di settimane l’anno concede un poco della nobile grazia di Federer anche ai più mediterranei e caciaroni dei Nadal, Fognini e Kyrgios.
Il bianco, a Wimbledon, è soprattutto un simbolo, significante cromatico di un ancien regime sociale, più che sportivo.
Anzi, Wimbledon è il negativo bianco e occidentale di un romanzo di Conrad, una Heartof Brightness in cui teorie e paranoie del politicamente corretto faticano ancora a prender piede. Quasi come se da qualche parte, tra le strade di Hampstead e la campagna dell’Essex, si fosse stabilito di sacrificare Londra al caos della società contemporanea a costo di salvare l’indipendenza morale di Wimbledon in una Yalta di equilibri socio-culturali. Qui il Regno Unito celebra se stesso, senza ostentazioni e senza timore.
Nessuno direbbe che là fuori, oltre la siepe, nel paese reale c’è il mese del Pride. Ammesso che il paese reale sia quello, e non questo, dove l’Inghilterra Tory custodisce per tradizione, dietro il velo di perbenismo arcobaleno, il destino politico e finanziario della nazione.
Si lasci allora che i social media e i quotidiani distribuiti gratuitamente sui mezzi pubblici vengano trasportati in un turbinio di stronzate. Wimbledon rimane, forse più per inerzia che per scelta, atemporale. Lo dimostrano i tabelloni, rigorosamente analogici, degli incontri, con i loro addetti che alacremente sfilano e inseriscono tessere con nomi di tennisti e orari di gioco. C’è il programma cartaceo, da compilarsi a matita man mano che il torneo progredisce.
E, soprattutto, ci sono i giudici nelle loro uniformi Ralph Lauren, cardigan e coppola blu navy, pantaloni bianchi di quella sobria eleganza tutta Bostoniana rappresentata dall’eredità estetica Kennediana dei college Ivy League; più alta e limpida sintesi della tradizione sartoriale anglosassone e della sportiva informalità nordamericana. A dimostrazione che anche gli statunitensi possono avere gusto quando preservano la lezione stilistica continentale dei loro padri fondatori.
Ci sono poi i ball boys, i delfini dell’upper class che con i loro cappellini e borselli Polo ricordano i fratelli maggiori, matricole che in quei playground informali e lassivi della tarda adolescenza che sono le università britanniche scoprono i ‘90, i rave e le droghe sintetiche a spese della famiglia. Anzi, i loro movimenti meccanici e abiti sportivi ne fanno ricordare i gabber dell’età d’oro di Rotterdam. Ball boys che, d’altro canto, sono arianissimi. Gruppi di giovani biondi, alti e atletici come non si vedono da decenni fuori dal giardino Finizio Contino di Wimbledon, là nel paese reale dove i minorenni figli della diaspora caraibica, in assenza di campi in erba, si arrangiano come possono giocando con le lame sull’asfalto urbano.
A Wimbledon le memorie coloniali sono anche in cucina, dove l’eredità culinaria della Compagnia delle Indie si ritrova tra un curry indiano e una jerk salad giamaicana.
Così da fare del multiculturalismo virtù, quando il caldo di Luglio fa capolino sulla tradizione delle shepherd’s pie ustionanti e dei merluzzi in pastella mostrandone impietoso i limiti. Nessuna paura, ci sono le fragole. Le strawberries and creamche l’organizzazione tende a precisare– come eloquentemente dichiarato ai quotidiani nell’imminenza del torneo – si possono gustare alla cifra popolare di £2.50. Così facendo, una pinta di Pimm’s sopra le £9 non appare certo come una mossa speculativa, ma una legittima reiterazione del potere economico di quel l’Inghilterra che sussurra di recessione a bordo campo ma da cui, di fatto, non ne è scalfita.
Allora cicciotti rossicci in abiti da ufficio finto sartoriali (acquistati da Charles Tyrwhitt se va bene, da Moss Bros nel peggiore dei casi), sempre troppo attillati sulle cosce e sui i deretani suini dei monti Pennini alimentati a meal deal e patatine, fanno gli equilibristi sulle tribune con il loro vassoi da sei pinte di Pimm’s. Tra panem et circenses ci scappa anche un souvenir da acquistarsi in uno dei tanti tra megastore e negozi pop-up disseminati tra i campi. Come il delizioso blazer da giudice a poco più di £300, o un asciugamano che vale più del biglietto giornaliero.
Come al bar, anche per i biglietti resiste la grande civiltà della coda, esperienza che Wimbledon promuove da tempo immemore anziché offrire un tradizionale botteghino.
Una pratica sadica – di chi dall’alto del capitale sociale garantito dall’affiliazione al circolo guarda ai villici in pellegrinaggio – elevata a tradizione da quei geniacci britannici del marketing, tanto da persuaderne della bontà i sudditi. D’altronde si parla di un popolo tutto sommato semplice, che adora ascoltare la stessa manciata di hit dei Primal Scream da venticinque anni sguazzando nel fango di un campo del Somerset, allestire pic nic certosini come display dei Sylvanian senza lasciarsi scomporre dalla pioggia, o passare le domeniche in sale bingo che hanno sostituito per istituzionalità le abbazie anglicane.
Intanto, nei campi minori – quelli che vanno dal 4 al 18 – le fidanzate dei giocatori appunto minori fanno pratica nel sedere a bordo campo, sperando in un futuro radioso dei loro e ostentando con malcelata nonchalance un pass. Incitano i compagni con frasi fatte, solitamente mai più di due, alternate e cadenzate come uno scambio da fondo campo, molto probabilmente infastidendo l’allenatore, anche lui minore. Questi ne prende la distanza esteticamente, ridotto in minoranza con i suoi occhiali a mascherina da ciclista di mezz’età e il cappellino di uno sponsor con cui si spera di tenere la baracca a galla fino a fine stagione, tra le tute dalle velleità Kardashian e i vestiti di firme (anch’esse minori) delle fidanzate.
Per capire che a Wimbledon vigono ancora le regole delle colonie basterebbe guardare all’istituzionalizzazione del panama, copricapo che il galateo sconsiglia nella solitamente piovosa Londra ma, nonostante tutto, concesso alle Championships.
A ricordarci di Wimbledon come avamposto coloniale è, soprattutto, il tripudio di uniformi militari altrimenti scomparse dalla Londra civile e quotidiana. Membri dell’esercito, della Royal Air Force e della marina che formano un servizio d’ordine metodico e di un folklore istituzionale proprio del Trooping the Colour – altro baluardo dell’Inghilterra monarchica e nostalgica. Checché uno ne pensi della bontà della famiglia reale e delle sue truppe, non si può che riconoscere in queste figure e nelle loro uniformi – i pantaloni con gli orli impeccabili, le scarpe lucidissime – un’eleganza mai appartenuta ai nostri Carabinieri, Poliziotti e Finanzieri. Nemmeno quando indossavano la feluca per arrestare Pinocchio.
Come in uno di quei villaggi dell’East Sussex gentrificati dai londinesi stanchi di essere londinesi a casa propria, e dove al gastropub puoi trovarti un membro superstite dei Rolling Stones o dei Beatles, tra i prati di Wimbledon si possono fare incontri prodigiosi. Chi è disposto a spendere qualche sterlina in più ed è sufficientemente fortunato da reperire un biglietto giornaliero per il Centrale, può democraticamente trovare a sedersi nemmeno troppo distante dai vip che vi pascolano per le due settimane delle Championships (sarà forse questo il motivo dietro ai campi sempre più brulli con il progredire del torneo?!).
Ci sono Anna Wintour e il suo caschetto, entrambi mummificati; il Principe William genuinamente estasiato dall’eleganza asburgica di Sinner; e il sempre impeccabile David Beckham in abito cioccolato e la sua mai (o mal) celata indole latina a seguire un imbolsito Nadal.
A una certa verrebbe quasi da farsi strattonare da uno degli inservienti in abito nero e cappello stile autista, o da uno degli ottuagenari Honorary Stewards in cappello bianco con fascia viola-verde e gridare basta – per citare ancora una volta Conrad – con questa “lugubre buffonata”. Ma d’altro canto è giusto lasciarsi andare a Wimbledon e alla sua iconografia, perché qui per due settimane anche i più iconoclasti diventano strenui difensori della tradizione. Passi anche che dopo una giornata di candido silenzio, complici i livelli di alcool, all’ultima gara in programma parta una ola al Court N.1. Dopotutto, anche la tradizione deve fare piccole concessioni per tenersi al passo con i tempi.
All’élite inglese, infatti, non interessa più colonizzare a viso aperto. Il messaggio è stato recepito, la decolonizzazione è già entrata nei libri di storia, così come lo sarà Rihanna recentemente nominata eroe nazionale della neonata Repubblica delle Barbados, e il Principe William bonariamente assertivo a suonare i bonghi per i fotografi durante il tour dei Caraibi. L’upper class wimbledoniana ha capito che conviene arroccarsi stoicamente sull’ultimo baluardo identitario e crogiolarsi tra simili, con molta autoindulgenza e qualche cafonata ereditata dai tempi dei russi a Kensington. Al costo, addirittura, – eliminato Murray ai nastri di partenza – di erigere a salvatore della corona uno, come Norrie, che gioca con la catenina a penzoloni sulla maglietta, certo bianca ma pur sbracata, come l’ultimo dei Kyrgios.