Altri Sport
26 Ottobre 2017

The Mystic Celt

La storia del culto biancoverde.

Dobbiamo andare al “Bull and Finch”. E’ un pub ubicato nello scosceso quartiere di Beacon Hill dove si è girata la celebre serie TV “Cheers” meglio nota in Italia come “Cin Cin”. Il massimo sarebbe che una volta preso posto all’interno il gestore mettesse su “Please Come To Boston” dell’incantevole Joan Baez ma al limite andrebbe benissimo anche la versione più ruvida di Dave Loggins. A questo punto occorre ordinare una birra, anzi la birra, una lager marcata “Sam Adams”, inconfondibile per via del faccione imparruccato di colui che nel 1773, insieme a una manciata di compagni, pensò bene di travestirsi da pellerossa “mococh” e rovesciare in mare il contenuto caricato nelle stive delle tre navi inglesi ormeggiate al porto di Boston scatenando così il presupposto per l’ennesima insurrezione e innescando la scintilla della definitiva rivoluzione che porterà alla guerra d’indipendenza americana.

Il pub ha una bella vista, conviene sbirciare fuori dalle finestre e magari, per un attimo, non vi sembrerà nemmeno di essere negli Stati Uniti seguendo la teoria delle lunghe file di viali alberati corredati da imponenti palazzi in mattoncini rossi dal sapore vittoriano, puntellati alla base da bucolici lampioncini in stile retrò. E se casualmente ci siete capitati nel periodo autunnale avete avuto davvero una fortuna sfacciata perché, oltre che in mezzo all’incantevole “foliage” dei pioppi velati di giallo intenso e degli aceri accesi da un miscuglio di tonalità rosse e arancioni, vi sembrerà di essere toccati nell’anima anche dalle atmosfere create dalle penne di Henry James e Edgar Allan Poe che qui hanno composto romanzi geniali mangiando “muffin” e bevendo il sidro del New England. Trick or Treat? bandierine irlandesi appese ai negozi e zucche, zucche dovunque, le zucche mostruose rischiarate dalla luce di una candela utili a richiamare la leggenda di Jack O’Lantern che con un bel trucchetto sfuggì al demonio.

Boston è un enclave dell’isola di smeraldo, irrorata da una mistica arpeggiante arrivata con il drappello dei padri pellegrini della “Mayflower” sbarcati nella baia di Cape Code nel 1620 impregnati di Dio e di libertà.

In fondo, adesso, se avete finito la birra potreste pure uscire e riprendere a seguire la linea rossa verniciata a terra del cosiddetto “Freedom Trail”, 2 miglia e mezzo di passeggiata attraverso i luoghi della storia locale, accorgendovi, idealmente, che il colore di quel tracciato inizia a diventare incessantemente più verde man mano che si giunge al centro del quadrilatero della downtown formato da Beacon, Charlestown, East Cambridge e North End, dove sbuca perentorio il nuovo TD Garden in mezzo a grattacieli non opprimenti, non abbastanza folti da oscurare il cielo come a New York. Il Garden è la casa dei Boston Celtics, palazzo dello sport di culto, tessuto connettivo in cui convergono le aspirazioni dei seguaci del “Leprecauno”, il simbolo del club, una sorta di gnomo, di astuto folletto in ghingheri disegnato da Zang Auerbach, il fratello del mitico Red, ma siccome al solo pronunciare quest’ultimo nomignolo si avverte già odore di sigaro e profumo di vittorie, ci torneremo dopo.

Perdersi tra le strade di Beacon Hill
Perdersi tra le strade di Beacon Hill

Adesso facciamo un salto a French Lick, in Indiana, che fino ai primi anni ottanta era la tipica, anonima, sonnolenta località dell’entroterra americano dove ogni tanto qualcuno spara un paio di colpi d’arma da fuoco e la religione di Stato è la pallacanestro. E inoltre, in ogni caso, guai a dire di non seguire la loro memorabile 500 miglia motoristica. Se ad ogni ragazzo nato qui chiedete se esiste del fascino nell’esistenza, ebbene lui vi risponderà senza battere ciglio di sì, ma solo a patto che un giorno riesca a indossare la maglia scarlatta degli “Hoosiers” dell’Università di Bloomington. A Larry “Joe” Bird, allampanato angioletto biondo dagli occhi azzurri, il sogno riesce dopo che al liceo enuncia postulati di manifesta superiorità. Tuttavia c’è un problema.

A Indiana a metà anni settanta comanda un certo Bobby Knight detto “The General”, tecnico irascibile e scontroso. Fra i due nasce un diverbio talmente insanabile che Larry molla il “College” e per un anno lavora come spazzino sulle strade di French Lick. Per fortuna a soccorrere il suo talento prodigioso accorre un ateneo minore, quello di Indiana State della sabbiosa Terre –Haute, che gli offre una discreta borsa di studio e Bird scende dal camion della nettezza urbana andando a mettere sulla mappa geografica dello sport i sycamores. A stretto giro di “draft” Larry Bird nel 1979 diventa uno dei “Celtics” oppure, se volete, i Celtics diventano Larry Bird e sempre lo saranno. Lo saranno per chi è cresciuto vedendo quelle infinite battaglie con il nemico Magic Johnson, poi diventato amico fraterno al punto da presenziare alla sua cerimonia d’addio al vecchio (originale) Garden, svelando una t-shirt con la scritta Celtics sotto la tuta giallo-violetto dei Lakers. Larry Bird tornò a far vincere Boston dopo gli anni di Tom Heinsohn e dello sregolato Dave Cowens, trovato ubriaco fradicio sdraiato in un parco cittadino la mattina seguente alla partita che dette l’ultimo titolo ai Celtics nel 1976.

Bird era un’altra cosa; un sesto senso per il gioco, un cervello superiore nel corpo di un bianco tutto sommato poco atletico dal quale estrasse genialità e istinto. Conosceva ogni punto morto del parquet del Garden, ogni piccola asperità che spuntava dal legno, evitandola e al tempo stesso indirizzando il palleggio degli avversari proprio in quelle direzioni. Non fosse stato per la schiena scricchiolante avrebbe almeno un paio d’anelli in più alle dita rispetto ai tre effettivamente conquistati. Larry non ha mai incontrato una sfida che non gli piacesse, che non accendesse quel fuoco di competitività che gli bruciava dentro e per questo passava ore in palestra ad allenarsi. Dirà lui stesso: “lo faccio perché in questo esatto momento c’è qualcuno che vuole superarmi, che sta tirando ora dopo ora, e non posso permettermi di riposare”. Sottopressione si trasformava: “ci saranno 20000 occhi puntati su di me perché tutti sanno che io prenderò la palla, lo sappiamo noi, lo sanno i nostri avversari”.

Nella partita in trasferta contro Atlanta del 3 dicembre 1985 segna 60 punti, immarcabile, letale da qualsiasi mattonella, contro qualunque disperato difensore degli Hawks che alla fine applaudiranno intontiti tanta grazia. Quei Boston Celtics allenati da Bill Fitch trovarono un condottiero senza macchia e senza paura inserito in un “frontcourt” micidiale assieme a Kevin McHale e al “doppio zero” Robert Parish. Le immagini di Bird sono altresì quelle fuori dal campo; le birre al Four’s, il suo rifugio preferito post partita a pochi metri dal Boston Garden, e le pubblicità tv in cui lui e Auerbach spiegano il corretto posizionamento delle braccia per il tiro.

Rivalry
Rivalry

Oh, rieccolo Auerbach, il flash back dovuto: Arnold “Red” Auerbach figlio di un ebreo russo scappato negli Stati Uniti lasciando la sua lavanderia di Minsk. Aurebach, rosso di capelli da costringere a imprimergli il più conseguente dei soprannomi, nasce a Broooklyn il 20 settembre del 1917 ed ottiene buoni risultati sia come giocatore che come tecnico, in una squadra scolastica di Washington, e entra dalla porta principale del Garden nel 1950 per volontà del presidente Walter Brown nelle vesti di nuovo responsabile tecnico, giusto ad appena quattro anni dalla fondazione della franchigia.

Red è tipo focoso, innovativo, mentore e psicologo. Introdusse tantissime novità: un controllo maggiore del contropiede tramite un playmaker, un‘attenzione alla difesa grazie ad un centro di ruolo, l‘inserimento del sesto uomo, il gioco corale e una ricerca maniacale della forma fisica dei giocatori, scegliendo, per la prima volta, dei giocatori neri ai “draft” in un epoca, quella degli anni ‘50, dove in buona parte del paese vigevano norme di superiorità razziale nei bar, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nei trasporti pubblici, nonostante nell’opinione pubblica incominciasse a far breccia l’attivismo controcorrente di Malcolm X, quello apostolico, instancabile di Martin Luther King, corredato dal gesto simbolico ma dirimente di Rosa Parks, la donna di colore che nel 1955 a Montgomery si rifiutò di alzarsi da un sedile dell’autobus riservato ai bianchi venendo arrestata e messa in prigione. Red se ne sbatte, porta a Boston un certo William Felton “Bill” Russell, che fra l’altro vivrà indirettamente uno sconsolato episodio a sottofondo razzista. Nato nel profondo Sud, a Monroe in Louisiana in cui il Jazz entra nelle case senza bussare, William si trovò bloccato da quella ben percepibile barriera che separava le persone. Famosa è infatti la storia del padre di Russell che, fermo ad una pompa di benzina, nonostante la precedenza, fu costretto ad aspettare che prima fossero serviti i “non neri”, venendo nell’attesa minacciato con un fucile.

Russell junior è alto, rapido, alle volte legnoso ma quando salta per afferrare il rimbalzo, prima di toccare terra, sta già guardando il compagno libero per il contropiede prevedendo in netto anticipo cosa sarebbe successo nel divenire dell’azione diventando il giocatore cestisticamente più intelligente di sempre, MJ compreso. Il tallone d’Achille riguardava l’essere penalizzato da una scarsa autostima e da una personalità incerta. Ciò nonostante, Red sapeva come gestire un carattere del genere prendendolo subito sotto cura. Intanto in squadra non c’era solo Bill ma anche un certo Bob Cousy, uno dei primi grandi playmaker della storia del gioco, di quelli palleggio- arresto- tiro- ciuff. Il rapporto con Cousy dice molto sul tipo di allenatore che era il newyorkese. Bob una sera esegue un eccentrico passaggio dietro la schiena e, negli spogliatoi, preso da un dubbio, chiese a Red: “Coach, sinceramente, ma a lei piace se passo la palla così?” Risposta eloquente: “Senti Cousy, quella palla te la puoi far passare anche dal culo, basta che arrivi dove deve arrivare”.

Per distinguersi dagli altri allenatori che si fumavano una sigaretta, “Red Auerbach, non appena la partita va in ghiaccio in favore dei Celtics, estraeva dalla tasca interna della giacca un sigaro e se lo fumava, rendendo quella pratica simbolo della vittoria. Arriveranno otto titoli consecutivi dal 1957 al 1966, una litania di trionfi irripetibile. Dopo l’epoca Auerbach, il lustro firmato Larry Bird, i Celtics cadranno in un oblio uggioso da cui usciranno solo a ventuno anni di distanza dall’ultima finale. I “Bostonians” campioni nel 2008 restano una delle squadre più iconiche dell’ultimo scorcio di NBA; una collezione di talenti e personaggi che in una stagione riuscirono immediatamente a vincere il titolo, rimanendo al top della lega per le successive quattro annate. Il loro mantra era l’espressione della lingua bantu “Ubuntu”, che significa “benevolenza verso il prossimo” basata sulla compassione e il rispetto dell’altro con un desiderio di pace e fratellanza. I Celtics la ripetevano ad ogni “huddle” prima delle partite e in uscita dai “timeout”.

The big three
The big three

I “Big Three” composti della maieutica di Ray Allen, dall’eclettismo al limite del provocatorio di Kevin Garnett e dalla maestosità di Paul Pierce detto “The Truth” (la verità), riaccesero una città e una sfida che appariva dimenticata nell’accezione della posta in palio, ossia quella contro i Lakers di Kobe Bryant e Paul Gasol. Curiosità. Pierce era nato a Oakland nel 1977, dove nel caldo torrido di luglio che molestava la California si era palesato il visibilio delle cinquantamila persone che cantavano sulle note di “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin in concerto. Lui, il figlio di Lorraine e George Pierce, la “scalinata verso il paradiso” la comincerà qualche anno più tardi.

Trascinatore, rapido, chirurgico, appassionato di libri gialli, passa dall’università di Kansas a Boston al secondo giro delle scelte 1998 e sarà ovviamente il protagonista dell’ascesa, anche se appena messo piede in città resterà vittima di una rissa da “nightclub” che farà temere non solo per la sua carriera ma anche per la sua vita. Si becca undici coltellate, una delle quali entra 20 centimetri dentro l’addome e un’altra finisce vicino al cuore. A salvarlo, lo spessore della giacca di pelle e Derrick Battie, fratello del compagno di squadra Tony presente quella sera con lui al “Buzz”, che lo accompagnerà di corsa all’ospedale più vicino. Un autentico miracolo, un miracolo che Paul armonizzerà unendolo alle sue doti e coscientemente ne determinerà in positivo la carriera: è morto e sopravvive alla morte, la sua percezione dell’esistenza cambia così come le sue percentuali di gioco messe a referto.

Boston nel citato 2008 batterà L.A. 4-2 e il banner del trionfo fu appeso insieme agli altri sedici al soffitto grondante gloria del TD Garden, in attesa, ormai decennale, che il general manager Danny Ainge, altro grande ex di “The Walking City”, e coach Brad Stevens possano riuscire nell’impresa di detronizzare i padroni del vapore Lebron James e Stephen Curry.

Che il folletto del Garden gli sia propizio. Green is the Colour.

Gruppo MAGOG

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