Sì, tifare. Dolcemente viaggiare | Ep. III/IV
Narra la leggenda (Plutarco, Detti memorabili, 225c) che lo spartano Leonida, trovatosi di fronte allo sterminato esercito persiano che aveva bloccato il passaggio delle Termopili, intimato dal nemico di arrendersi e consegnare le armi per evitare l’inevitabile strage, rispose: molòn labé, «vieni a prenderle». Qualcuno, dal basso della sua comoda e calda cattedra, a distanza di più di venticinque secoli, avrebbe osato parlare di «suicidio», scambiando il calcolo con la virtù, che però non teme la fredda nettezza dei giudizi a posteriori.
Leonida, con la semplice maestosità della parola, aveva rinfrancato un esercito di 300 uomini, in grado di resistere a migliaia di nemici, quasi intimoriti dalla grandezza che il generale aveva infuso ai suoi.
Qualcosa del genere deve accadere, nell’animo ribollente di tifo, a chi popola il settore ospiti in trasferta. Non sempre, qui, il generale – impropriamente identificato col “capo ultrà”, se è vero che il “capo” al singolare è una figura sempre più rara; sarebbe più opportuno parlare di “capi” – riscuote lo stesso successo, non sempre gli ideali dell’uno entrano nelle viscere degli altri.
Spesso il rimando tra quello e questi è simbolico in un senso profondo. Ad un primo livello, le parole del capo ultrà, innanzitutto e per lo più, rimandano al modo bellico d’intendere il tifo: “dopo la partita, rimanete sempre vicini a noi. Qualsiasi cosa accada, rimanete insieme a noi”.
Qualcuno bofonchia, sbuffando più o meno esplicitamente: “che mitomani”. Qualcun altro, più saggio, lo ammonisce: “se succede qualcosa, non dire che non eri stato avvertito”.
Ad un secondo livello, però, le parole sono causa concreta di un’energia che, se sprigionata, può davvero trasformare anche il più diligente ed educato dei tifosi in un pericoloso teppista. Esattamente come il fumo d’un fuoco spento si fonde all’eco scricchiolante del proprio ardore sopito, ma sempre pronto ad essere nuovamente aizzato . . .