Siamo cresciuti nell'epoca di Roger Federer, il più grande di tutti i tempi.
Persino lo Scriba, infine, lo ha ammesso: parliamo di Gianni Clerici, classe 1930, uno che ha avuto il privilegio di vedere, e il merito di raccontare, come nessun altro, il tennis del passato e del presente. L’altro ieri, sulle pagine di Repubblica, ha esordito così, senza una citazione filosofica o un simpatico aneddoto di vita vissuta (così ricorrenti nelle sue meravigliose divagazioni): «Federer è il più grande tennista mai esistito».È una frase che stupisce perché proferita dallo scrittore che ha esaltato le gesta di McEnroe e di Borg, che ha pubblicato una biografia della Divina Suzanne Lenglen, che ha celebrato Bill Tilden e Rod Laver e campioni di tante generazioni; proprio lui, nei suoi articoli, aveva ribadito in più occasioni l’impossibilità di individuare un GOAT (Greatest Of All Times), perché implicherebbe il confronto fra campioni nati in epoche diverse, con evidenti differenze di contesto, avversari, materiali, in continua evoluzione. E probabilmente è davvero così. Tuttavia, davanti a questo ennesimo, fantastico traguardo di Roger Federer, non si può rimanere lucidi e razionali: che tu sia un appassionato dell’ultima ora o il più grande giornalista e scrittore di tennis di sempre, non puoi non lasciarti andare a un’appassionata, estatica celebrazione.
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Oggi, 19 febbraio, a 36 anni e 185 giorni, Roger Federerè diventato il numero uno del mondo più anziano di sempre, scalzando da questo primato di longevità Andre Agassi (33 anni e 131), dopo un’assenza di 5 anni e 107 giorni, ben 14 anni e 17 giorni dopo aver raggiunto per la prima volta il vertice della classifica. Un ennesimo record che si aggiunge a quelli già innumerevoli di Roger, fra cui quello delle settimane al primo posto (302, numero destinato ad essere superato), del maggior numero di Slam vinti (20) e delle finali Major disputate (30), ma anche del prize money conquistato in carriera. L’ultimo grande traguardo non ancora raggiunto è il record di titoli vinti, che appartiene a Jimmy Connors, a quota 109, ritenuto inarrivabile fino a pochi anni fa ma non ora che Federer, da oggi a quota 97, con la vittoria dell’Atp 500 di Rotterdam, sembra a dir poco inarrestabile.
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Scrivere la storia, per l’ennesima volta
Per capire l’antefatto, facciamo un piccolo salto indietro di un circa un mese, durante gli Australian Open. Federer, campione uscente, è il più grande favorito per la vittoria finale insieme a Rafael Nadal, n. 1 del mondo e suo rivale di sempre. Tutto il mondo del tennis si chiede se i due fuoriclasse siano in grado di ripetere la loro incredibile rinascita avvenuta nel 2017, iniziata proprio con la loro finale a Melbourne: l’anno scorso Nadal e Federer si sono divisi a metà i quattro Slam stagionali e sono rimasti stabilmente alla prima e alla seconda posizione. Un autentico miracolo sportivo, aiutato dall’assenza degli altri Fab Four per problemi fisici (Djokovic, Murray ma anche Wawrinka) e dalla difficoltà dei più giovani di imporsi negli appuntamenti davvero importanti. A Melbourne Roger non gioca il suo miglior tennis, ma riesce a spuntarla e arrivare all’ultimo atto, complice un tabellone molto favorevole. Dall’altra parte Nadal, partito in modo più convincente, è costretto al ritiro al quinto set dei quarti di finale contro Marin Cilic per un problema alla gamba destra. Tra la delusione dei fan, la grande sfida fra i due acerrimi rivali non si compie, e in finale ci va il croato, che mette in grande difficoltà lo svizzero, ma cede infine 6-1 al quinto set.
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Federer conquista l’ambito 20esimo Slam e giunge a soli 155 punti dal maiorchino nel Ranking Atp. A questo punto Roger capisce di essere a un passo dalla prima posizione mondiale, a cui non si è mai avvicinato soprattutto per la sua decisione di saltare l’intera stagione su terra rossa (dominata da Nadal). Così, appena dopo la finale, telefona all’ex tennista Richard Krajicek, vincitore a Wimbledon nel 1996 e ora direttore dell’ABN AMRO World Tennis Tournament di Rotterdam, avvertendolo della possibilità di una sua partecipazione come wild card al suo torneo, che l’anno scorso aveva disertato preferendo Dubai. In cuor suo, però, Federer ha già deciso perché, pur avendo conquistato tutto, ha ancora fame: vuole ottenere i punti necessari per ritornare numero uno, anche per poche settimane, fino agli inizi di marzo, quando gli verranno sottratti i 2000 punti dei grandi Master Mille americani primaverili, Indian Wells e Miami, vinti l’anno scorso.
Il torneo Atp 500 di Rotterdam, nato nel 1972 e giocato prima su sintetico e poi su cemento indoor, vanta un albo d’oro prestigioso, ma negli ultimi anni è un po’ decaduto e talvolta disertato dai più grandi. Quest’anno però, i riflettori di tutto il mondo vengono puntati sull’evento olandese, che desta forse più interesse di un Master 1000, quasi come uno Slam. Curiosamente il match più atteso non è la finale, ma il match dei quarti, in programma il 16 febbraio, la cui vittoria gli garantirebbe i punti necessari per tornare numero uno. Anche Federer, che ha già vinto Rotterdam due volte in otto partecipazioni, non nasconde il suo vero obiettivo:
“Se nel 2016 mi avessero detto che avrei vinto uno Slam, non so se ci avrei creduto. Dopo la sconfitta alle Atp Finals 2017, credevo di non avere più chance per diventare n. 1. Ora ne ho vinti ben tre e sono molto vicino a tornare numero uno del mondo. Tutto questo è un sogno, ma farò di tutto perché si avveri”. (Roger Federer, conferenza stampa pre-torneo)
Seguendo la logica del tabellone, l’avversario più probabile di Roger ai quarti è Stan Wawrinka: amico di lunga data e compagno di Coppa Davis, con il quale nel 2008, alle Olimpiadi di Pechino, riuscì a conquistare la loro prima (e, per ora, unica) medaglia d’oro. Il campione di Losanna però, da poco rientrato dopo l’intervento al ginocchio, cede in tre set al giovane Carneade di casa Tallon Griekspoor, vera rivelazione del torneo, vanificando le speranze di un romantico derby elvetico. Dal canto suo, Roger polverizza il primo avversario, il malcapitato 30enne belga Ruben Bemelmans, chiudendo in appena 46 minuti. Vista la caratura dei suoi avversari prima della semifinale, il raggiungimento del n. 1 sembra ormai scontato, eppure Roger è molto distante dal suo massimo livello, commette qualche errore di troppo e paga, forse, l’inevitabile tensione prima del traguardo: con il tedesco Philipp Kohlschreiber, altro virtuoso del rovescio a una mano, lotta in entrambi i set ma riesce a scamparla per pochi punti con autorità e prontezza.
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Arriva il grande giorno, il 16 febbraio: dall’altra parte c’è il tennista di casa Robin Haase, che entra in campo con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere e riesce a fare suo il primo parziale. Federer, un po’ nervoso e distratto, ritrova il suo tennis all’inizio del secondo, per poi dilagare nel terzo, chiudendo con un doppio 6-1. Dopo il match-point finale Roger alza le braccia al cielo, concedendosi qualche lacrima di gioia dopo quelle versate poche settimane prima sulla Rod Laver Arena di Melbourne. Roger Federer per le statistiche è di nuovo numero uno, anche se per molti – da tre lustri a questa parte – lo è sempre stato. Ma per uno che ha dominato la storia del tennis ritrovarsi primo nel Ranking ufficiale dell’Atp World Tour suona come una ulteriore conferma della sua definitiva rinascita, di una ennesima consacrazione. Non del tutto appagato, il giorno dopo, Federer ha superato anche la difficile sfida successiva contro il nostro Andreas Seppi, per poi dominare ieri in finale contro un malconcio Grigor Dimitrov. Il 97° titolo, il terzo trofeo a Rotterdam, appare però una sorta di parentesi, come una festa dentro la festa per un campione che non ha più bisogno di dimostrare la sua grandezza, e che tuttavia continua incessantemente a farlo.
Che altro dire di Roger Federer, se non ripetere ciò che molti hanno già detto? Ogni anno che passa è sempre più difficile trovare altre forme di celebrazione, perché dopo ogni risultato raggiunto, dopo ogni record infranto, quando si ha la sensazione che il suo livello di grandezza sia ormai insuperabile, egli ci smentisce ancora una volta superando se stesso, aggiungendo un altro tangibile tassello alla sua carriera stellare. Quante volte noi giornalisti gli abbiamo dedicato commossi De Profundis? A memoria, i primi poemetti pieni di ringraziamenti e amari presagi risalgono al 2009, dopo la finale degli Australian Open allora persa contro Rafa Nadal e quel pianto struggente (di delusione, però) che seguì la cerimonia di premiazione. Li abbiamo scritti durante il dominio di Novak Djokovic, nel 2011, e poi due anni dopo, in quel 2013 – vero annus horribilis di Roger – in cui quasi gli avevamo rimproverato di non aver chiuso la sua già fantastica carriera dopo la vittoria a Wimbledon dell’anno prima, il diciassettesimo Slam che già molti avevano salutato come il suo canto del cigno. Quanti epitaffi melensi, infine, nel 2016, dopo il lunghissimo stop per il problema al ginocchio che lo tenne fuori dalle competizioni da Wimbledon in poi. Tutte le volte Federer ci ha smentito, è risorto come Fenice dalle sue stesse ceneri, ha stupito il mondo con le sue gesta e abbattuto puntualmente i limiti che, prima di lui, separavano l’umano dal divino.
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L’aura di leggenda che porta con sé il nome, il volto ed il tennis di Roger Federer oggi è unica, paragonabile nella storia dello sport forse solo a quella di Michael Jordan. «Odio quando la gente paragona Roger a Dio. Lui è grande ma non è Federer», ha twittato ieri in modo scherzoso ma non troppo il grande Paolo Bertolucci, citando un anonimo tifoso svizzero. Forse scomodare gli déi è troppo, ma non è fuori luogo una similitudine con Prometeo, eroe tracotante che osò scalare l’Olimpo per rubare il fuoco a beneficio dell’umanità. Contrariamente algreco, Federer ha scalato l’Olimpo non una, ma numerose volte. Mai pago, mai domo, con l’ambizione tipica dei grandi uomini, ha cercato sempre nuove cime da conquistare là dove altri non vedevano che il cielo. A noi comuni mortali non il fuoco ha donato, ma la mirabile visione del suo tennis: un capolavoro irripetibile che ha illuminato il nostro sport.
Dodici anni fa David Foster Wallace definiva così le magiche prodezze del Re svizzero. Nel 2017 mister 18 Slam è tornato, vincendo i primi tre più importanti tornei della stagione e sconfiggendo la sua nemesi di sempre, Rafael Nadal.