Lo strano caso di Kyle Lowry, giocatore e analista.
È di qualche giorno fa l’annuncio da parte di Prime Video di Kyle Lowry, navigato playmaker con ventennale esperienza tra i professionisti, come commentatore in studio per analizzare la ventura stagione NBA. Fino a qui tutto bene, se non fosse per un piccolo dettaglio: e cioè che Lowry ci gioca ancora, in NBA (nei 76ers per la precisione, con un contrattino da 3,3 milioni di dollari a stagione), trasformandosi nel primo caso al mondo di giocatore-commentatore.
Una figura ibrida, mai vista finora, che anela all’innovazione dell’intrattenimento sportivo targato NBA, sempre pronta a sperimentare nuove forme per ravvivare il prime time. Una figura, però, che assomiglia più ad un guazzabuglio confuso, una chimera pasticciata, un incrocio da laboratorio mal riuscito. E che si esporrà inevitabilmente a potenziali cortocircuiti mediatici – immaginatelo commentare in diretta TV una sua stessa prestazione – che meriterebbero un approfondimento sociologico.
Una figura così paradossale da esprimere esattamente il contrario di quello che vorrebbe: non il progresso, ma il declino inesorabile dell’NBA.
Già proprio l’NBA, la Lega egemonica per eccellenza, invidiata da tutto il mondo, la città sulla collina che così bene ha incarnato il modello americano applicato allo sport. Da qualche anno però, il vento sembra essere cambiato. Troppi tiri da tre, troppe partite inutili, troppo show ampolloso a discapito della competitività: la Lega si sta trasformando in un circo, con un conseguente calo di appeal, anche in termini di audience.
E quale soluzione migliore del continuare lo show, esasperandone la superfluità? È la società dello spettacolo, di debordiana memoria, che si allarga sempre di più abbattendo limite su limite. E allora avanti con più immagini esclusive, più interviste, ed ora addirittura un giocatore a commentare sé stesso. Ma l’impressione rimane la stessa: si sta cercando di curare il malato con la malattia. E Kyle Lowry ne è, suo malgrado, l’ennesima dimostrazione.