Michael Owen, classe ’79, è il tipico giocatore per cui la rapidità è sempre valsa molto, e a tratti tutto. Quasi che fosse dominato dalla perenne ansia di arrivare prima. Prima all’esordio, prima sul pallone, prima in ogni record da battere. Se ci si ferma al dato anatomico, questa tensione allo scatto appare ancor più sorprendente: non particolarmente alto, impostato com’è su due ampie spalle e un tronco solido, il giovane Michael non è esattamente lo stereotipo della folgore. E a diciott’anni, col viso tondo e le guance glabre, il taglio corto e un ciuffo accennato sulla fronte, non mette certo in mostra un physique du rôle da capocannoniere della Premier.
Eppure quando gioca a pallone sembra sempre in procinto di balzare come uno stambecco. Istintivo ma aggraziato, capace di precipitarsi sul punto esatto dove cadrà la palla ancor prima che gli altri ne abbiano intuito la traiettoria.
In un certo senso questa dissonanza tra parvenza e realtà, tra species fisica e res realizzativa, non può che lasciare basito chi non lo abbia mai visto prima in azione. E forse anche Ayala, Vivas e Chamot – titolari della nazionale argentina al mondiale del 1998 – avranno avuto la stessa confusa impressione passandogli a fianco, lungo il tunnel che al “Geoffroy-Guichard” di Saint-Étienne collega gli spogliatoi al rettangolo di gioco. Goleador, quello lì? Mah…
Owen in azione contro la Roma in Coppa UEFA 2000/01
È il 30 giugno. Siamo alla Coppa del Mondo di Francia, e agli Ottavi si inscena l’ennesimo atto di una sfida che trascina con sé screzi di lunga data: Argentina e Inghilterra, ancora una volta, ostinatamente contro. Le due compagini sono da sempre divise in tutto, dentro e fuori dal campo. Arci-rivali prima per il robo del siglo del ’66 (espressione esasperata – tutta sudamericana – di un’espulsione dubbia a vantaggio degli inglesi), poi per la contesa di un arcipelago sperduto nell’Atlantico, e infine per via di alcune divergenze teologiche sul tocco di mano di Diego: era il gesto michelangiolesco di Maradona, Città del Messico, il 1986.
Dodici anni dopo le acerrime rivali si giocano quella sera l’accesso al turno successivo, con due formazioni che, a leggerle oggi, un po’ trema la lingua: Veron, Almeyda, Batistuta da un lato; Campbell, Beckham, Shearer dall’altro. Probabilmente i più giovani che quel giorno si collegano dalla Pampa e dalle Midlands non hanno poi così chiare le origini del loro odio reciproco. È uno di quei sentimenti, l’odio, che spesso si accontenta di pretesti. Le motivazioni fondate? A quelli bravi, al diavolo e al senno di poi.