Nel celebre “Cento vedute del monte Fuji”, pubblicato nel 1834, il pittore giapponese Hokusai, raggiunti ormai i 75 anni d’età, decise di ripercorrere le tappe più importanti della propria produzione artistica. Una rilettura che sfociò in un’amara constatazione: “Tra quel che ho raffigurato in questi settant’anni non c’è nulla degno di considerazione”. Maya Yoshida, difensore originario del Sol Levante, attuale capitano della Selezione nazionale, sembra, per certi versi, aver costruito la propria carriera su questa perentoria massima di Tokitarō – nome d’infanzia dell’artista giapponese.
L’eterno senso d’insoddisfazione ed inquietudine che accompagna l’uomo, stimola i più ambiziosi e coraggiosi a scendere in campo in una continua sfida contro sé stessi, lontano dalla propria zona di comfort, cercando di superare i propri limiti ed ispirare, magari, le future generazioni. Le parole di Maya Yoshida, che ha rilasciato in esclusiva un’intervista ricca di interessanti spunti di riflessione, sembrano confermare questa percezione.
Vorrei partire dai tuoi primi passi all’interno del mondo dello sport. Come, un ragazzo nato e cresciuto a Nagasaki, si avvicina al calcio?
Il calcio è sempre stata la mia passione fin da piccolo. La mia generazione è quella di Capitan Tsubasa – Holly e Benji, nella versione italiana -, facevamo a gara a chi si prendeva la maglia numero 10. Quando, nel 2002, il Giappone ha ospitato il Mondiale, insieme alla Corea del Sud, l’interesse intorno a questo sport è cresciuto tantissimo. È stato un momento fondamentale per lo sviluppo del movimento nel mio Paese. Per quanto mi riguarda, è stato tutto molto semplice: non ho fatto altro che seguire quello che mi diceva il cuore.
Che rapporto hai con la città e la gente di Genova?
Genova è splendida, sono stato accolto benissimo. Ho quasi sempre vissuto in città portuali, a partire proprio da Nagasaki. Anche Southampton – dove Yoshida ha giocato tra il 2012 ed il 2020, ndr – lo è. Qui mi trovo bene, è una città soleggiata e rilassata. Mi piace quando le persone mi riconoscono per strada: sono sempre molto cordiali.
Kazuyoshi Miura, Hidetoshi Nakata, Keisuke Honda, Yuto Nagatomo, sono solo alcuni dei grandi calciatori giapponesi che hanno avuto, prima di te, la fortuna di giocare in Serie A. Sono stati loro ad ispirare la tua carriera lontano dalla J-League?
Tutti ottimi giocatori, appartenenti però a generazioni diverse. Ho giocato un’infinità di partite con Nagatomo: è un amico. Anche con Honda siamo stati compagni di squadra, è sempre stato un ragazzo ambizioso e pieno di talento. Nakata era l’idolo da seguire, mentre Miura è un campione senza tempo. Ancora adesso ha la voglia e la forza di scendere in campo a più di 50 anni: una carriera incredibile. Lo ammiro molto e lo incontro spesso quando torno in Giappone: abbiamo un ottimo rapporto.
Come si spiega la scarsa considerazione, da parte delle principali società europee (a parte rare eccezioni), nei confronti del movimento calcistico asiatico?
Penso ci sia un po’ di ritrosia culturale nell’accettare la crescita del calcio in Asia, il fatto che una Selezione dell’AFC (Asian Foootball Confederation) non abbia mai raggiunto una finale Mondiale contribuisce, nonostante il livello si sia indiscutibilmente alzato. Oggi sono moltissimi i giocatori giapponesi che giocano in Europa. Anche difensori. Quando ho deciso di andare in Olanda, sentivo molta diffidenza intorno a me: ero il primo difensore giapponese a tentare questo salto. Ma ora è diverso, basti pensare alla storia di Takehiro Tomiyasu – parte integrante dell’Arsenal di Mikel Arteta – che è uno dei migliori talenti della nuova generazione.
Che cosa manca al movimento calcistico giapponese per il definitivo salto di qualità?
Dipende che cosa si intende per “movimento calcistico”. Il campionato giapponese non è comparabile con i migliori tornei europei, come la Serie A o la Premier League, ma questa generazione è molto più pronta ed attrezzata delle precedenti. Oggi i giovani arrivano prima alla maturità e con un bagaglio tecnico e di esperienze più ricco. Giocare all’estero aiuta a crescere. Non è un caso che il Giappone si sia qualificato alle semifinali nelle Olimpiadi di Tokyo. È stato un onore per me indossare la fascia da capitano durante i Giochi, proprio nel mio Paese, guidando tanti calciatori giovanissimi e vogliosi di fare bene.
A dicembre avrai l’onore di giocare il tuo terzo Mondiale con la maglia della celebre nazionale giapponese. La selezione di Moriyasu è una delle più interessanti del panorama calcistico asiatico. Quali sono le vostre ambizioni?
Difficile darsi un obiettivo che non sia ottenere il massimo. Sarà un Mondiale strano: si giocherà in inverno, proprio a metà stagione, giocheremo in stadi al chiuso. È qualcosa senza precedenti nella storia del calcio, posso dire che faremo tutto ciò che è nelle nostre forze per arrivare fino in fondo.
Lontano dal campo di gioco/allenamento, che ruolo occupa il calcio nella tua vita?
Il calcio gioca, ancora oggi, un ruolo importante. Ho quasi 34 anni e tanta voglia di giocare ancora ai massimi livelli, il mio compito qui non è ancora finito. La prospettiva di giocare un altro Mondiale mi rende felice ed elettrizzato. Ma al primo posto nella mia vita c’è ovviamente la famiglia. So di avere al mio fianco delle persone speciali.
ringraziamo Maya Yoshida e la Unione Calcio Sampdoria per l’intervista