Calcio
04 Maggio 2023

Un giorno senza sole

In ricordo dei caduti di Superga.

Piovve quella notte, la pioggia demente di una primavera malata; le nubi incombevano basse alternate da repentini cali di nebbia umida, atta a stendere un sudario caliginoso su Torino, che si risvegliò come percossa da un incubo, lattea, spettrale, che nemmeno il primo suono del campanello della bicicletta di un aitante panettiere riuscì a rallegrare e ridestare. C’era qualcosa in quell’alba livida, impregnata, una sorta di insofferenza, un patire senza motivo apparente, la condizione patologica dell’uomo depresso nell’attesa spossata di un ansiolitico pena uno stato perenne di tremore e senso di smarrimento.

Laura Virgili, figlia unica di una famiglia operaia del quartiere Lingotto, dormì malissimo, svegliandosi con un rammarico e un’angoscia che non riuscì a scacciare nemmeno raddoppiando la dose di biscotti da sciogliere nel caffè in quel mattino scuro, battuto da una pioggia pungente di gocce minute. Il granata della bandiera del Toro, e i cori dei tifosi al giorno della partita, invadevano la sua stanza arredata con dimesso gusto, uno schivo alloggio che per lei solo pochi anni addietro aveva significato il distacco dai rituali di un’educazione ossessiva.

Fu all’incrocio con Piazza D’Armi, guardandosi nello specchietto a scatto tenuto nella borsetta, che si rese conto per la prima volta che tutto sommato non le dispiaceva il rossetto in disordine, mentre da un bar le parole di una canzone invitavano un uomo a stringere una donna, a baciarla, evitando di parlarle nel tepore dei corpi. Nel 1949, passeggiando in Borgo Filadelfia, fra i rumori dei treni in entrata e in uscita dal nodo ferroviario, Laura si fermava a vedere gli allenamenti allo stadio della sua squadra di calcio, e in mezzo al cerchio dei giocatori si disponeva un certo Erno Erbstein, un allenatore ungherese di origini ebraiche, che schierava i suoi ragazzi in un semicerchio nitido, esatto, come se a far da invisibile tratto di compasso fosse stata una penna calata dalla cuspide altissima della Mole Antonelliana.

La splendida e maestosa Mole Antonelliana, guardiana delle Alpi

Colpì Laura l’automatismo dei gesti, la sincronia fluida dei movimenti. Sebbene fosse chiaro che si stessero allenando, non c’era preparatore atletico a guidarli nelle estensioni e nelle acrobazie con cui suscitavano l’ammirazione di tutti i passanti, stupiti, quanto lo sarebbero stati a osservare un funambolo del circo o uno stormo di incantevoli fenicotteri. Da dietro gli occhi sottili, la mente era fissa su un comune ordine interiore, da cui scaturiva la gestualità seriale e quasi danzante degli esercizi.

Laura, in quei momenti, non avrebbe saputo dire con esattezza se il suo entusiasmo per quel Torino invincibile fosse stata la malinconica predisposizione di un inverno pigro di amori, ma ricorda benissimo che quando incrociò lo sguardo di uno degli uomini vestiti in tuta le si aprì una limpidezza sconfinata. Osservava, rapita, ogni movimento, ogni braccio, precipitato sulle caviglie e poi appresso la schiena. Si rivide dentro la sua camera, ebbe un pensiero che la fece arrossire, ripensò alla scarsità di mobilie, alla sveglia, allo spartano tavolinetto in formica, a quel mazzo di fiori appassiti che chissà da quanto tempo aveva dimenticato di annaffiare e poi chissà qual era il motivo perduto che le imponeva di conservarli ancora.

Pensò che sarebbe stato magnifico fidanzarsi e sposarsi con uno di quei ragazzi del Torino aspirando ai ritmi di una serenità coniugale, e immaginò il suo matrimonio, una nuova intimità, una casa spaziosa, addirittura fantasticò sui buchi delle serrature, sulle fessure sotto le porte, sulla sveglia finalmente discreta, continuando a osservare quei gesti, stavolta concepita sulla frequenza delle acclamazioni della partita vera, ma poi riecco le buste del riso, il viva gli sposi, i brindisi, le bucce annerite sul piatto dopo una cena a lume di candela.

Si vide accanto al bel Rigamonti ma le voci dicevano fosse un impenitente donnaiolo e allora ripiegò su Ezio Loik dalla faccia bella e dannata da attore americano. Studiò qualunque dettaglio, degno di un’immaginazione maniacale eppure composta, tuttavia comprese la paranoia non supina al suo iperbolico capriccio. Pensò Laura, impiegata allo stabilimento Fiat del Lingotto, all’efferatezza dei sogni, in cui tutto è piegato ai nostri desideri, ma in fondo quei pensieri le dettero un gusto di rappresaglia sportiva verso la Juventus, la squadra dei padroni.


La mattina del 4 maggio 1949


Era un giorno di riposo per lei, quel 4 maggio 1949, e prese un Tram verso Corso Vittorio Emanuele, detergendo con un fazzoletto la condensa sui finestrini affinché l’opulenza della città austera non offuscasse in lei nella mente il ricordo degli atleti. Eppure, quella mattina, continuò a percepire ciò che mai avrebbe voluto intuire: vide i suoi occhi guardarsi dentro, e sentì crollare un ordine interiore, in un solo istante, ne fu certa, era successo qualcosa di terribile al suo Torino, un crollo assoluto, invisibile, senza rumore.

E prima ancora che la notizia dilagasse funesta in ogni recesso della città e rimbalzasse in tutta Italia, Laura Virgili si mise a piangere. Anche Ettore Gianzi aveva dormito male quella notte e non se ne capacitava. In genere il sonno era di una quelle cose che, nonostante la vita gli avesse regalato un dispiacere terribile, non gli procurava fastidi e riusciva sempre a riposare piuttosto bene. Si alzò, guardò distrattamente il calendario che recitava mercoledì 4 maggio, e si mise davanti alla specchiera, le rughe cominciavano a solcargli la faccia leggermente incanutita dall’incedere degli anni, quasi cinquanta pensò.

E per i tempi cominciava ad essere una certa età. Quello che il vetro rifletteva disturbava Ettore, addetto al Filadelfia da ben prima della guerra, un guizzo di malinconia si era accasato tra le tempie incise da ex appartenente al reparto genieri dell’esercito italiano, quel povero esercito sbandato uscito dall’ambiguo armistizio dell’8 settembre, insinuando uno sgradevole contrasto con l’allegria che sapeva di saper elargire non appena si aggirava soddisfatto nei corridoi e sul prato dello stadio, la cui erba tagliava una volta alla settimana oppure a seconda della stagione.

E bisognava farlo con cura perché su quell’erba giocava la squadra più forte del mondo e di questo ne era consapevole.

Ogni sera lucidava e controllava il tagliaerba, un modello leggero in alluminio prodotto dalla ditta Briggs & Stratton, preparando la dose di miscela corretta per il giorno seguente, cosicché lo trovasse già pronto nella stanzetta dei magazzinieri accanto agli spogliatoi dei giocatori, sotto un gagliardetto granata, appeso a un chiodo, con la scritta campioni d’Italia 1947/48.

Sulla sedia, accanto al letto, teneva al pari di una reliquia la maglia regalategli da Franco Ossola, autentico funambolo in campo, mentre sul comodino, sotto una abatjour vagamente dozzinale, gravava obliqua sul perno della cornice la foto di Irma, sua moglie, scomparsa a causa delle ferite riportate da un bomba caduta in città durante i giorni fatti di sirene stridule e corse senza fiato verso i rifugi imposti dal conflitto bellico. Dalla finestra vedeva una piccola parte di Corso Regina Margherita e si accorse che piovigginava, allora decise di infilarsi la giacca impermeabile.

Il Corso, smorzato dalla foschia, era poco trafficato. Afferrò la bici legata con il fil di ferro alle apposite rastrelliere, e dopo aver percorso un centinaio di metri entrò dal panettiere all’angolo con Corso Oddone per prendere il suo “Gavasot” quotidiano. Quando entrò si accorse dello strano silenzio, le ultime voci si spensero, e Ettore non capacitandosi del motivo nascose immediatamente un sorriso che ritenne inopportuno. In molti sapevano del suo lavoro, lo guardavano fisso in faccia come se si attendessero una risposta, un qualcosa a cui aggrapparsi contro l’inutilità della speranza.

Piani di coda del trimotore Fiat G.212, marche I-ELCE, delle Avio Linee Italiane, schiantato contro il terrapieno posteriore della Basilica di Superga il 4 maggio 1949. / Foto Wikipedia

Fu solo in quel preciso istante che Ettore Gianzi percepì il gracchiare della radio, il pianto sommesso di alcuni clienti, e la faccia bianca, spossata di Renato, il fornaio baffuto al quale giusto una settimana prima aveva regalato una foto autografata del capitano Valentino Mazzola, che ora se ne stava sospesa sopra agli scomparti del pane e pareva guardare tutti da un punto indefinito dell’universo. Renato non proferì parola, restando con i gomiti appoggiati al bancone in un aria mesta di disagio e sconforto.

La radio intanto parlava di una disgrazia, di un errore, di un aereo caduto. Sì, forse proprio quello del Torino, anzi nessun forse, la voce metallica scandì bene il comunicato. Vittorio Pozzo insieme ai pompieri e alle forze dell’ordine stava riconoscendo i cadaveri. Non era giusto, dopo gli stenti del dopoguerra, il Grande Torino dai volti puliti, la meglio gioventù di un Paese ancora in cerca di identità, ragazzi timidi dai volti tesi, gli zigomi spigolosi e i capelli imbrillantinati all’indietro, più anziani dei loro vent’anni, che dissimulavano timidezza, sorridendo con imbarazzo alle cineprese.

Il Grande Torino di ritorno dal Portogallo per un amichevole era collassato a bordo di un aereo sulla Basilica di Superga, nascosto dal fumo maledetto delle macerie e da quella foschia grigia, opprimente. Lassù, in qualche modo, sono rimasti per sempre, ma anche i sogni di Laura e il secondo dolore di Ettore, oltre ai ricordi di un’intera generazione, e mentre si ripete la litania di una formazione epica, (Bagicalupo, Ballarin, Maroso, Greizar, Castellano, Loik, Mazzola, Menti, Gabetto, Ossola) sembra che la tromba del capostazione Oreste Bormida suoni ancora la carica fra gli angoli ossuti e screpolati del vecchio Filadelfia.

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Simone Galeotti

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