Critica
13 Maggio 2025

Perché ci siamo innamorati del calcio

E perché ce ne stiamo disamorando.

«Chissà dove starà passando il Capodanno Toninho Cerezo. Secondo me a casa, perché è un professionista». Dietro una delle più celebri battute di Vacanze di Natale (1983, regia di Carlo Vanzina) si cela una stramba verità, che lo scorrere del tempo ha lentamente portato alla luce, come un antico relitto riemerso dalle profondità del mare: ci siamo innamorati del calcio grazie ai calciatori. Una tautologia che i ragazzi d’oggi – uniformati impropriamente sotto il timbro statistico della “Generazione Z” – devono riscoprire.

Il grande interrogativo su Cerezo che Luca Covelli (interpretato da Marco Urbinati) si pone allo scoccare del 1984, infatti, è diretto ad un calciatore – neanche il migliore di quella Roma – e ai suoi destini, che il tifoso, condividendone la maglia, avverte propri. Riuscite ad immaginarvi la stessa battuta oggi? Probabilmente avremmo un Covelli mourinhano, adoratore di Sua Maestà José, un grande allenatore, ma pur sempre “solo” un allenatore, in assenza di grandiosi uomini-calciatori da venerare.



Non solo per colpa loro, s’intende. Un calcio che sacrifica il talento individuale per l’organizzazione collettiva non può che santificare gli allenatori e creare – di rimando, fin dai settori giovanili – calciatori automi. Il paradosso del calcio contemporaneo sta tutto qui: esso cerca di riguadagnare il tempo – e quindi i soldi – di quella Gen Z che inquadra nella cornice nerd dei social, dei telefonini e delle serie tv proponendogli uno sport sempre più statistico, specioso e piatto. Ma il segreto del calcio sta proprio nella semplicità: basterebbe rimettere al centro il talento dei calciatori, dando molto meno peso alla tattica, agli expected-goals e agli algoritmi, per avere un calcio più divertente e imprevedibile soprattutto.

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