Un manifesto di libertà (e inattualità) nel pallone.
Wolfram Eilenberger è ein cooler Typ – un tipo in gamba. Nasce nei primi anni Settanta, cresce nella Germania Ovest e si addottora in filosofia; di mestiere scrive romanzi di successo, si occupa di divulgazione filosofica e conduce programmi televisivi; per passione discetta di calcio sul settimanale Die Zeit, collabora come consulente con la Federcalcio tedesca e possiede il patentino federale da allenatore. Eilenberger è insomma un Umberto Galimberti che ama Redondo o – se preferite – un Mario Sconcerti che cita Cassirer. In Italia è noto grazie al libro Il tempo degli stregoni, che racconta le vite di quattro fra i maggiori filosofi del Novecento; meno famosa qui da noi è invece la sua passione per il pallone, a cui gioca assiduamente nelle file della nazionale tedesca scrittori.
Per non lasciare che questa tremenda mina di esterno sinistro passi inosservata in Italia e, soprattutto, per diffondere nella nostra lingua l’eccentrica concezione eilenbergeriana del calcio, il mezzo migliore è senza dubbio un’intervista a Eilenberger in persona. La chiacchierata non può avere altra destinazione editoriale che Contrasti, dato che l’intervistato condivide con i lettori della rivista la predilezione per un calcio arrembante, picaresco e ardito. Individualista e insieme romantico, liberale ma non liberal, Eilenberger vede infatti nel calcio la massima espressione dell’incontrollabilità e della contingenza che caratterizzano la vita di tutti.
Questo spirito di leggerezza ha però abbandonato il calcio moderno, che è giudicato da Eilenberger con occhio impietoso: in quanto dispositivo di sorveglianza totalitaria, per esempio, il VAR attira aspre critiche; anche i cosiddetti Laptoptrainer, gli allenatori nerd che si fidano più dei portatili che del campo, vengono sbeffeggiati per la loro velleità di contabilizzare il gioco; un altro obiettivo polemico è rappresentato dalla mania di controllo di Guardiola, a cui si attribuisce inoltre la responsabilità di aver ingentilito il calcio tramite l’esaltazione dell’organizzazione di squadra a scapito della forza fisica.
Di tutti questi temi – e anche della sua esperienza da calciatore e del suo amore per il Bayern, dell’uso esasperato dei dati nel calcio attuale e del paragone fra una partita di pallone e il teatro dell’assurdo, di tifo omoerotico e di calcio femminile, di sport come specchio della società e della omogeneizzazione degli stili di gioco, di Oliver Kahn e del Mondiale in Qatar, dei risvolti cognitivi del mancinismo e del nesso fra calcio e libertà – Eilenberger ha parlato amabilmente con me qualche settimana fa. All’appuntamento mi sono presentato con indosso una maglia del Bayern.
– Bella maglia! [ride]
Grazie! Prendila come un ringraziamento per aver accettato l’intervista.
È un piacere. Per la prossima ora e un quarto sono tuo.
Benissimo. Vorrei partire dalle tue esperienze biografiche legate al calcio. Il genere letterario in cui eccelli è – mi sento di dire – la biografia, e vorrei sondare la biografia del biografo: quando hai iniziato a giocare a pallone e perché?
Sì, domanda molto interessante. Credo che la risposta sia che nonmi ricordo assolutamente nulla del perché ho iniziato a giocare a pallone. I miei primissimi ricordi sono legati al calcio, la mia biografia fin dall’inizio è unita in modo indissolubile al calcio. Per me giocare a pallone è stato quasi naturale, per questo non ti so rispondere sul perché ho iniziato. Davanti alla casa in cui sono cresciuto c’era un grosso prato e ci ho passato tutta l’infanzia prendendo a calci un pallone: credo sia stata l’attività più naturale e allo stesso tempo più importante di tutta la mia infanzia.
Ti chiedo della tua infanzia anche perché in Italia è appena uscito un tuo libro sulle domande filosofiche che si pongono i bambini. Per te il calcio è un gioco innanzitutto infantile?
Il rapporto che da bambini si ha con il calcio secondo me è racchiuso in una bella parola tedesca – la parola “Vermögen” [traducibile con “capacità”, “potere” ma anche con “patrimonio”, “ricchezza”]. Il primo significato di “Vermögen” indica che si ha la capacità di fare qualcosa, e il calcio per me è sempre stato in questo senso una questione di capacità: quando da piccoli si riesce in una giocata si ha la sensazione di poter agire nel mondo e ci si percepisce come efficaci. Poi c’è una seconda accezione di “Vermögen”, che indica un tipo di capitale – anche reputazionale. Questo è molto importante per i bambini, perché si occupa una certa posizione sociale – uno standing – in base a quanto si è forti a calcio. E per me il calcio è stato anche un modo per posizionarmi socialmente dato che ero bravino.
In tedesco poi c’è ancora un terzo significato di “Vermögen”, che ha a che fare con “mögen” [traducibile con “desiderare”]: da piccolo avevo una passione fortissima per il calcio e lo amavo molto, perché prima ancora di tutto giocare a pallone è l’archetipo delle esperienze piacevoli. L’esperienza di giocare a calcio, alla quale sono personalmente molto grato, è infatti piena di gioia. Questo credo valga anche per gli adulti: per chi nella vita ha preso altre strade – anche strade che hanno a che fare con la speculazione filosofica – il calcio rimane un’esperienza nel senso migliore del termine spensierata.
Nel calcio infatti si perde il rapporto con se stessi mediato dalla riflessività e si fa esperienza di quello che Nietzsche chiama “atto puro”. Un noto giornalista sportivo mio amico ha detto una volta che il calcio è come un aspirapolvere mentale [Mentalstaubsauger], perché assorbe tutto ciò che ci circonda e ci lascia sprofondare nell’evento. Fra le altre cose il calcio ha portato nella mia infanzia questa capacità di concentrarsi grazie alla quale ci si impegna senza riserve in una sola cosa. Fino ai sedici anni la mia vita è stata completamente risucchiata dal bisogno di giocare – il calcio era senza dubbio la cosa più importante della mia esistenza.
Giocavi centrocampista, no?
Sì, mancino per di più. Dentro al campo mi sono scelto un ruolo abbastanza in vista: centrocampista mancino con la 10, numero che oggi non è più così importante ma che una volta era intriso di mitologia.
Eilenberger con la 10 della nazionale scrittori
Com’è essere mancini a calcio?
Se uno è mancino percepisce il gioco in modo differente dal 90% delle altre persone: vede spazi diversi, fa movimenti diversi, si comporta in maniera diversa. Credo che il mancinismo, che riguarda propriamente solo il 10 o il 12% della popolazione, sia a metà fra un’esperienza filosofica e una cosa buffa, perché insegna molto presto a guardare le cose in modo diverso da come gli altri le guardano e a fare le cose in modo diverso da come gli altri le fanno. Mi sembra che la mia inclinazione per la filosofia sia dipesa molto dal fatto che in quanto mancino ho sempre saputo che tutto sarebbe potuto funzionare in maniera radicalmente differente e che quindi la via che tutti seguivano non era necessariamente l’unica.
Anche in questo caso si potrebbe sostenere che c’è un motivo biografico alla base di una scelta anomala come quella di diventare filosofo: voi fate tutto con il piede destro e vedete il mondo in questa maniera, ma io gioco con il sinistro e lo vedo in quest’altra. Non so come siano connesse mancinismo e creatività – o anche altre capacità cognitive simili –, ma questa connessione passa sicuramente dal fatto che i mancini capiscono fin da subito che è possibile fare le cose in un altro modo rispetto a come le fanno tutti.
Ora sei il numero 10 della nazionale tedesca scrittori.
Sì, è vero. Ovviamente si tratta di una trovata balorda per continuare a giocare. Quasi tutti i miei compagni sono segnati come me dal mini-trauma di aver visto sfumare la loro illusione di diventare professionisti e così ci rifacciamo con la nazionale scrittori. E devo dire che, quando sentiamo l’inno prima delle partite con indosso le stesse divise della nazionale vera, a tutti in squadra sembra di star vivendo un sogno – naturalmente con la dovuta ironia. Vedo che soprattutto fra i calciatori è diffuso il pregiudizio per cui intellettuali e scrittori non saprebbero prendere a calci a un pallone, ma per quella che è la mia esperienza quest’idea è completamente falsa.
Molta gente che ha successo nel mondo della cultura ha giocato molto a calcio in gioventù, perché le capacità che si acquisiscono tramite lo sport poi sono utili nei più svariati ambiti della vita. E questo apprendistato sportivo mi sembra sia una nuova costante nelle biografie degli intellettuali: Adorno e Cassirer – o anche Benjamin – hanno avuto una formazione per lo più priva di sport. Allora vigeva un rapporto di mutua esclusione fra sport e cultura, ma penso che questo sia radicalmente cambiato negli anni Settanta. Sinceramente conosco molti miei colleghi che hanno fatto sport in gioventù – e nemmeno a livelli troppo bassi.
Quello che abbiamo detto fin qui riguardava il calcio giocato. Mentre per il calcio guardato sei un grande fan del Bayern Monaco – o almeno lo eri.
Sì sì [ride], come in ogni sana relazione si va a fasi alterne.
Il periodo di Guardiola forse ti ha fatto perdere un po’ di passione…
Nella biografia di Guardiola l’esperienza al Bayern è stata solo una piccola parentesi, ma tutto sommato gli è stata utile per dimostrare che i suoi concetti non funzionavano solo nel particolare contesto del Barcellona e che potevano essere implementati quasi con lo stesso successo anche in un altro milieu – un po’ come sta facendo adesso col Manchester City. Il Bayern ha permesso quindi a Guardiola di far vedere che lui era in grado di trascendere la cultura stessa da cui proveniva, ma Guardiola ha dato al Bayern meno di quanto abbia ricevuto:per noi l’esperienza di avere Guardiola in panchina è stata straniante, dato che prima del suo arrivo il Bayern non aveva mai basato la propria identità sugli allenatori. La forte tradizione culturale del club è da sempre legata ai dirigenti, in particolar modo a Uli Hoeneß.
L’arrivo di Guardiola ha rappresentato invece una rottura con l’identità della società e per la prima volta si è percepito che un singolo allenatore fosse più importante dell’intero Bayern. E questo non ha fatto bene al club. Perciò alla fine dei conti con Guardiola non è andato proprio tutto alla perfezione e non c’è mai stata una forte relazione d’amore. Ma al di là del Bayern a Guardiola va riconosciuta un’importanza storica enorme per aver introdotto un nuovo paradigma di gioco. Si può affermare con sicurezza che gli allenatori che hanno segnato indelebilmente la storia del calcio mondiale degli ultimi cinquant’anni non sono più di quattro o cinque – e Guardiola rientra fra questi.
Definirei così il requisito che un allenatore deve avere per essere annoverato in questa cerchia molto ristretta: bisogna aver mostrato un modo di giocare completamente diverso rispetto a quello in voga fino a quel momento. Credo che negli anni Ottanta e Novanta Arrigo Sacchi ci sia riuscito; andando più indietro nel tempo lo stesso si può dire dell’ucraino Valerij Lobanovs’kyj. Ci sono stati invece grandi allenatori, come per esempio Ottmar Hitzfeld o Alex Ferguson, che grazie al loro pragmatismo hanno avuto molto successo e che però non hanno mai instaurato una loro visione del calcio.
Come ha cambiato il calcio Guardiola?
Secondo me Guardiola ha stravolto le qualità di base che ogni calciatore di alto livello deve possedere. Tempo fa ho scritto un articolo che ha suscitato un certo scalpore sulla differenza fra una maniera maschile di giocare a calcio e una maniera femminile, sostenendo che Guardiola ha con ogni probabilità messo fine alla maniera maschile e l’ha resa insignificante. E nonostante tutte le polemiche rimango convinto di averci visto giusto. Anzi, nel frattempo questo superamento degli elementi maschili è evidentemente entrato a far parte della nostra cultura anche oltre il calcio. Quello che voglio dire è che Guardiola si è accorto prima di altri che certe qualità che avevano contraddistinto la nostra storia culturale fino a quel momento iniziavano a diventare antiquate – nel calcio come in moltissimi altri ambiti della vita.
E Guardiola ha reagito a questa crisi dei valori tradizionali proponendo un nuovo modo di giocare a calcio fondato su nuove qualità imprescindibili per i calciatori contemporanei: quello che ho etichettato in modo forse controverso come “femminilizzazione” [Feminisierung] è un processo che ormai da anni viene portato avanti nel calcio da Guardiola e che soltanto ultimamente ha iniziato a investire molti altri campi dello spirito. Non sono un grande fan della tesi per cui il calcio sarebbe uno specchio della nostra società. Mi sembra piuttosto che il calcio sia un sottosistema della società in cui certi aspetti della nostra cultura non vengono solo riflessi ma addirittura anticipati prima di venire applicati a tutti gli altri ambiti della vita. E questo è stato il caso di Guardiola.
Vedi una continuità tra Guardiola e Nagelsmann?
Per qualsiasi allenatore che viene dopo Guardiola è difficile porsi in assoluta discontinuità con lui, dato che il suo modello di gioco è un punto di riferimento assoluto per gli allenatori più brillanti della nuova generazione. I bravi non copiano mai – è vero – ma non c’è un grande allenatore – né Tuchel, né Nagelsmann, né nessun allenatore italiano – che sia immune all’influsso di Guardiola. Guardiola è la figura a cui tutti devono guardare se vogliono capire il gioco. Quindi direi che Nagelsmann si rifà a Guardiola in questo senso lato, ma fra gli allenatori tedeschi è senz’altro Tuchel quello che segue Guardiola più da vicino. Se c’è un guardiolista nel calcio tedesco è Tuchel, ancora più di Nagelsmann. Anche in Italia ci sono due o tre allenatori che si collocano direttamente sulla scia di Guardiola.
Sì, soprattutto in squadre non di prima fascia: penso al tuo concittadino Vincenzo Italiano [nato a Karlsruhe dove Eilenberger è cresciuto, ndr]… Poi certo, il rappresentante del bel gioco in Italia è diventato Mancini, che è quasi un corpo estraneo rispetto alla cultura calcistica italiana.
Sì, anche se mi sembra che la vera rivoluzione nella cultura calcistica italiana degli ultimi dieci anni sia stata portata da Gasperini. Ma vedendo l’Atalanta nelle ultime due stagioni ho la sensazione che si tratti di una visione ancora diversa rispetto a quella di Guardiola – una visione chiaramente riconoscibile e molto innovativa, che non ho ancora capito appieno. Ma quello che ha fatto l’Atalanta mi sembra comunque un piccolo miracolo [Mini-Ereignis], forse l’evento più interessante negli ultimi dieci anni di calcio italiano.
A proposito dell’influenza di Guardiola sul calcio tedesco e italiano, mi viene da chiederti: c’è stata una globalizzazione del calcio sul piano tattico? Le differenze tra le varie scuole calcistiche nazionali si sono attenuate?
Sì, la questione è anche se gli stili nazionali [Nationalstile] siano ancora riconoscibili. Per diverse ragioni credo si possa affermare che dalla seconda metà degli anni Novanta in poi sia in atto una sorta di ibridazione fra gli stili nazionali, che non sono più riconoscibili come in passato. Oggi chi dicesse che i tedeschi giocano come i tedeschi o gli italiani come gli italiani mostrerebbe di non capire nulla di calcio. Si tratta di etichette inutili – un residuo di folklore che non ha nulla a che vedere con il modo effettivo di giocare delle nazionali. Per indagare le cause principali di questo fenomeno bisogna risalire alla sentenza Bosman, che è stata sorprendentemente importante perché ha portato all’internazionalizzazione del calcio a livello europeo.
Da quel momento in poi, a causa di un mercato europeo più aperto, gli stili nazionali sono stati sempre meno rilevanti. Naturalmente poi la sentenza Bosman ha pure fatto sì che sempre più allenatori si siano spostati fra diversi campionati e questo ha comportato quasi ovunque un innalzamento del livello generale delle competenze. Per tutti questi motivi i diversi stili nazionali non sono più differenziati come un tempo.
È interessantissimo però notare una cosa: relativamente agli ultimi Europei femminili si potrebbe quasi dire che gli stili nazionali sono ancora curiosamente integri nel calcio femminile. Perché lì non c’è ancora stata l’ibridazione massiccia che ha conosciuto il calcio maschile. Il calcio femminile è l’unica forma di calcio che si può plausibilmente interpretare come legata alla nazionalità. E allora lì si può dire che le tedesche giocano in modo molto tedesco e le francesi in modo incredibilmente francese. Guardare il calcio delle nazionali femminili è un viaggio nel passato – un bel viaggio nel passato – perché si distinguono i vecchi stili nazionali in modo ancora relativamente chiaro. Ma per le grandi nazionali maschili di primo livello non è più questo il caso.
È assurdo dire che Mancini giochi alla classica maniera italiana, come sarebbe stato assurdo dire che la squadra di Löw abbia giocato alla maniera tedesca. Il calcio vive ovviamente di folklore e di tradizioni in cui si sono sedimentati molti luoghi comuni – e questo è anche giusto nella percezione popolare dello sport – ma negli ultimi venticinque anni la cultura degli addetti ai lavori è diventata molto più raffinata e analitica. Oggi nessuno che commenti il calcio per mestiere può attingere dal repertorio del folklore, che ha ormai perso aderenza con la realtà. È finita per sempre l’epoca classica dei grandi stili nazionali per come sono stati codificati dagli anni Trenta fino agli anni Ottanta e Novanta – ed è un’epoca che si può rimpiangere, perché nel processo di omologazione multiculturale i contrasti [Kontrasten] vanno un po’ persi.
A proposito dell’analisi tecnica degli addetti ai lavori, mi sembra che le caratteristiche di questo calcio globalizzato siano la visione scientista del gioco, la crescente quantificazione dei dati e la diffusione di quelli che in Germania vengono chiamati Laptoptrainer.
In generale si può intendere la quantificazione come una logica matematica volta a ridurre il più possibile l’aleatorietà dei risultati che si vogliono conseguire. Se parliamo di un processo di quantificazione nello sport, lo possiamo chiamare in modo non troppo inverosimile un processo di “americanizzazione”, dal momento che la quantificazione negli sport americani è praticata da moltissimo tempo e in maniera ancora più estesa che da noi.
E infatti il modello di riferimento del calcio europeo sta diventando sempre di più la NBA.
Esatto. La cultura statunitense ha esercitato la propria influenza anche riguardo i modi di esaminare analiticamente lo sport. Soprattutto al baseball e al basket sono stati applicati approcci fortemente quantitativi la cui logica è stata importata nel calcio – o almeno è stato fatto il tentativo di importarla. Negli ultimi quindici anniabbiamo vissuto nell’illusione di poter quantificare il calcio, e molti allenatori hanno creduto di poter dominare il gioco in maniera puramente scientifica. Ma la mia impressione è che questa moda stia tramontando: l’illusione totale dei big data, che coinvolge anche la nostra società oltre al calcio, non ha più l’appeal che aveva solo dieci anni fa, quando si credeva di poter realmente possedere il gioco quantitativamente.
Questo fascino per la quantificazione ha portato a delle sonore batoste ed è stato ridimensionato, per cui ora allenatori come Nagelsmann, Tuchel o Mancini guardano i loro dati ma non cedono all’illusione di ricavarne autenticamente un pieno controllo sul gioco. E su questo punto credo che la cultura calcistica abbia fatto qualcosa di molto prezioso per stemperare la generale illusione quantitativa della società. Questa almeno è l’interpretazione che mi piace perché calcisticamente sono un po’ un romantico, ma credo sia anche oggettivo che l’euforia dei dati è un po’ passata di moda e sta vivendo una fase calante. Secondo me rimane infatti vero che il calcio è una delle ultime isole romantiche a sfuggire alla quantificazione totale. È ancora così e forse lo sarà per sempre.
Molto banalmente credo che questo dipenda dal fatto che a pallone si giochi con i piedi e non con le mani: la capacità di controllare la palla con i piedi è molto inferiore a quella che si può avere con le mani, motivo per cui l’elemento della contingenza ha un presenza molto più sostanziale nel calcio rispetto ad altri sport. Credo che ancora oggi più del 60% dei gol siano generati da azioni che era più probabile non portassero a segnare. La contingenza nel calcio si potrebbe intendere semplicemente come casualità ma io preferisco parlare di indisponibilità [Unverfügbarkeit], nel senso che accadono certe cose che si sottraggono alla nostra disponibilità e al nostro controllo e che non possono essere previste o influenzate da noi. L’indisponibilità nel calcio è sempre estremamente forte.
Ecco mi sembra che la coppia di concetti chiave del tuo discorso sia quella di indisponibilità-disponibilità [Unverfügbarkeit-Verfügbarkeit]. In altri tuoi interventi fai un uso molto interessante di queste parole: una volta citi “l’esperienza liberatoria della indisponibilità e della casualità piena di grazia”; mentre in un altro articolo dici che secondo i Laptoptrainer “tutti i meravigliosi dati sono a loro disposizione”.
La parola tedesca “Verfügung”[disponibilità] ha dentro di sé il termine “Fuge”[giuntura], che indica il serramento di una fessura che può essere chiusa e che quando viene completamente giunta [gefügt] satura lo spazio vuoto. L’indisponibilità [Unverfügbarkeit] del calcio si dà al contrario nelle aperture e nei vuoti, che devono essere preservati con cura. Per spiegare l’importanza degli spazi vuoti si può anche ricorrere alla metafora della rete, che è tanto più resistente quanto più larghe sono le sue maglie. Riempire il vuoto è un errore clamoroso. E credo che il calcio insegni ogni giorno a milioni di persone in tutto il mondo una lezione fondamentale: ciò che è non è chiuso, ciò che si sottrae alla nostra disponibilità è vitale. L’epoca in cui viviamo si illude invece di poter eliminare la contingenza e di poter rimuovere l’indisponibilità dal calcio stesso e dalla società in generale – anche se nel calcio questo processo è purtroppo più evidente.
La crociata contro la contingenza si evince facilmente da alcuni esempi: si costruiscono stadi coperti in cui non possa piovere per annullare l’indisponibilità del meteo; grazie al VAR si è creduto di poter debellare l’imprevedibilità delle decisioni dei guardalinee; è sempre più comune giocare su campi sintetici che riducono al minimo le irregolarità del terreno. È chiaro che il calcio nel suo complesso sia stato influenzato dall’ossessione di annientare la contingenza, ma questa ossessione coinvolge l’intera società. In medicina per esempio si è ormai diffuso lo screening dei feti per portare nella nostra disponibilità una forma eminente di contingenza quale è la genetica; mi viene in mente anche che Angelina Jolie si è sottoposta a mastectomia preventiva perché sapeva di avere una predisposizione genetica a contrarre il cancro al seno. Sia il calcio sia la medicina tendono all’ideale della controllabilità totale delle nostre vite.
Eilenberger sembra aver letto parola per parola gli editoriali contrastiani; più probabilmente è il contrario; ancora più probabilmente, è l’indisponibilità che ci ha folgorato entrambi a distanza.
E tutto questo ha ovviamente dei lati positivi, ma non bisogna sottovalutare quelli negativi: la ragione per cui il calcio è così amato risiede secondo me in massima parte nel fatto che è un gioco in cui l’indisponibilità delle nostre esistenze e la fragilità dell’essere umano vengono messe in scena in modo particolarmente intenso; ma molte cose che vengono ora annunciate come un’ottimizzazione del calcio – tipo il VAR – sminuiscono l’esperienza stessa del calcio. Credo che il VAR sia un perfetto esempio per illustrare l’ambivalenza di queste tecniche di controllo per la nostra vita.
Credo che questo tuo discorso abbia un risvolto politico: la difesa della contingenza dalla controllabilità si può facilmente declinare sul piano politico come difesa della libertà dal potere. La stessa parola tedesca per dire “incontrollabilità” [Unbeherrschbarkeit] ha una connotazione politica [è un termine costruito come negazione di “beherrschen”, che significa “governare” o “dominare”]. Mi sembra che la tua lotta contro il VAR, la quantificazione e così via si porti dietro una visione liberale della politica.
Sì, è sicuramente così ed è una bella osservazione. Direi che hai colto esattamente lo spirito del mio impegno pubblicistico, che ruota sempre intorno al calcio ma non si limita mai solo al calcio. Parlare di calcio significa parlare di tutto, perché il calcio è – ancora più che uno specchio della società – un sintomo molto acuto delle malattie che minacciano il nostro possibile futuro. E fra i pericoli a cui stiamo andando incontro c’è sicuramente la diminuzione delle libertà a favore della sicurezza. Si può dire che l’indisponibilità [Unverfügbarkeit] sia un concetto gnoseologico o forse ontologico e che l’incontrollabilità [Unbeherrschbarkeit] sia la sua applicazione politico-sociale. Bisogna stare molto attenti a passare dall’ontologia alla politica – lo sappiamo almeno dai tempi di Heidegger che è una manovra delicata [ride]. Ma si può senz’altro affermare – se devo trovare uno slogan adatto a un’intervista – cheil VAR esprime una tendenza al totalitarismo. Questa è la logica che sta dietro al VAR.
Invece per me è importante poter vedere il calcio come il gioco par excellence della libertà [Offenheit]. Questa è una descrizione idealizzata e non priva di soggettivismo, ma rimane vero che storicamente il calcio è nato e si è sviluppato in un periodo di forte espansione delle libertà individuali e della vita metropolitana. Nel grande processo di civilizzazione cominciato nella seconda metà dell’Ottocento il calcio ha rappresentato – soprattutto nelle grandi città – un’esperienza di libertà che ha coltivato le virtù della modernità in modo eccellente. Naturalmente mi interessa quel periodo storico perché sento che ne siamo eredi sia dal punto di vista politico sia da quello estetico. Quelli che secondo Baudelaire sono i tratti estetici tipici della modernità, ovvero l’effimero e il contingente, sono inscenati in maniera particolarmente seducente nel calcio.
Se amo qualcosa del calcio è appunto questa capacità di incarnare in modo particolarmente bello le virtù legate alla contingenza, che sono sempre virtù legate anche all’individualità perché l’individualità è costitutivamente in rapporto con l’indisponibilità. In più, per come è strutturato, il calcio è un gioco aperto a quasi tutte le forme di corporeità, dal metro e cinquanta ai due metri e dieci: il calcio trova posto per ogni corpo. È un gioco incredibilmente inclusivo, non solo perché i requisiti per iniziare a praticarlo sono minimi – basta un pallone e due felpe per terra – ma anche per la varietà di corpi che possono accedervi. Non è un gioco così standardizzato. Poi è interessante che – come noto – i sistemi totalitari passati e presenti di tutto il mondo non sono forti a calcio: Cina, Nord Corea…
Stati Uniti verrebbe da aggiungere.
[ride] Gli Stati Uniti combattono la contingenza in altri modi – lì il problema è culturale. Ovviamente nella storia della filosofia pallonara – da Camus fino a Jorge Valdano – c’è tutto un discorso in cui credo fermamente sul fatto che il calcio espresso dalle culture liberali sia migliore. E questo perché – come dici tu – l’elemento contingente del calcio si traduce politicamente in incontrollabilità [Unbeherrschbarkeit]. A proposito della natura politica del calcio ora dico una cosa che ha un po’ a che fare con la mia forma mentis accademica: il calcio – dalle sue origini fino ai giorni nostri – porta dentro di sé la rivoluzione carnevalesca. Nel calcio è molto più probabile rispetto al basket, all’hockey o all’handball che una squadra molto inferiore possa vincere. Perciò nel calcio c’è una specie di promessa protorivoluzionaria che si rinnova a ogni partita.
Questo ha a che fare con il Vermögen [potere] di cui abbiamo parlato all’inizio: il calcio è una questione di potere.
Sì sì, e un Vermögen [potere] è anche sempre un Unvermögen [impotenza]. Questa ambivalenza fra capacità e incapacità è inscritta nella fibra più essenziale del calcio. Anzi, credo che nel calcio si abbia tanto più Vermögen inteso come potere quanto meno si cede all’illusione di poter governare [beherrschen] il gioco. Certi tipi di allenatore non capiscono che provare ad avere il controllo su tutto è controproducente perché limita le possibilità di espressione dei calciatori: sono sempre stato dell’idea che Guardiola per esempio combatta contro la contingenza e si lasci guidare dall’illusione del controllo.
Non voglio essere irrispettoso nei confronti di Guardiola, ma non si può non riconoscere che fatica molto quando si trova davanti ad avversari che giocano in maniera opposta alla sua – tipo Klopp. Klopp è stato a lungo un teorico dell’intensità come strumento per portare il gioco a un punto di rottura in cui nessuno può più governare la partita: guardando le squadre di Klopp si ha l’impressione che il gioco fluisca da sé e che questa libertà totale possa far vincere le partite. Negli ultimi cinque anni le cose sono cambiate e la contrapposizione fra Guardiola e Klopp non regge più tanto, ma al tempo degli scontri fra Bayern e Borussia si vedeva da un lato lo sforzo di eliminare la contingenza [Dekontingenzierung-Ideal] e dall’altro la ricerca fantasiosa della contingenza [Kontingenz-Phantasie].
Nel corso dell’intervista è tornato più volte il tema dell’illusione: prima l’illusione di diventare calciatori professionisti, poi l’illusione di quantificare il calcio, ora l’illusione di controllare il gioco. Come se fosse impossibile parlare di calcio senza parlare di illusioni e fantasia.
Il calcio è del resto una specie di teatro: la forma degli stadi deriva da quella dei teatri, le partite durano un’ora e mezza più intervallo come la maggior parte degli spettacoli, in tedesco addirittura per dire “giocatore” o “attore” si usa la stessa parola [Spieler]. In Italia poi abbiamo avuto un attore geniale come Carmelo Bene che, oltre a essere un grande amante del pallone, ripeteva spesso che un certo tipo di calcio e un certo tipo di teatro erano la stessa cosa. Calcio e teatro non sono entrambi illusioni, fughe dalla realtà?
Assolutamente, è pazzesco quante cose ci sarebbero da dire a proposito. Se si vuole vedere il calcio come una forma di teatro – cosa che può certamente essere fatta e per cui ci sono molti appigli –, penso però che si debbano anzitutto fare dei distinguo. Credo infatti che l’elemento teatrale sia più importante nella cultura calcistica cattolico-latina che in quella nordico-protestante. In Italia o in Spagna l’elemento teatrale del calcio è in un certo qual modo chiaramente riconoscibile in quanto esposto sulla scena; Pippo Inzaghi per esempio è senza dubbio un attore straordinario, in lui l’elemento teatrale è direttamente visibile. Nel calcio tedesco invece, dove l’elemento teatrale è percepito negativamente come una forma di recita, non è assolutamente un complimento quando qualcuno dice “questo è un attore!”; per la mentalità tedesca il teatro non ha nulla a che fare con il calcio o comunque l’elemento teatrale non è la componente principale del gioco.
Piuttosto, quello che mi interessa dell’interpretazione del calcio come forma di teatro è il paragone fra le partite di calcio e un genere teatrale particolare – il teatro dell’assurdo. Il calcio non è una commedia dell’arte [in italiano] dato che non ha una trama molto strutturata. Bisogna ammettere infatti che in una partita molto spesso non succede niente. Non si sottolinea mai abbastanza quanto il calcio sia in larga parte uno sport privo di eventi; l’evento come evento calcistico è estremamente raro. Nei giorni scorsi ero con un amico a una partita della Serie A finlandese – FC Lahti contro Seinajoki – e ho potuto constatare per l’ennesima volta lo choc che colpisce la maggior parte delle persone abituate a guardare il calcio solo in TV: una partita dal vivo può essere incredibilmente noiosa. L’esperienza del calcio è un’esperienza della pura negatività e del fallimento: in una partita capita molto spesso che i giocatori non raggiungano ciò che vogliono. Il calcio è un gioco [Spiel] che mette in scena il fallimento e in questo senso non è altro che la messinscena dell’assenza di eventi [Ereignislosigkeit].
Questa mi sembra l’essenza del calcio come esperienza teatrale: se pallone e teatro sono assimilabili, il calcio è molto più simile a Beckett piuttosto che ad altre forme teatrali. Andare allo stadio permette di vedere uno spettacolo teatrale in cui ventidue persone tentano di creare un evento che non si concretizza mai e in cui giocatori/attori [Spieler] tendenzialmente molto capaci [vermögenden] si mettono alla berlina per la loro incapacità [Unvermögen]. Per questo motivo secondo me il calcio è una raffinatissima messinscena dell’essere costantemente sopraffatti, perché la soluzione che dev’essere trovata poi nei fatti non si trova mai. Anche questo è un modo di vedere il calcio come una specie di teatro, ma è probabilmente diverso da quello a cui pensavi tu perché è per così dire un teatro negativo. L’uomo nel calcio è molto più vulnerabile e passivo che potente [vermögend].
Se per il tuo libro avessi dovuto scegliere quattro stregoni non della storia della filosofia ma della storia del calcio, chi sarebbero stati?
Sarebbe facile per me fare quattro grandi nomi che possono venire in mente a tutti. Per rendere la cosa più interessante però menzionerei quattro calciatori che sono stati molto importanti per me, ma che forse sono un po’ sottovalutati in generale. In vita mia il giocatore che ha incarnato ciò che trovo di più bello nel calcio è stato sicuramente Fernando Redondo, che poi a un certo punto è passato con grande sfortuna pure dal Milan: se ricordo bene è stato il trasferimento più costoso nella storia del Milan fino a quel momento e si è rotto il crociato al primo allenamento. Purtroppo a causa degli infortuni non ha mai giocato per davvero nel Milan. Ma Redondo ha comunque fondato una nuova interpretazione del centrocampo e ha rappresentato un nuovo prototipo di calciatore – alto un metro e ottantacinque, capace di giocare box-to-box, abile nel fraseggio e non solo a lanciare lungo, di grande intelligenza tattica.
E poi – cosa molto importante – era un uomo straordinariamente bello. Dopo vorrei approfondire la questione dell’erotismo del calcio, ma su Redondo aggiungerei ancora che secondo me era era il pendant di Zidane: giocavano entrambi a centrocampo, appartenevano alla stessa generazione, ma Redondo a differenza di Zidane era uno stregone di magia bianca [stille Zauberer]. Redondo non era infatti un giocatore ostentatamente spettacolare ma era uno stregone raffinato e intelligente, che ha incarnato alla perfezione quella che Hemingway chiama “grace under pressure”: aveva una postura del corpo estremamente controllata anche in mezzo al caos, teneva sempre la testa alta… Per me Redondo è stato veramente un’icona di stile.
No, sono un giocatore indemoniato, molto diverso. Ma il proprio stile di gioco non conta nulla quando si parla di calcio giocato da altri. Sarebbe molto sciocco far dipendere le proprie opinioni dai propri piedi. No no, non sono mai stato un giocatore che mi sarebbe piaciuto guardare. Un altro giocatore invece che per la mia idea di calcio è stato molto importante è sicuramente Mehmet Scholl, non solamente perché è stato un giocatore del Bayern ma anche perché viene dalla mia stessa città – Karlsruhe – e abbiamo giocato insieme. Solo quando ti confronti con compagni di squadra o avversari del genere puoi capire quello che ti manca per essere un giocatore veramente forte: ci sono differenze molto visibili in termini di facilità di movimenti – Mehmet da questo punto di vista era meraviglioso. Credo che lui abbia incarnato uno stile improntato alla grazia e alla leggerezza che nel calcio tedesco non si era mai visto prima.
In più è stato uno dei primi giocatori di origine turca – e anche questo era una novità per un giocatore tedesco di alto livello. In quel momento il calcio in Germania ha iniziato a svilupparsi molto aprendosi a giocatori dal background multiculturale – cosa che prima non era successa per molto tempo. Redondo e Scholl sono di sicuro due giocatori che io trovo veramente magnifici. Per ragioni sentimentali direi che anche Oliver Kahnè stato un grandissimo giocatore, perché ha rappresentato un modo molto tedescodi intendere lo sport. In questo senso Kahn è il pendant di Boris Becker, per quanto riguarda la regolarità e la metodicità che contraddistingue gli sportivi tedeschi. È stato sicuramente uno dei portieri più forti del calcio moderno.
E se penso ai grandi giocatori italiani mi viene senz’altro in mente Andrea Pirlo, che ha impersonato in una maniera “redondesca” l’intelligenza, l’eleganza e l’impertinenza – virtù ammirabili. Redondo, Scholl, Kahn e Pirlo sono quattro giocatori che tracciano il perimetro di ciò che trovo magnifico nel calcio. Può saltare all’occhio che non ho menzionato nessun attaccante: ovviamente ci sono anche attaccanti magnifici, ma in verità a me interessano molto di più i centrocampisti. Il centrocampo è il luogo dove il calcio diventa filosofia, e credo che se si vuole capire come funziona il calcio si deve capire come funziona il centrocampo.
Ecco forse Kahn no, però anche Pirlo è un bell’uomo…
Assolutamente! Credo che i tifosi – soprattutto uomini – dovrebbero parlare molto più apertamente degli aspetti erotici del calcio. Sarebbe molto sciocco negare che anche gli uomini guardano ai giocatori con un interesse erotico. E la forza di questa attrazione per i calciatori credo sia il motivo principale per cui nel calcio il tema dell’omosessualità è così difficile da affrontare, perché questo erotismo è così plateale che può essere rimossosolo in misura altrettanto plateale. Il fatto che nel calcio il riconoscimento dell’omosessualità sia ancora così difficile – spero che questo non sia un pensiero troppo contorto [zu ausgedachtes Gedanke] – dipende dal fatto che l’attrazione sessuale è così plateale.
Ora probabilmente non più, ma il calcio è stato per decenni uno dei mezzi più importanti di costruzione dell’identità maschile.
Pensiamo ai calciatori veramente iconici – sono figure quasi androgine. Franz Beckenbauer era anche un ballerino e aveva molti tratti femminili nel suo gioco. Si potrebbe dire la stessa cosa di Redondo o di Pirlo. Pelé stesso aveva un fisico da ballerino. I calciatori veramente forti hanno sempre degli elementi importati dalla danza e presentano sempre caratteristiche codificate come femminili. Anche su David Beckham per esempio è molto evidente. Ci sono moltissime figure iconiche del calcio che noi percepiamo come figure massimamente androgine. E questa è una caratteristica essenziale del calcio che lo rende quello che è.
Quindi però alla fine aveva ragione Guardiola.
Lo direi pure io. Guardiola ha portato alla luce aspetti del gioco che prima erano latenti e li ha estremizzati. E questo lo rende un allenatore veramente straordinario. Ovviamente ciò non sarebbe stato possibile senza giocatori come Iniesta che hanno sviluppato qualità tecniche molto particolari: un allenatore non costruisce mai uno stile di gioco dal nulla ma lavora sempre con il materiale di partenza che si ritrova.
Ultima domanda: come vedi i Mondiali in Qatar?
Allora, non sono uno di quelli che dicono che non guarderanno nemmeno una partita o che boicotteranno tutta la manifestazione. Penso che nel dibattito sull’opportunità o meno di assegnare i Mondiali al Qatar si debbano distinguere almeno due livelli: c’è un piano etico e poi c’è un piano di cultura calcistica. Per quanto riguarda il piano etico, in questo momento è in corso una strumentalizzazione a fini politici delle morti degli operai e delle violazioni dei diritti umani – fatti sicuramente da denunciare, ma che non riguardano solo il Qatar. Abbiamo sentito poche o addirittura pochissime lamentele quando il mondiale è stato in Russia. Anche per il Brasile non abbiamo sentito proteste – non so se qualcuno si sia mai preoccupato di quanti operai sono morti nei cantieri brasiliani.
In Sudafrica lo stesso… Credo che il piano valoriale sia politicizzato e che la situazione reale del Qatar venga raccontata in modo distorto. La vera catastrofe è piuttosto quella calcistico-culturale: non si può dare il Mondiale a un Paese che non solo è assolutamente inadatto dal punto di vista climatico, ma che è pure del tutto privo di tradizione calcistica. Questa assegnazione è assolutamente miope, perché affida il Mondiale a un Paese in cui la passione per il gioco non esiste. Il problema fondamentale è che la scelta del Qatar non è basata su nessun motivo intrinsecamente calcistico. Questo per me è il vero crimine e il grande scandalo, nella misura in cui semplicemente inficia il piacere del Mondiale, che ne risentirà molto. Credo si debba essere molto vigiliaffinché una cosa del genere non accada più. Ma se la domanda è se guarderò le partite, temo di sì:ne guarderò parecchie e probabilmente con grande trasporto. Ora però prima di chiudere mi devi chiedere quali sono le mie favorite! [ride].
Sì sì, parliamone.
Come ogni edizione per me parte favorita l’Italia [ride fragorosamente].
… Per fortuna mia sono mezzo argentino da parte di padre, quindi ho una squadra per cui tifare.
L’Argentina è in una buona condizione? Diresti che hanno una chance?
Secondo me è impossibile che vinca l’Argentina perché la pressione su Messi è troppo forte e Messi non ha il carattere da lìder politico di Maradona.
Credi che l’Argentina senza Messi sarebbe più forte? Ormai uno potrebbe pensarlo.
Non credo sarebbe più forte ma credo sarebbe più vincente. Messi non è l’unico a subire una pressione incalcolabile, anche i suoi compagni si sentono costretti a vincere qualcosa per lui: quando l’Argentina ha vinto la Copa América la prima reazione dei compagni è stata correre verso Messi e abbracciarlo, ancora prima di festeggiare per loro stessi. E questo è un problema.
Secondo me sarebbe interessante un articolo in cui si sostiene con questi argomenti che l’Argentina senza Messi sarebbe migliore. Credo che il tema possa interessare anche dal punto di vista giornalistico, dato che è qualcosa di cui non parla quasi nessuno. In linea di principio sono d’accordo – si dovrebbe dire che l’Argentina senza Messi ha più chances di vittoria.
Se trovi un giornale tedesco interessato, fammi sapere che io scrivo.
Ah, ma si può provare anche in Italia! Non sarebbe male [ride]. Ci possiamo pensare. Per ora però stammi bene, ma soprattutto rimani un tifoso del Bayern.