Il più importante evento della WWE si è svolto in un'atmosfera grottesca.
Con l’arrivo del Coronavirus Covid-19 sul territorio statunitense, NBA, NHL, MLS e tutte le altre leghe sportive professionistiche si sono fermate, così come era successo appena qualche giorno prima in Europa. Anche se non si tratta di una vera disciplina sportiva – ma più propriamente di “sport entertainment”, agonismo e intrattenimento allo stesso tempo – il wrestling è rimasto da solo a continuare a occupare i palinsesti televisivi, pur con spettacoli privi di pubblico.
Se infatti le principali federazioni di wrestling di altri Paesi come Giappone e Messico si sono fermate del tutto, le due promotion attualmente più rilevanti degli Stati Uniti – WWE e AEW – hanno continuato a mandare in onda i loro spettacoli settimanali, adattandosi alle nuove normative che impediscono grandi raduni di persone. Da una parte ci sono partner televisivi da accontentare (soprattutto in un periodo in cui c’è la pressoché assenza di contenuti live), dall’altra la pandemia è arrivata proprio in quello che per la WWE – la federazione di wrestling più nota al mondo – è il momento clou dell’anno, la “WrestleMania season”.
L’edizione del 2019 aveva ospitato più di 82.000 persone per un incasso di quasi 17 milioni di dollari, a cui si sono aggiunti i ricavi televisivi e pubblicitari e quelli della vendita di merchandising.
WrestleMania è da tempo considerata il SuperBowl del wrestling: non solo combattimenti, ma anche intrattenimento a tutto tondo, con concerti, partecipazioni di star e tanta grandeur all’americana a fare da cornice. Solo per fare un esempio, l’edizione del 2019, la trentacinquesima, tenutasi presso il MetLife Stadium di East Rutherford, in New Jersey, aveva ospitato più di 82.000 persone, per un incasso di quasi 17 milioni di dollari, a cui si sono aggiunti i ricavi televisivi e pubblicitari e quelli della vendita di merchandising.
Un mega-evento solitamente contornato da altri show secondari della federazione, oltre che dall’annuale cerimonia di introduzione delle leggende nella Hall of Fame, e intorno al quale negli ultimi anni si sono radunate le altre federazioni, che organizzano spettacoli nella stessa zona di WrestleMania per catturare gli spettatori che già si trovano lì (spesso provenienti anche dall’estero).
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Pur priva dell’incasso derivante dalla vendita dei biglietti, la WWE aveva dunque bisogno di preservare i restanti ricavi. La soluzione è stata quella di pre-registrare l’evento presso il Performance Center – una struttura di proprietà della federazione, utilizzata per la formazione dei nuovi wrestler – e di mandarlo in onda divisoper la prima volta in due serate, sabato 4 e domenica 5, in modo da aumentare gli introiti della vendita dell’evento in pay-per-view e alzare le entrate delle pubblicità.
In realtà era già da un paio di settimane che la WWE aveva iniziato a trasmettere i propri show senza la presenza del pubblico, organizzati con spirito di improvvisazione. Questi sono stati utili per correggere in corsa tutto il possibile, soprattutto a livello di scelte di scenografia e registiche. Se gli show settimanali avevano però lanciato qualche segnale preoccupante, WrestleMania 36 è stata la classica pistola fumante: il wrestling senza pubblico non funziona. O, meglio, perde una parte essenziale del suo essere entertainment, scivolando a tratti nel surreale.
The Undertaker contro AJ Styles è stato girato in location esterne, scriptato quasi per intero e fortemente editato in post-produzione, con l’aggiunta di una colonna sonora, a dare l’idea di una produzione simil-cinematografica.
La strada scelta dalla WWE per ovviare alla mancanza del pubblico nel corso dello show è stata quella di riempire gli spazi con le scenografie, eliminando del tutto i posti a sedere vuoti, restringere il più possibile le inquadrature sul ring e i lottatori e invitare i commentatori a gridare il più possibile, lasciando meno momenti di silenzio possibile.
Nonostante questi accorgimenti, i match più riusciti della card sono stati i tre che si sono svolti lontano dal ring o che meno hanno dato l’idea di una presa diretta: The Undertaker contro AJ Styles, John Cena contro Bray Wyatt e Edge contro Randy Orton. Il primo di questi tre addirittura è stato girato in location esterne, scriptato quasi per intero e fortemente editato in post-produzione, con l’aggiunta di una colonna sonora, a dare l’idea di una produzione simil-cinematografica.
Più entertainment che sport
Il secondo si è avvicinato più a una puntata della psichedelica serie televisiva Legion che a un match di wrestling, con un susseguirsi di sequenze fantastiche che hanno seguito una trama e al contempo reso omaggio ad alcuni pezzi di storia del wrestling. Il terzo ha addirittura invaso l’intera struttura del Performance Center nella sua interezza – palestra, sala riunioni, magazzino e garage compresi – senza mai più rivedere il ring dopo il gong iniziale.
Questi tre match potrebbero non essere stati quelli che hanno mostrato le sequenze di lotta più spettacolari né sono stati i più appassionanti nello svolgimento della trama, ma di sicuro sono stati quelli confezionati in modo più interessante e originale. E si tratta di match – tra i più importanti della card, insieme agli incontri per i titoli mondiali – che la WWE non avrebbe potuto permettersi in una situazione normale, con un’arena piena di persone paganti. Non a caso, nella storia della federazione, di episodi simili se ne sono verificati di rado, perlopiù allocati negli show settimanali.
L’assenza di pubblico si è notata anche nei volti spaesati dei lottatori, le cui mimiche facciali e le pose ricorrenti, in mancanza di un responso, sono finite per diventare grottesche coreografie ripetute a memoria per pura abitudine.
Il wrestling, dopotutto, vive di interazioni con il pubblico, e quest’ultimo è necessario per riempire i vuoti, sottolineare i momenti migliori e peggiori attraverso cori di incoraggiamento o di disapprovazione e fornire una fondamentale colonna sonora fluida e imprevedibile, che si tratti di uno show all’interno di uno stadio da 90.000 posti o di uno spettacolo indipendente davanti a poche decine di persone. Senza questo contorno, i rumori del ring, dalle urla di dolore ai pochi dialoghi recitati, hanno invece finito per accentuare il silenzio circostante.
L’assenza di pubblico si è notata anche nei volti spaesati dei lottatori, le cui mimiche facciali e le pose ricorrenti, in mancanza di un responso, sono finite per diventare grottesche coreografie ripetute a memoria per pura abitudine, mentre gli sguardi cercavano invano una zona di confort intorno al ring. Tutto questo è stato reso ancora più evidente all’interno del recinto della WWE, in cui le capacità di recitazione e la bravura nell’interfacciarsi con il pubblico hanno spesso la prevalenza sul lottato tout court. Lo stile di lotta della federazione è segnato dalla continua ricerca di una reazione, tanto da essere spesso impostato su alcuni standard classici.
Per esempio, in molti match capita che il buono della situazione sia inizialmente sopraffatto da un nemico più forte di lui, provi a reagire ma venga rispedito al tappeto e, quando proprio sembra non riuscire a venirne a capo, trovi la forza dentro di lui per mettere a segno poche mosse ben assestate – o addirittura una sola – e vincere. Il paradigma di questo tipo di match lo misero in scena già Hulk Hogan e André the Giant, nel 1987, nel corso di WrestleMania 3, quando, dopo aver subito per tutto il match, il primo riuscì a sollevare e sbattere per terra il secondo – 224 cm di altezza e 236 chilogrammi di peso, secondo i dati ufficiosi – davanti a 93.000 spettatori esultanti.
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O ancora, negli incontri di coppia, l’andamento è quasi sempre lo stesso: dopo qualche fase di studio, i cattivi isolano uno dei due buoni e per diversi minuti lo vessano a turno, quasi come se si trattasse di un handicap match, finché il buono non riesce quasi miracolosamente a reagire, trovando il cambio – in gergo definito “hot tag” – con il compagno di squadra e sovvertendo almeno momentaneamente la situazione. Si tratta di situazioni che puntano a suscitare l’entusiasmo del pubblico, e che senza questo punto esclamativo non suscitano lo stesso effetto.
A WrestleMania 36, le vittorie “impossibili” di Braun Strowman e Drew McIntyre, capaci di sconfiggere rivali all’apparenza imbattibili come Goldberg e Brock Lesnar e conquistare per la prima volta in carriera le cinture principali della federazione – rispettivamente lo Universal Championship e il WWE Championship – sono infatti cadute letteralmente nel silenzio.
“Il pro wrestling nei palazzetti vuoti è lo spettacolo più strambo sulla Terra”,
aveva titolato qualche giorno fa la rivista americana Vulture, un articolo che descriveva la situazione attuale. La realtà è che l’assenza di pubblico ha contribuito a eliminare il velo sottile che separava la realtà dalla finzione, regalandoci un tipo di wrestling diverso, più vicino al teatro che allo sport. A proposito di uno scontro verbale tra John Cena e Bray Wyatt nel corso di una puntata di Friday Night SmackDown, la giornalista dell’Huffington Post Elyse Wanshel aveva affermato che
«senza un pubblico entusiasta da cui trarre energia, il confronto è venuto fuori come un’opera di Shakespeare vagamente surreale».
Per quanto tempo la WWE – e in parallelo la AEW – potranno andare avanti in questa situazione è incerto, anche perché future normative potrebbero impedire persino la registrazione di show a porte chiuse, considerando che, in uno sport di contatto, il social distancing di cui tanto si parla è impossibile. Finché si potrà, probabilmente si andrà avanti, perché nessuno vorrà rimetterci dei soldi.
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