50 anni fa moriva un uomo che ha segnato il Novecento.
C’è una immagine che più di tutte racconta Yukio Mishima. Il segreto impenetrabile della vita di ogni uomo, al di là del personaggio, della maschera che si confessa, è a volte nella stessa rappresentazione che egli fa di se stesso. Così come l’intimità di Balzac riduce gli uomini a ombre, le relazioni a ombre di ombre, così c’è una fotografia scattata da Kinshin Shinoyama, nel 1966, dove Mishima si è fatto ritrarre come il San Sebastiano di Guido Reni, la stessa opera su cui il protagonista delle Confessioni ebbe la sua prima eiaculazione.
Nel 1966 siamo già entrati negli ultimi anni della vita dello scrittore, è già un uomo determinato a morire; ma come tutti gli esseri avidi di vita, l’inclinazione per la morte esisteva in lui già da tempo. Forse, come l’universo in Agostino, la morte non nacque in Mishima nel tempo ma insieme al tempo, come la vite già consapevole che i graspi migliori saranno presto strappati via. Il tempo, del resto, la sua nostalgia, proprio come in Proust e André Salmon, cullano le pagine più malinconiche delle Confessioni, capolavoro di angoscia e anomia di una generazione cresciuta dopo la guerra.
Il tempo, che accompagna vent’anni di una vita che cerca di essere normale agli occhi di una società, quella moderna, che alla vergogna del peccato ha sostituito la vergogna sociale senza alcun guadagno, diceva la Yourcenar, per la libertà personale.
Il tempo di una relazione incerta e sospesa, quella con l’amica di infanzia, sposata ad un altro, nei loro incontri dettati dalla volontà insondabile del caso, nei caffè, per la strada, due vite che si sfiorano senza mai toccarsi. La morte, in fondo, è stata una delle sue opere, l’Ouverture al Mare della Fertilità, l’ultimo fiocco di neve, quella neve di cui anche il suo nome era una eco, a coprire con il suo manto morbido un vasto magma di emozioni.
Nella fotografia di Shinoyama, che tanto contribuì a destare quello scalpore che dietro ad una vacua morale, o moralina, per dirla con Nietzsche, nascondeva in realtà la curiosità per il morboso, riposa uno dei pochi Mishima senza maschera. O forse, quello con tutte le sue maschere. Mishima è stato il più occidentalizzato dei nazionalisti giapponesi, epitome di un popolo che sa assorbire l’altro senza rifiutarsi. Leggeva i classici, prediligendo Racine.
Al ritorno da un viaggio in Grecia, come un Byron senza guerra ma anche senza delusioni, iniziò a studiare il greco antico, volle abbeverarsi alla fonte più pura e La Voce delle Onde, con il suo equilibrio e la sua prosa quasi in metrica, è un piccolo gioiello di qualità classiche. Ma le antichità, soprattutto il loro versante pagano, si completavano nelle letture di Swinburne, Wilde, D’Annunzio, Thomas Mann (I Buddenbrook, la successione delle generazioni unite dal sangue e dalla mediocrità degli uomini, ogni tanto sospira tra le pagine di Cavalli in fuga), Cocteau, Radiguet, di cui la precoce fine nel fulgore della gioventù certamente lo affascinarono.
D’Annunzio e Cocteau, per merito o per denigrazione, sono i nomi più spesso associati a questo giapponese così occidentale, che alle conferenze si presentava vestito come un amministratore delegato perché così voleva il Giappone colto e borghese dell’industrialismo galoppante. Cocteau, che è la versione stregonesca di Mishima, o forse Mishima è la versione visionaria di Cocteau, gli somigliava per versatilità. D’Annunzio per la bellezza della poesia, entrambi nell’organizzazione della propria pubblicità. Lo stile barocco di alcune opere del Vate esiste certamente anche in Mishima; così come l’attenzione alla disciplina che se in D’Annunzio si riversa come un fiume nell’azione politica, in Mishima passa prima attraverso la forgia del corpo, che è forgia dello spirito, e solo a quel punto spinta all’avventura politica (a Fiume il primo, alla morte il secondo).
L’erotismo poi, che se in D’Annunzio diventa anche dongiovannismo, in Mishima è visione, è congiunzione tra disciplina e virtù, tra forza e debolezza, tra Roma e paganesimo, è l’insieme del chiaroscuro che il neoclassico vuole in scultura. In alcuni personaggi di Mishima, maschili, così come in alcuni suoi accoliti, vi è un che dell’Antinoo di Adriano. L’amore, la famiglia, i figli, a cui pensa passando in macchina davanti alla loro scuola prima di morire, la moglie, di cui dirà che “Yoko non ha fantasia”, sono altra cosa, importanti, ma altrove.
La fattura europea dei suoi lavori domina a lungo. Fino all’età dei quarant’anni, quindi appena un anno prima della foto del San Sebastiano, Mishima maturò in sé la storia del Giappone moderno. Quest’uomo nato nel 1925, che la guerra disse non averlo neppure sfiorato, fu lo specchio di quel Giappone trasfigurato, dall’eroismo dei campi di battaglia alla passiva acquiescenza dell’occupazione, le cui energie spirituali furono convertite, insieme alla natura divina dell’Imperatore, a servizio di una nuova forma di imperialismo, più subdola e per questo altrettanto nociva: quella dell’occidentalizzazione ad oltranza e dello sviluppo economico come fine e non più come mezzo.
La Yourcenar ricorda le fotografie di Mishima al suo matrimonio, in smoking, intento a tagliare la torta nuziale in una grande sala dell’Intercontinental House di Tokyo, laico e desacralizzato santuario dell’americanismo imperante, del consumismo cieco. Queste suggestioni ricordano, pur nel linguaggio povero del cinema di consumo, ma nella bellezza della fotografia, alcune scene del film di Ridley Scott, Black Rain. Nel Giappone degli anni ’80, più di un decennio dopo la morte di Mishima, un vecchio capomafia della Yakuza, Sugai, ricorda a Michael Douglas che il giovane, avido e spietato Sato è il frutto maligno dell’incesto con l’americanismo, dell’occidentalizzazione priva di regole.
“Avevo solo dieci anni quando i B-29 arrivarono sopra di noi. La mia famiglia visse per tre giorni sotto terra. E quando venimmo fuori la città non esisteva più. Il grande calore portò la pioggia. Una pioggia nera. Voi rendeste nera la pioggia. Poi ci cacciaste a forza in gola i vostri valori. E noi perdemmo la nostra identità. Voi avete creato Sato e migliaia di uomini come lui”.
I primi quarant’anni della vita di Mishima furono come il quadro di Dorian Gray nascosto in soffitta. Ma le ossessioni, le passioni, quel senso di incompiuto dell’adolescenza che dopo il successo del primo romanzo lo spinse alla rottura con quel futuro impiegatizio da burocrate che il padre voleva per lui (mediocre famiglia di pedagoghi e burocrati la sua, con un nonno governatore dimissionario per uno scandalo di corruzione. Ricorda forse quei personaggi piccoli e mediocri di Cavalli in fuga?), scavarono come un fiume carsico nei labirinti della sua psiche.
Quel contatto con il Giappone antico, dovuto ad un rapporto stretto, quasi morboso, carnale, con la nonna anziana, una donna malata e neurotica, pronipote di un daimyo ma sposata ad un funzionario di rango inferiore, ribolle nelle vene come lava bollente. Quest’ava inquietante, come quelle figure di certi romanzi di Victor Hugo, inquietanti e patetiche, relegava il nipotino nelle sue stanze, nelle sue fantasie ormai appassite di un Giappone che già non esisteva più, costringendolo a vestirsi da bambina e ad assistere tanto ai rituali del No quanto alla crudezza melodrammatica del Kabuki.
Il bambino vive la mitologia delle antichità giapponesi con gli occhi di questa fata un po’ folle, di cui assiste alle crisi nervose ed impara a curarne le piaghe, vivendo quella dimensione tra l’onirico e il visionario che caratterizza tutte le nobiltà decadute, lontanissimo da quell’esistenza borghese che vivrà la generazione successiva. La nonna non è un ceppo rustico di una nuova aristocrazia in ascesa privata del sangue e del sacro, non è il personaggio commovente di Neve di primavera che rifiuta la pensione che lo Stato le assegna per i figli morti in guerra perché essi
“hanno fatto solo il loro dovere”.
La fragilità di Mishima si risolve nel contatto con quell’anima elegiaca e quella carne malata, nella consapevolezza di essere stato amato e di potere amare, ricambiato. C’è del trauma psicologico in questa follia, in un questo amore deviante nutrito da una donna anziana che lentamente si decompone (l’allegoria, la sineddoche al Giappone antico è evidente, quasi scoperta). Ma le cicatrici psicologiche di Mishima ci interessano meno della potenza immaginativa e creatrice che l’infanzia ha generato in lui. Questo quadro di follia famigliare fa da prolessi alla sua ultima opera, quella di morte, e lo lega ad altri autori come Hugo, Balzac e Proust.
Ma quel fiume limaccioso, quel mare che si agitava sotto le onde di una esistenza borghese inquieta, genera in Mishima il dubbio dell’ignavia. Ignavia di personaggi come Yuicho di Colori Proibiti, le cui ambientazioni hanno il sapore della vita dello scrittore. Negli ambienti omosessuali del dopoguerra, dove l’occupazione è rappresentata solo da qualche soldato in cerca di piacere nei quartieri neri di una Tokyo tentacolare, si muovono personaggi che avrebbero potuto vivere perfettamente nel New Jersey.
I bar, il karaoke, le feste quasi blasfeme, tra fiumi di whisky e intrallazzi, dove la differenza tra Yokohama e New York sembra non esistere più. Tanto che oltre all’ignavia vien da chiedersi, come il protagonista di Padiglione d’oro, il novizio che brucia il tempio buddhista (ispirato, come tutta l’opera di Mishima, alla cronaca):
“Ero io che lo possedevo, oppure ne ero posseduto?”.
Tema possente quello della possessione, in un paese in cui il buddhismo riconosce nell’attaccamento la prima causa della sofferenza, ma del resto anche la creatività e lo spirito si posseggono o li si vorrebbe possedere. Intorno al 1965, la consapevolezza divenne risveglio e il risveglio divenne disgusto. Nel Giappone legato all’antico nemico da trattati ineguali, un uomo di parte, che mai lo era stato, nacque. Parlare di fascismo, a questo punto, è inevitabile. Ma è inevitabile per confermare che l’accostamento è errato, un insulto povero di cultura: il fascismo è fenomeno occidentale, mediterraneo, il fascista è ad un tempo un reduce ferito nell’animo o un membro della borghesia che teme l’onda bolscevica e si allea con la grande proprietà terriera, laddove esiste ancora, e l’industria.
Nazionalismo e imperialismo vengono dopo, sono un corollario per trascinare le folle, sostenere l’industria, sorreggere il consenso, dare scopo ad una rivoluzione che vuole l’uomo nuovo nel suo spazio predestinato. Non prendiamo neanche in considerazione l’accostamento al nazismo, lugubre fenomeno di marca strettamente germanica, con le sue ossessioni di sangue che al conflitto di classe sostituisce il conflitto di razza, perché sebbene esistano suggestioni tedesche nel Giappone militarista, esse non presentano quei caratteri di esoterico e pagano tipiche del nazionalsocialismo hitleriano.
I moventi di quest’uomo di parte che ha scoperto di esserlo come se tutta la sua vita fosse stata un lento liberarsi dello spirito dalla materia, come nella Pietà Rondanini del neoplatonico Michelangelo, vanno ricercati altrove. La guerra che non lo sfiora, la sconfitta che non percepisce, le stragi e i suicidi di massa dei soldati, Hiroshima e Nagasaki, i bombardamenti su Tokyo, tutti piccoli traumi che l’intelligenza e l’immaginazione feconda di un adolescente rimuovono ma non riassorbono.
Tra il 1945 e il 1965 la voce di Mishima oltrepassò gli acri di silenzio che spesso è la vita in un mondo moderno ridotto a macerie spirituali. Il primo scritto politico è dello stesso anno del San Sebastiano: Le voci degli eroi è una durissima denuncia alla morte inutile dei kamikaze, divenuta tale dopo la rinuncia alla natura divina dell’Imperatore.
“Ardimentosi soldati sono morti perché un Dio ha ordinato loro di combattere. […] Perché l’imperatore è diventato uomo?”.
L’accusa, che scandalizza sia a destra sia a sinistra, è coeva ad un linguaggio più aspro, combattivo ma dolente, che denuncia il Giappone “dal ventre pieno” e afferma che “il piacere stesso ha perduto ogni sapore” e che, traditi gli antichi ideali nipponici, “l’innocenza è venduta in piazza”. Per Mishima, esasperato dall’ignavia del suo tempo, le lettere dei giovani piloti-suicida diventano voci prima flebili poi via via tonanti, infine gride disperate o, come avrebbe detto Montherlant, “voci di un altro mondo”. A questo punto, la rilettura politica di Cavalli in fuga e del personaggio di Isao è possibile, tanto che Mishima è consapevole del fatto che progetti terroristici come quello raccontato nel suo romanzo, in quegli anni, nascono anche a sinistra.
Durante un dibattito pubblico con studenti comunisti all’Università di Tokyo, un confronto duro ma garbato e civile come solo l’ottusità europea non sa concepire, Mishima realizza di avere in comune con quei ragazzi tante ispirazioni, dal rigore ideologico all’inclinazione per la violenza. Ciò che manca loro, dice Mishima, è però l’Imperatore. Ma cos’è l’Imperatore per lo scrittore risvegliato alla lotta politica? Possiamo tagliare corto: è l’Imperatore dei Samurai che nel 1877 si ribellarono in suo nome. “Il volto di Sua Maestà è visibile nel sole che tramonta”, commenta Isao. Questo lealismo è di destra per la fedeltà al monarca ma di sinistra per l’impegno in favore dei contadini, l’Imperatore è il Dio in terra che protegge gli ultimi.
È negli stessi anni che Mishima, nel pieno di quello che chiama il Fiume dell’Azione, fonda la Società dello Scudo o Tatenokai. Un centinaio di uomini, devoti alle idee dello scrittore, ormai uomo di azione, inquadrati secondo una logica paramilitare. Nello spirito questa associazione dovrà essere lo “Scudo dell’Imperatore”.
È ormai il Mishima che si dedica al culturismo, che piega il corpo alla più ferrea disciplina della mente, che cerca di scolpire su di sé quella sensualità pagana che le immagini classiche gli hanno sempre suscitato. Le urla dei kendoka che spaventavano Honda e Kioyaki sono un ricordo lontano, il volto chiuso nella gabbia del Men, il sudore che imperla il tenugui, sono metafora dello spirito avviluppato dalla materia e il colpo vibrato con la shinai l’Azione, il Gesto che libera. Prigionieri fino all’attimo prima di colpire, sospesi in una dimensione dove il tempo è eterno nella sua brevità, coscienti solo che a se stessi. Ichi-geki hissatsu. Un colpo, un morto. È la traduzione letterale ma superficiale per una lingua così polisemica.
Preferiamo allora la sua declinazione più profonda, quella dell’attimo nell’istante. Mishima coglie nel Budo, nell’arte marziale, quel linguaggio poetico con cui ha tessuto tutta la trama scarlatta della sua vita: il corpo, questo sudario che avvolge uno spirito che ruggisce contro le macerie del tempio che i mercanti hanno occupato, diventa marmo caldo, levigato, la tensione dei muscoli è l’aspetto visuale della morale guerriera dello spirito; la spada, che nel combattimento del Kendo è strumento di liberazione dell’energia, nella pratica dello Iaido diventa ricerca della perfezione in un mondo imperfetto.
Come il bocciolo di ciliegio in fiore, come l’ultimo respiro di due amanti che si uniscono durante il coito, come una danza sotto un cielo trapuntato di stelle, come la lama di corallo che gli dei immersero nell’Oceano e dalle cui gocce nacquero le isole del Giappone. Un vecchio scritto di Yagyu Munenori parlava della “spada che dà la vita”. Yukio Mishima trasmette ai suoi accoliti lo stesso ardore, la stessa ricerca di quell’energia spirituale che vede assopita nel suo stesso popolo, ubriaco di un mondo che non gli appartiene.
Osserviamo quest’uomo che grazie alla disciplina sportiva, come un guerriero omerico durante la marcia verso Troia, erige il proprio corpo a tempio del suo spirito, mentre cresce in lui la determinazione a completare la sua opera di scrittore con un ultimo poema. Questo cantore straordinario, quest’anima così candida, si aggira tra le macerie fumanti di un mondo che non riconosce più, che gli è estraneo, e nel suo inno alla vita matura la decisione di morire per essa. Lo Scudo è un esercito quiescente, sull’attenti, ma per ordine espresso del suo capo lontano da manifestazioni, proclami, comizi, scontri di piazza.
“Siamo il più piccolo esercito del mondo e, spiritualmente, il più grande”.
Non è imperialismo nel senso più infimo dell’espressione, più propriamente un nazionalismo spirituale, sentimentale, a tratti intellettuale. Esiste senza dubbio una continuità tra metodi e suggestioni. Il terrorismo è in quegli anni strumento di morte di numerosi gruppi, di destra e di sinistra, in Europa. Le organizzazioni paramilitari non possono non rievocare fenomeni simili anche nell’Italia degli anni ’70; Mishima muore alla fine di novembre e pochi giorni dopo il Principe Junio Valerio Borghese tenterà il suo colpo di Stato la notte dell’Immacolata.
Mishima è entrato a far parte di questo mondo di suggestioni talvolta in modo assai poco coerente. Un destino condiviso con altri come lui, D’Annunzio appunto, ma anche J.R.R. Tolkien ed Ezra Pound, abusati a destra e a sinistra. Il nazionalista giapponese, l’estrema destra, il culto del corpo e della disciplina marziale, la spada, l’onore, l’antiamericanismo (che in Mishima c’è ma non è semplice rifiuto culturale o politico, è morale, quella morale che si lega allo Spirito e non al Politico in senso schmittiano), diventano l’ennesima maschera di quel San Sebastiano al martirio.
Quei giovani missini che correvano a petto nudo con una fascia rossa nelle gelide mattine dell’inverno romano per temprarsi, tra loro anche Marcello Veneziani, che proprio dello scrittore giapponese parla come del “nostro Pasolini” (e il paragone non è casuale) cantore struggente di un mondo in macerie come nella poesia di Yeats, contribuirono a uccidere Mishima in un nome. Cioè nel destino che tocca a tutti i grandi.
Gli ultimi lavori e gli ultimi anni, quelli tra il 1965 e il 1970, furono una grande prova generale della sua ultima opera, quella più duratura. In Patriottismo il seppuku è messo in scena con una verosimiglianza tale da ricordare che tra il vero e il verosimile alle volte non c’è che una nebbia sottile, e la perfezione dell’arte riflette l’essenziale e la sua impenetrabilità alla nostra mente limitata. Come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, in cui Giuda corre verso la sua fine, così gli ultimi istanti di Yukio Mishima, il Fiume dell’Azione, non sono che energia.
Nell’ultimo atto della sua vita entrò anche Morita, giovane ventenne, provinciale educato in un collegio cattolico, Antinoo nipponico infiammato dalla stessa passione del suo maestro e per questo suo devoto allievo e sincero amico. Il fatto che siano morti insieme ha fatto pensare a quei suicidi di coppia tanto famosi anche in Giappone, ma sarebbe una forzatura inutile; i sei anni trascorsi a pianificare la sua morte rituale, il discorso tenuto all’esercito dal balcone, la lettera di addio, non si spiegano solo nella logica di una messa in scena a due, per quanto simile al teatro potesse essere.
Per Mishima l’amore era diventato impossibile in un mondo privo di fede; per lui l’amore era la base di un triangolo al cui vertice stava l’Imperatore. Sostituiamo a Imperatore la parola Dio e avremo allora quella trascendenza necessaria all’amore affinché esso sia fecondo. L’ingenuo lealismo di Morita era senza dubbio la cosa più vicina che Mishima potesse immaginare all’amore in un mondo che ne era ormai privo.
“È possibile che vi accontentiate di vivere accettando un mondo in cui lo spirito è morto?”
Questo l’urlo verso i soldati dal balcone del Ministero della Difesa, il volto e l’espressione contratta dallo sforzo nelle espressioni dei demagoghi e dei tribuni, quelle che imbruttiscono la persona come la politica alle volte sa imbruttir l’animo. In Mishima non vi è guarigione né salvezza alcuna per i sogni, se non il loro lento riassorbimento nel trapasso dall’adolescenza all’età adulta. Il 25 novembre seguì pedissequamente la sua routine di scrittore, inviò il manoscritto del Mare della fertilità al suo editore, pranzò con i genitori e la madre si accorse che “era stanco”, quella stanchezza che solo chi ha scalato la montagna più alta dei propri turbamenti possiede, poi si fece una doccia e i gesti quotidiani assunsero la solennità della fine.
Sopra un paio di mutande di cotone bianco, dopo una perfetta rasatura, indossò la divisa del Tatenokai e prima di uscire dallo studio lasciò il suo biglietto di addio. È finalmente il Mishima del San Sebastiano, il corpo muscoloso, la pelle levigata, l’erotismo del corpo e dello spirito che assommano in sé il senso pagano del piacere e quello cristiano del martirio, martirio che nel Guido Reni è pero estasi.
Gli ultimi istanti della sua vita potrebbero essere descritti nel dettaglio, inclusi quelli più macabri, e rituali, del kaishakunin Furo-Koga. Ma non possediamo quella sensibilità morale, di spirito, per osservare la scena con il dovuto rispetto, come il generale che dopo la decapitazione si inchina mormorando l’antica preghiera buddhista per i morti. Rimangono le parole dello scrittore:
“Se rivivo con il pensiero i miei ultimi venticinque anni, il loro vuoto mi riempie di orrore. Posso appena dire di aver vissuto”.
Avidità per la vita di un uomo così prepotentemente vivo da volersi ritirare da essa, avidità per la vita tipica di quelle vite eccezionali che dal Vuoto di questa realtà impermanente guardano a ciò che fecero e a ciò che non fecero con lo stesso sguardo del miraggio. Ma tra l’infinità delle cose che furono, e che sono, Mishima fu e certamente è.
La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre.