Ritratti
01 Aprile 2020

Alberto Zaccheroni, l'arte di essere se stessi

Compie oggi 67 anni un allenatore poco mediatico ma molto umano.

Se in radio ci fosse una trasmissione dedicata ai compleanni degli sportivi, oggi, 1° aprile, il nome di Alberto Zaccheroni verrebbe probabilmente letto tra gli ultimi della lista. Certamente dopo quello di Arrigo Sacchi e Clarence Seedorf, probabilmente dietro anche a Cristian Galano e Antonino Barillà, e forse a ridosso di Matt Conroy, attaccante neozelandese classe 2001, punta di diamante – si fa per dire – del Waitakere United.

Perché Zaccheroni non è mai stato un personaggio da prima pagina: colpa, o probabilmente merito, della sua pacatezza, del suo non voler essere protagonista a tutti i costi. Lui che alle luci della ribalta ha sempre preferito la tranquillità della famiglia. Lui che, in cima ai passatempi preferiti, posiziona la vita da bagnante, tra lettini e ombrelloni, al Maré di Cesenatico per stare vicino al figlio Luca, il gestore dello stabilimento.

Nato a Meldola 67 anni fa, il tecnico che ha plasmato in Italia il primo 3-4-3 moderno di successo, è partito dall’entroterra cesenate per conquistare territori lontani, come quelli illuminati dal Sol Levante.

Grandi pagine di calcio portano il suo nome: alcune note ai più, come lo scudetto del centenario rossonero e la Coppa d’Asia del 2011 vinta alla guida del Giappone. Altre meno reclamizzate, ma non meno complicate, come la tripla promozione consecutiva dall’Interregionale alla C1 (come lui solo Bepi Pillon, altro grande uomo di campo), la salvezza epica in B del Cosenza penalizzato di 9 punti, e, ancora, la prima – e poi la seconda – storica qualificazione dell’Udinese in Coppa Uefa.

Zaccheroni
Lo sguardo di Alberto Zaccheroni, uomo di calcio, persona serena e pacata. Alle luci della ribalta ha sempre preferito l’intimità della vita privata. (Foto Julian Finney/Getty Images)

In quel pomeriggio di mezza primavera, che fece gioire gli juventini e non solo, si sintetizza tutta la professionalità, la trasparenza, l’onestà intellettuale di un uomo sincero, che non ha mai regalato nulla a nessuno. Probabilmente perché il destino sportivo nulla aveva regalato a lui. La carriera calcistica di Zac è infatti una corsa senza fermate tra le montagne russe, fatta di salti in alto e di cadute, in un percorso lastricato di ostacoli ed imprevisti. I primi passi nel calcio li muove sul terreno verde nel ruolo di terzino: i settori giovanili di Cesenatico e Bologna sembrano essere il trampolino di lancio per un trottatore di fascia come pochi altri in quel periodo.

Invece, a 17 anni, una malattia polmonare lo costringe per lungo tempo all’assoluto riposo. E poi emette una sentenza: ragazzo, devi appendere le scarpe al chiodo ancora prima di iniziare a sognareCosì, quella riga laterale che per Zac ha rappresentato la stella polare delle sgroppate giovanili palla al piede, si trasforma nel limite invalicabile per chi fuori dal campo impartisce i dettami tattici.

Un nuovo inizio, dal sapore dolceamaro: la carriera da mister prende il via proprio nelle giovanili del Cesenatico, dove le velleità da calciatore si erano spezzate.

Presto però i ricordi del duro passato si trasformano in nuovi obiettivi da conquistare: a 30 anni viene lanciato in prima squadra, in C2, per tentare di salvare i romagnoli ultimi in classifica dalle sabbie mobili dell’Interregionale. 14 le partite a disposizione: lui ne vince 6 e ne pareggia 4. A fine stagione il Cesenatico sarà ancora in C2, grazie alla sua idea di calcio che, negli anni successivi, regalerà grandi gioie alle squadre di Romagna.

Come accadde con il Baracca Lugo: Zac prese la squadra in mano nel 1988, in Interregionale. Nella stagione 1990-91, la società del cavallino rampante poteva ammirare il suo nome tra le partecipanti alla serie C1, per la precisione nel girone A, quello che all’epoca vedeva impegnate le formazioni del Nord Italia. Due stagioni, due promozioni firmate Alberto Zaccheroni, che diventeranno tre consecutive per il tecnico chiamato dal focoso Zamparini a risollevare le sorti di un Venezia lontano dalla serie cadetta ormai da 24 anni. Mister Zac riuscì nell’impresa, nonostante un rapporto con il Presidente tutt’altro che facile. E un doppio esonero.

Zaccheroni a Venezia, prima di diventare Samurai
Un giovanissimo Zaccheroni con il suo Venezia, riportato tra i cadetti dopo 24 anni. Nonostante le frizioni con il Patron Zamparini, è la prima vera esperienza di grande calcio per lo Zac.

Dalla Laguna alla Barceloneta: Zac aveva deciso di sfruttare il suo periodo ai box per studiare e affinare la sua idea di calcio. Volò così in Catalogna per guardare da vicino il Barcellona di Cruyff. Dall’idea tattica dell’olandese prese ispirazione per smussare quello che diventerà il suo iconico 3-4-3: “i miei difensori saranno centrocampisti, giocherò con due ali ma senza una punta centrale” professava il signor Calcio Totale. Zac sposò l’idea, ma cambiò il finale, perché lui il terminale offensivo lo voleva, eccome se lo voleva.

E a Udine, quando la famiglia Pozzo decise di affidargli nel 1995 la guida dei bianconeri, ne trovò uno dalle uova d’oro: Oliver Bierhoff, senza dubbio tra gli attaccanti europei più forti in circolazione a metà degli anni ’90. “Oliviero, bomber vero” – così gli tributava il saluto la curva friulana – non solo fece gioire un popolo intero, riportando in Germania nel 1996 la Coppa Henri Delaunay, ma a suon di incornate prima salvò l’Udinese, poi le regalò, per due anni di fila, la qualificazione in Coppa Uefa.

“Oliver gravità zero Bierhoff salta e torna giù con le sopracciglia ghiacciate smentendo ancora una volta Isacco Newton, quello della mela” – dirà Carlo Pellegatti con un colpo di genio pochi anni dopo

Una squadra pressoché perfetta, quella plasmata da Zaccheroni nel corso dei tre anni, che nella stagione 1997-98 toccò il suo picco massimo. Un 11 sapientemente disegnato, dalla porta all’attacco: Turci tra i pali viveva un momento d’oro; nella linea a 3, in marcatura a zona, Bertotto e Calori fungevano da colonne d’Ercole invalicabili. Sugli esterni Helveg e Bachini avevano il compito di difendere – a turno, scivolando verso la difesa per una linea a 4 in fase di non possesso – e soprattutto di ripartire come motorini verso l’attacco per sfornare assist a volontà.

In mezzo al campo Walem, vertice basso, era abile geometra, Giannichedda svolgeva il ruolo di mastino. Poggi e Amoroso – per un tridente da sogno – giravano alle spalle di Bierhoff capace di finalizzare in rete qualunque cosa gli passasse vicino, e di imporsi nella classifica cannonieri davanti ad un certo Luiz Nazario da Lima, il fenomeno Ronaldo. Non è un caso se, a cavallo tra il 1997 ed il 1998, l’Udinese è seconda in classifica, ad un paio di lunghezze dalla Juve. Chiuderà il campionato al 3° posto, tornando per il secondo anno consecutivo in Europa.

Bierhoff udinese
Le imprese dello Zac alla guida dell’Udinese rimangono tra le pagine più affascinanti del calcio italiano anni ’90: giocatore simbolo Oliver Bierhoff, con cui sarà vero e proprio idillio calcistico. (Photo by Andreas Rentz/Bongarts/Getty Images)

Non ci sarà però Zaccheroni che, durante i mesi estivi, accetterà la corte di Galliani e del Milan, andandosi a sedere sulla panchina rossonera nell’anno del centenario. Il Milan era in fase calante e veniva da un 10° posto, guidato dal Capello “ter”. Berlusconi, nonostante tutto, fu inequivocabile:

“Zaccheroni, lei è qui per vincere lo Scudetto”.

Per riuscire nell’impresa il Presidente, tra gli altri, aveva acquistato Helveg e Bierhoff. Due regali per il tecnico di Meldola? Assolutamente no. Il rapporto tra i due, infatti, non decollò mai – forse per quel retroterra filo-comunista mai smentito da Zaccheroni, e in generale per un carattere così diverso da quello del Cavaliere – e, in quella circostanza, a mettere sulla lista della spesa milanista il danese ed il tedesco era stato Don Fabio, prima del benservito.

Zac non sprecò comunque l’occasione di poter disporre di due uomini chiave nella sua Udinese dei record, e obbedì al Presidente. Lo scudetto, nell’anno del centenario, tornò davvero a Milano, dopo un finale di stagione degno della migliore sceneggiatura di un film di David Lynch. A sette giornate dal termine il Milan è lontano 7 lunghezze dalla capolista Lazio. Eriksson e i suoi sperperano punti nel derby e a Torino con la Juve, i rossoneri invece non sbagliano un colpo e arrivano a -1 alla penultima giornata: il Milan in casa asfalta l’Empoli per 4-0, la Lazio a Firenze non va oltre l’1-1, fermata da un gol di Batistuta. È sorpasso.

Nell’ultimo atto i rossoneri vanno a giocarsi a Perugia lo scudetto, e con loro oltre 30 mila tifosi al seguito: nessuna tessera del tifoso o biglietto nominativo all’epoca, era solo l’entusiasmo a muovere le folle e a riempire gli stadi. Chi non aveva trovato un biglietto per il “catino” del Renato Curi era stipato sugli spalti rocciosi dell’Arena Civica Gianni Brera di Milano, dove su un megaschermo da pollici incalcolabili venivano proiettati i gol di Guly e di Bierhoff, il rigore di Nakata e la parata del giovane Abbiati su girata di Bucchi che cuciva lo scudetto numero 16 sulle maglie del Milan. Zaccheroni ce l’aveva fatta.

Guly Zaccheroni
Andres Guglielminpietro, detto Guly, festeggia dopo la rete che apre il pomeriggio dello scudetto rossonero. L’argentino sarà una delle invenzioni vincenti della seconda parte di stagione dello Zac, uno dei propellenti per la rincorsa alla Lazio. Senza Zac, Guly diventerà un oggetto misterioso in cerca di identità. (Credit: Allsport UK /Allsport)

Al termine della gara Berlusconi non perse tempo nel prendersi i meriti della conquista del titolo, ricordando di aver suggerito a Zac di schierare Boban nelle ultime giornate. Il mister tuttavia lo smentì: Boban ha sempre giocato come quarto centrocampista a sinistra, nessuno poteva suggerirmi di metterlo in campo visto che era già lì”. Come dire, parlo poco ma non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno.

Una dichiarazione che a Berlusconi non andò mai giù, soprattutto dopo il ciclo di mirabolanti vittorie della sua proprietà, e che mandò in frantumi il già traballante rapporto tra i due. Il fragile legame si ruppe definitivamente durante la stagione 2000-2001, quando il Presidente paragonò Zaccheroni ad “un sarto che ha buona tela ma non la sa tessere”. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: il mister non cadde nella provocazione, come nel suo stile pacato, ma ci pensarono i tifosi, con uno striscione, a ringraziare Zac.

L’allenatore con questa stoffa ha cucito uno scudetto”, ecco l’ultimo abbraccio della Sud prima dell’addio.

Terminati i tre anni al Milan, Zaccheroni ha poi girato l’Italia: prima a Roma, sponda Lazio, dove fece piangere Moratti ed i nerazzurri il 5 maggio 2002, che un anno dopo andò ad allenare. Qualche mese più tardi Torino fu il suo centro di gravità, anche se poco permanente. Prima sul versante granata, per mezza stagione, e poi su quello bianconero, per un altro spezzone di annata. Un’esperienza incolore, quella juventina, che però gli valse un record: essere l’unico allenatore insieme a Jozsef Viola e Giovanni Trapattoni ad avere allenato le tre big del calcio italiano. Niente male.

Ma è proprio al termine della stagione con la Juventus che Zaccheroni prenderà la via della gloria, destinazione Giappone. La nazionale dei Blue Samurai lo sceglie per riportare ai vertici il calcio nipponico che, dopo la vittoria nella Coppa d’Asia 2004, era ormai da sei anni avaro di soddisfazioni. E tra Zac e la nazionale giapponese è subito amore.

“Hanno la cultura sportiva del noi, non dell’io, proprio come me. Qui piace vincere di squadra e questa mentalità, per un allenatore che crede nel lavoro sul collettivo, è una bellissima prerogativa”.

È su questa base che il tecnico romagnolo ha riscritto la storia del calcio asiatico. Il gioco palleggiato ed orizzontale tipico dei giapponesi inizia a cambiare, partita dopo partita: l’obiettivo di Zac è rendere la manovra più verticale, per trovare con più facilità la porta. Una missione difficile, soprattutto per via della lingua. Memorabile la risposta che diede il monumento Yasuhito Endo – 153 presenze in Nazionale, mai nessuno come lui – quando gli chiesero come si faceva capire Zac: «Noi non parliamo italiano, lui non parla giapponese: ci spieghiamo a gesti». Non senza inghippi, però: alla prima cena della Federazione Zac urlò “Cin cin”, “cazzo” in giapponese.

Zaccheroni Samurai
Zac San portato in trionfo dai Blue Samurai, è l’unico allenatore italiano ad aver vinto un titolo internazionale con una nazionale straniera. (Photo by Koki Nagahama/Getty Images)

Ma chi predica calcio, come Zaccheroni, parla una lingua universale, quella del campo. Talmente comprensibile che il suo Giappone realizzò una striscia storica di 19 partite senza subire una sconfitta – stracciando il precedente record di 13 realizzato dal brasiliano Zico – e soprattutto conquistò una Coppa d’Asia nel 2011. Un successo che consentì a Zac di diventare il primo, e al momento l’unico, allenatore italiano capace di vincere un trofeo internazionale alla guida di una nazionale straniera. E non sarà il solo titolo: nel 2013, in Corea del Sud, batté i padroni di casa portando, per la prima volta nella storia del Giappone, la Coppa dell’Asia Orientale in patria.

Due titoli nell’arco di 24 mesi, Alberto Zaccheroni da Meldola era diventato l’idolo del popolo che inventò Holly&Benji. Addirittura l’imperatore Akihito, da sempre restio ad aprire le porte della casa reale, ricevette l’allenatore campione d’Asia per dimostrargli stima e riconoscenza. Un onore che Zac porta ancora commosso nel cuore. A chi gli chiede ancora oggi cosa gli manchi del Giappone, lui risponde

“Tutto, perché ho vissuto momenti indimenticabili. Al mondo, non esiste un’altra cultura in grado di cambiarti la vita così tanto”.

Onore allora a “Zac san, sun of Japan, son of Cesenatico”, come lo chiamò il sindaco romagnolo Nivardo Panzavolta al suo ritorno in Romagna, che ha scritto pagine indimenticabili del calcio italiano e non solo. Da tutti gli appassionati del bel gioco, ma anche dagli amanti delle buone maniere, tanti auguri mister. All’uomo e all’allenatore.

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