Renato Ciccarelli
1 articoli
Sono vecchio perché vengo da un’epoca in cui il calcio poteva essere solo un po’ ascoltato e pochissimo visto. Con la naturale conseguenza di essere per lo più immaginato. Una tortura, vero? Specie se vista con gli occhi di oggi. Una tortura che, però, un lato positivo lo presentava: era inevitabile che la cronaca, soprattutto per noi ragazzini, si risolvesse rapidamente in mito.
Sono vecchio perché, quando cominciai ad essere tifoso, ero troppo giovane e squattrinato per andare allo stadio, in un tempo in cui andare allo stadio era quasi l’unico modo per vedere giocare la propria squadra. Questo, unito al fatto di poterli guardare poco anche in tv, ha fatto sì che crescessi soprattutto fantasticando sulle gesta dei campioni.
Come direbbe Guccini, “chi lo dice a chi è giovane adesso” di quanto poco calcio ci venisse somministrato al tempo? Cominciamo con il dire che le partite del campionato di Serie A erano trasmesse solo per radio. È vero, questo ci permise di godere di quel meraviglioso, irripetibile coro polifonico che fu per decenni “Tutto il calcio minuto per minuto”. Sennonché, forse per non farci scialacquare nell’abbondanza, i collegamenti con i vari Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Enrico Provenzali, Ezio Luzzi, avvenivano, vai a sapere perché, solo a partire dal secondo tempo.
Con tanto di finale thrilling, dato che gli ultimi minuti fino il collegamento rimaneva solo con il campo principale; poi, stacchetto pubblicitario (con lo sponsor della trasmissione a ricordarci che se la nostra squadra del cuore aveva vinto potevamo festeggiare con Stock 84; e se aveva perso potevamo invece utilizzare lo stesso, salvifico brandy per consolarci) e infine i risultati finali da tutti i campi. Attesi spesso con quell’inevitabile appendice attaccata all’orecchio, che a lungo fu per molti di noi la radiolina a transistor.
Sono vecchio perché vedendoli i calciatori giocare poco o niente, era normale che i più bravi diventassero leggendari.
Sono vecchio perché cresciuto in un periodo in cui eravamo costretti a centellinarci il raro calcio in tv come un single malt scozzese. Ricordo ancora con quale trepidazione la domenica si aspettavano le sette di sera per vedere la sintesi di un tempo (sic!) di una partita della giornata. Mi è rimasto un ricordo indelebile di me bambino che insieme a mio fratello, sistemati nel lettone dei nostri genitori che quella sera erano usciti, ci godemmo un evento tra il favoloso e l’irripetibile: la finale di Coppa dei Campioni, come allora si chiamava, tra Milan e Benfica. Dopo essere stati bene attenti a mantenere una sorta di silenzio stampa nei confronti del mondo, dato che la partita non era neanche in diretta: giocata nel pomeriggio, fu trasmessa in differita la sera.
Sono vecchio perché vedendo i calciatori giocare poco o niente, era normale che i più bravi diventassero leggendari. Soprattutto quelli che avevano partecipato ai Mondiali, in pratica l’unica vetrina in cui poter esporre questi gioielli ai giornalisti, che poi li avrebbero fatti conoscere ai poveri tifosi affamati di notizie.
Così, le nostre bocche ragazzine, quando volevamo darci un tocco di internazionalità, si riempivano dei nomi dei fuoriclasse ungheresi Puskas, Coksis, Czibor, o del francese Just Fontaine capocannoniere di tutti i mondiali, o magari dei bicampeon brasiliani Djalma e Nilton Santos, di Didì, Vavà, Garrincha: tutta gente di cui parlavamo avendoli visti giocare al massimo pochi spezzoni.
Sono vecchio perché a me Guardiola non mi ha fregato: so bene che il falso “nueve” non l’ha inventato lui. Quando infatti volevamo darci aria di tecnici, ci mettevamo ad almanaccare sul vero ruolo di Nandòr Hidegkuti, il centravanti “arretrato” di quella mitica Ungheria che si vide scippare il mondiale dai tedeschi dopati fino ai capelli. Una cosa che, sarà stata perché in quegli anni leggevamo “I ragazzi della via Paal”, non smise mai di farci fremere di indignazione.
Non mi resta che sorridere quando si blatera di Maradona come del più grande giocatore di tutti i tempi (mentre probabilmente è solo quello che meglio è riuscito a far fruttare, in termini di popolarità e di appeal, genio e sregolatezza).
E, a proposito di grandi campioni: sono vecchio perché io Pelé l’ho visto giocare. Poco, dati i tempi, ma ho comunque potuto seguire la sua carriera mentre si compiva. E dunque non mi resta che sorridere quando si blatera di Maradona come del più grande giocatore di tutti i tempi (mentre probabilmente è solo quello che meglio è riuscito a far fruttare, in termini di popolarità e di appeal, genio e sregolatezza).
Quando si puntualizza che Messi fa spesso in una partita le cose incredibili che Maradona ha fatto in un’intera carriera, qualcuno salta su a dire che però il secondo ha vinto un Mondiale e il primo no. Per di più da solo, potendo contare su una squadra scarsa. Scarsa? Andatevela a rivedere quell’Argentina, poi ne riparliamo. Molti non saranno stati campioni, ma con la “garra” che li contraddistingueva si vincono le guerre, altro che i Mondiali. Comunque: vogliamo fare questo tipo di conti? Allora facciamoli sul serio. Così scopriremo che Pelé è e sicuramente rimarrà l’unico giocatore nella storia del calcio ad averne vinti, da protagonista naturalmente, ben tre di mondiali.
Sono vecchio perché posso confermare che sarebbero stati quattro, i mondiali vinti dal Brasile, se in Inghilterra nel ’66 non avessero fatto fuori O Rey con un piano scientemente studiato a tavolino (presidente della FIFA era l’inglese Stanley Rous e l’Inghilterra quel Mondiale lo vinse…). In ogni modo, piano o non piano, prima un arbitro permise a un killer d’oltrecortina, tale Zekev, di azzopparlo in Brasile-Bulgaria; poi, un altro consentì a Coruna e a Moraes di finire l’opera durante Portogallo-Brasile.
E sono abbastanza vecchio per smentire la balla che Pelè non si sia mai confrontato con il miglior calcio giocato sul pianeta, cioè quello europeo. Forse oggi è così, ma allora non di certo: in quegli anni i veri fenomeni stavano quasi tutti nel campionato carioca. Basta dire che erano talmente di un’altra categoria Pelè e i brasiliani che il Santos, la squadra in cui militava ‘O Rey, andava per mesi in tournée in giro per il mondo. Esattamente come facevano i Globettrotters, un dream team che riuniva i migliori tra i fenomeni che militavano nell’NBA.
Sono vecchio perché, al riguardo, conservo ancora un geloso ricordo di quando durante un’amichevole contro il Santos, il “Core de’ Roma”, il capitano Giacomino Losi, riuscì a tener testa a Pelè. E, ahimè, sono vecchio anche perché probabilmente questa cosa me la sono sognata, dato che ne ho cercato conferma su internet ma non ho trovato nessuna notizia al riguardo.
Sono vecchio perché, giovanissimo tifoso della Roma e puntero nella squadra dell’oratorio di Santa Maria Liberatrice a Testaccio, avevo una predilezione per attaccanti oggi sconosciuti ai più, come lo svedese “Raggio di Luna” Selmosson, l’argentino Pedro “Piedone” Manfredini e Paolo “Bisonte” Barison. Erano loro i miei eroi. Ma poi arrivò Lui e allora, Roma o non Roma, non ce ne fu più per nessuno. Lui divenne il mio Achille (o Enea, o Ettore, o magari Ulisse, fate voi).
Lui era Giggiriva.
Sono vecchio perché sono cinquantanni che il Cagliari ha vinto lo scudetto e io c’ero, a impazzire di gioia neanche fossi stato un pastore dell’Iglesias. E con me un nugolo di ragazzini miei amici, tutti insieme innamorati e ammaliati dallo stesso idolo. Al punto che quando c’era Roma-Cagliari, complice anche il fatto che tanto la Rometta dell’epoca era ben lontana dal lottare per lo scudetto, noi facevamo segretamente il tifo per la squadra sarda.
Di Giggiriva, nonostante che custodisse gelosamente la propria privacy, sapevamo tutto: che era nato nel ’44 a Liggiuno, vicino Varese; che, rimasto orfano presto, la sorella Fausta gli aveva fatto da madre; che all’inizio, come spesso succedeva allora, giocava a pallone e lavorava in fabbrica; che aveva una donna, di nome Gianna Tofanari della quale non sapevamo nulla, ma prendemmo anche noi ad amarla e ad ammirarla.
Soprattutto, ci impressionammo nella retina tutti i suoi gol. Alcuni davvero favolosi, come quello in rovesciata al Lanerossi Vicenza, con la gamba che sale a impattare la palla ad un’altezza siderale; o quello fatto al Milan in tuffo dal limite dell’area (non di quella piccola, che così son buoni tutti: dell’area grande). E nonostante che a marcarlo fosse Anquilletti, uno capace di vincere scudetti, coppe dei campioni e intercontinentali, mica un nanetto di Biancaneve. Un mastino d’area, uno di quei giganti del marcamento a uomo che, tanto per inquadrarli, si diceva che stavano alle calcagna dell’attaccante perfino quando andava al gabinetto.
Sono vecchio perché io c’ero quando i calciatori si limitavano tutt’al più a guadagnare bene. E dunque posso confermare che la richiesta che un compagno di squadra avrebbe un giorno avanzato a Riva, conteso all’epoca dalle migliori squadre (“Rimani un altro anno qui, così posso comprarmi la cucina nuova”) se non vera, era comunque verosimile.
Sono vecchio perché ho imparato ad essere tifoso in un’epoca in cui si parteggiava per la propria squadra: a nessuno sarebbe venuto in mente di insultare quella avversaria. Né, tanto meno, i suoi sostenitori. E dunque poteva capitare, come successe a me in una delle rare volte che rimediai i soldi per andare allo stadio, di stare in Curva Sud tranquillamente seduto accanto a un tifoso dell’altra squadra. A immaginarcelo insieme più che a vederlo, quel Roma-Inter, dato che avevamo la traversa della porta a coprirci la prospettiva di buona parte del campo. Per la cronaca: finì 4 a 3 per loro. E fu per questo che il vecchio signore interista, nell’andarsene, mi dette una pacca sulla spalla di incoraggiamento.
Sono vecchio perché a raccontarlo oggi, un simile tête-à-tête, rischio che mi dicano: “Cavolo, ma se hai vissuto un’esperienza simile, allora sei proprio vecchio!”.