Una squadra di storia e tradizione del calcio inglese.
L’ultima luce del giorno comincia a calare, sotto un cielo basso, plumbeo. I contorni delle cose scompaiono nella penombra, la linea dell’orizzonte si serra piano. Scende la notte sul Suffolk. Non si vede più nulla, gli uccelli tacciono. Là dove si udiva gorgogliare un usignolo nella boscaglia, adesso non si percepisce alcun suono, alcun segno di vita. Solo silenzio. Villaggi, fiumi, alberi, vecchie cattedrali nascoste da querce secolari. C’è molta letteratura in questa contea. Ce n’è nei bow-window ordinati e composti, nelle minuscole, innumerevoli sale da tè, nei cottage tirati a lucido, nei negozietti di antiquariato in puro stile Miss Marple, nei pub col camino acceso in piena estate.
C’è letteratura nel senso del decoro, dell’amore per l’arte. L’idea che in fondo la natura stessa sia espressione culturale. Eppure qui il paesaggio può avere tratti corruschi, se non brutali.
Qui è nato George Orwell. A Lowestoft sbarcò per la prima volta in Inghilterra il riservato capitano di marina polacco Jozef Korzeniowski, divenuto qualche anno dopo il più celebre Joseph Conrad. Penelope Fitzgerald vi ambientò il suo delizioso romanzo-rivelazione, La libreria. Ci veniva anche Winston Churchill in vacanza: scendeva nel candido e rilassato Swan Hotel, il migliore della zona. E dopo i fatidici anni thatcheriani sarà ancora il turno dell’intellettualità, quella che a Londra vive a Islington e ama mangiare pane, olio e una tonnellata di aglio. Così negli anni scorsi è arrivato buon ultimo Gordon Brown, attirando riflettori mediatici molto poco amati da queste parti.
La costa poi è uno scorcio di paradiso, anche quando il tempo è freddo, segretamente luminoso e il mare del nord appare minaccioso. Potreste avere l’impressione di trovarvi in un teatro a cielo aperto e rischiereste di non sorprendervi se davanti a voi il sipario naturale si aprisse e, dalla nebbia sospesa sul mare, comparisse la flotta olandese che il 28 maggio 1672 aveva aperto il fuoco contro le navi inglesi radunate nella baia di Soutwold. Ma il Suffolk è soprattutto Ipswich. La città ha saputo conservare tutte le tracce del passato a partire dai suoi splendidi edifici in stile Tudor. Tanta storia insomma, e un centro pieno di vita dove se avete qualche sterlina da spendere ecco il quartiere commerciale di Buttermarket. Tuttavia resta impossibile scindere Ipswich dalla sua campagna. E campagna significa agricoltura, significa cavalli. Il più nobile e bello fra gli animali. E allora, of course, non poteva che essere un destriero a rappresentare la locale squadra di calcio.
Una razza di cavalli autoctona come simbolo del Ipswich Town: il Suffolk Punch, adottato nel 1972 a seguito di un concorso vinto da John Gammage, il tesoriere del club. Nel tempo l’emblema ha avuto vari restyling mantenendo in ogni caso la stessa conformazione a “scudo merlato” con la tonalità di blu preminente listato dal giallo oro o dal rosso. L’unico cambiamento grafico consisté nella resa grafica del cavallo, volutamente presentato somigliante all’equino regionale. Il gruppo sportivo muoverà i suoi primi passi nel 1878 sotto forma amatoriale con il nome di Ipswich A.F.C. ricevendo, nel 1892, la gradita visita di una delle squadre più in voga in quegli anni, ovvero il Preston North End, seguita sei anni dopo da quella dell’Aston Villa. Nel 1888 arriva la denominazione definitiva di Ipswich Town F.C., in occasione della fusione con l’Ipswich Rugby club. Si susseguirono annate di contese locali puntellate da qualche alloro, fino a che, nel 1936, arriverà la consacrazione dello status di professionismo e nel 1938 l’iscrizione nel registro dei grandi della Football League.
Ma ci stiamo dimenticando della casa, dello stadio che dal 1884 ospita i cosiddetti Tractor Boys: Portman Road. Un luogo in cui la polvere del tempo ne avrebbe di storie da raccontare. Fascino vecchio stile, riservato, un impianto che ha visto tutto e ancora, senza dirlo, anela alla gloria. Come quella grande, sorprendente, del 1962 quando con Sir Alfred Ramsey in panchina arrivò niente meno che il titolo di campione d’Inghilterra addirittura da club neopromosso. Il capocannoniere del torneo vestirà proprio la maglia blu, si chiamava Ray Crawford e forse un po’ di blu lo portava nel cuore visto che era nativo di Portsmouth. Metterà a segno 33 reti, coadiuvato dalla prolificità offensiva di Ted Phillips. Ma non stupitevi, erano anni strani quelli, che profumavano di novità.
Mary Quant stava progettando la minigonna, esplodeva la pop art, i Beatles dopo il periodo tedesco iniziavano a raccogliere attenzioni, il sogno di Martin Luther King avrebbe conquistato a breve il Nobel per la pace (1964) nonostante in Vietnam esplodessero i primi bagliori di una guerra crudele e, di contro, entrava nelle case Blowin’ in the Wind di Bob Dylan.
Ad Alfred Ramsey a Ipswich hanno dedicato una via, una tribuna e una statua. Per trovarla basta semplicemente scendere dalla stazione e fare qualche passo a piedi; oppure se siete dall’altro lato del fiume, superare l’Orwell, affiancare il Punch&Judy, un pub familiare e pittoresco in Grafton Road, proseguire senza lasciarvi tentare da una pinta di birra ed immettersi in Princes Road dove l’opera sbuca nei pressi dello stadio. E apparirà anche un’altra statua, un altro bronzo, un’altra sagoma, altre lettere scolpite ad memoriam, altri momenti magici per l’Ipswich Town. Stavolta la scultura in questione è quella di Robert William Robson, per tutti Bobby, nativo di Sacriston a poche miglia da Durham il 18 febbraio 1933. Robusto, tenace, un sorriso sempre accennato e due occhi chiari che prima ti penetrano l’anima e poi si allontanano indefinitamente.
Bobby era il quarto di cinque figli di una famigliaoperaia. A pochi mesi dalla nascita si trasferì a Langley nel profondo nord inglese, gente dura, chiusa come le loro vocali, fra vento, pioggia, ferro e miniere, perché suo padre, Philip, aveva trovato un posto di lavoro. Si innamorerà del calcio e il sabato con qualche sacrificio si farà accompagnare al St. James’s Park a vedere il Newcastle. Il ragazzo ha classe, nel 1950 arriverà il primo contratto da professionista con il Fulham ma nonostante le prime sonanti sterline l’irreprensibile genitore volle che continuasse a lavorare come elettricista: la vita è piena di insidie e non si sa mai, è sempre bene avere un mestiere in mano.
E per po’ riuscì a far convivere palloni e fili elettrici, solo che alla fine le perplessità paterne si allenteranno e Bobby potrà dedicarsi al calcio a tempo pieno. Fulham quindi, ma anche WBA e poi ancora Fulham. Il contatto con Ipswich giungerà nel gennaio del 1969 dopo che l’anno precedente c’era stata una prima infarinatura nel ruolo di manager a Craven Cottage. L’impegno è arduo: deve sostituire Bill Mc Garry, ovvero colui che aveva avuto l’onore di riportare i Tractor Boys nella massima serie. Dopo qualche discreta annata cominciano ad arrivare le ciliegine sulla torta.
La prima è datata 6 maggio 1978. L’Ipswich Town vincerà la sua prima FA Cup.
Un Ipswich Town bollato dai media come gli ingenui cugini di campagna, che prima della finale sembravano avessero davvero ben poche possibilità di battere l’Arsenal trascinato da Supermac Malcolm Macdonald. Eppure, Bobby Robson seppe guidare sapientemente i suoi tirando fuori carattere e buone geometrie e, fra le altre cose, l’Ipswich Town nel sesto turno si era pure preso l’ardire di fare sei reti al Den al cospetto degli sguardi torvi del pubblico di fede Millwall e poi a Highbury, nella semifinale disputata come da veneranda tradizione in campo neutro contro il WBA, si guadagnò la chiave per le porte dorate di Wembley con un perentorio 3-1.
Era la squadra di Paul Mariner, capelli lunghi da chitarrista rock e malizia da vendere. Al 10′ un suo tiro a botta sicura colpirà la traversa. L’ Ipswich continuò ad attaccare. Voleva a tutti a costi scrollarsi di dosso l’etichetta di perdente sicuro. Pat Jennings portiere dell’Arsenal eseguirà un salvataggio incredibile sul giovane terzino destro George Burley. Sembrava davvero stregata la porta dei londinesi tanto che John Wark centrerà per ben due volte il legno del montante. Wark, lo scozzese di Glasgow, grinta, baffo incolto e sguardo di chi la sa lunga. Fu scoperto dal talent scout George Findlay che dopo un provino fallito a Manchester lo portò, sicuro della propria visione, a Portman Road.
Ma a risolvere il match ci penserà Roger Osborne su invito di David Geddis e, a dirla tutta, con la complicità del difensore in maglia gialla Willie Young. L’aneddoto racconta che siccome la gioia di Osborne si mostrerà ingestibile, un minuto dopo, Robson opterà per sostituirlo con Mick Lambert. L’euforia di quel pomeriggio sarà affiancata tre anni dopo da una soddisfazione che ancora oggi viene ricordata con grande affetto e un briciolo di stupore mai sopito, ovvero la vittoria nella Coppa UEFA del 1981. Il pass per la manifestazione continentale era stato acquisito grazie a un eccellente terzo posto in campionato alle spalle del Liverpool campione e del Manchester United ottimo secondo.
Non era cambiata molto la squadra rispetto a quella che aveva trionfato in FA Cup. Il fascino del calcio totale aveva portato due tulipani alla corte di Robson: Frans Thijssen e Arnold Murhen. Entrambi arrivano dal Twente. Entrambi centrocampisti, due pittori fiamminghi della scuola di Van Eyck. Occhi luminosi e goliardia innata. Non dipingono a olio su tela, non hanno pennello e colori ma porteranno ugualmente, sebbene su un rettangolo verde, la stessa visione e spazialità degli artisti di questa corrente. Si consolideranno Terence “Terry” Butcher e Alan Brazil. Butcher “il macellaio” è un difensore centrale sbocciato calcisticamente proprio a Ipswich. Un autentico colosso ghignante di quasi due metri apparentemente uscito da un corridoio della torre di Londra al termine di un intrigo ordito da Enrico VIII. Alan Brazil, viceversa, è un attaccante classe 1959, ricci clowneschi e faccia da bravo ragazzo. Segnerà 70 goal in 154 presenze con i blues.
Il cammino europeo miete nei primi turni, Aris Salonicco, Bohemians Praga e Widzew Lodz. A provare a intralciare la strada ai Tractor Boys ci provò Monsieur Michel Platini con il suo Saint-Etienne. Non ci riuscirà. Anzi sarà una disfatta per i francesi, come a Crecy, come a Agincourt, come a Trafalgar. Perderanno sonoramente in casa e fuori. A contendere la doppia finale sbucherà il Colonia: le caprette. E vuoi che nelle campagne del Suffolk si tema un piccolo gregge di undici uomini in bianco? Anche qui duplice successo. Uno a zero fra le mura amiche, uno a zero al Mungerdorf. I pastori? John Wark e Terry Butcher. Arriva la finale, arrivano gli strani olandesi del AZ 67 di Alkmaar. I tornelli di Portman Road nella gara di andata lasciano passare ufficialmente 27.532 spettatori.
La porta difesa da Eddy Treijtel, estremo difensore dell’AZ, invece lasciano passare tre palloni. Sul primo c’è la firma di Wark, sul secondo quella di Thijssen, sul terzo quella di Paul Mariner.
Sembra fatta e ciò nonostante la gara di ritorno da giocare nei “Paesi Bassi” potrebbe rivelare qualche insidia. E infatti quella giocata allo Stadio Olimpico di Amsterdam risultò una partita tirata, dove le marcature dei soliti Thijssen e Wark renderanno meno aspra la sconfitta per 4-2 garantendo la vittoria e una folla in delirio a Ipswich. Era il maggio del 1981. Io ero solo un bambino. Oggi Bobby Robson non c’è più, se l’è giocata fino alla fine. Non sempre le cose vanno come si vuole ma bisogna accettarlo. Quella foto in cui lui sorridente solleva la coppa è un ricordo dolce. Così lontano, eppure ancora così presente, vivo. Sarà che sto invecchiando, che le mie memorie calcistiche sono come un romanzo, sarà che è difficile far capire ai giovani la bellezza di quel calcio che la nostalgia fa parlare più del dovuto. Ma c’è sempre bisogno di bellezza, di bellezza e di poesia, di aria fredda e di una sigaretta. Peccato che ho smesso di fumare.
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