Ci si dimentica troppo spesso di ringraziare gli dèi del pallone. La penna di Gianni Brera partorisce un vocabolo specifico per sintetizzarli tutti in una sola divinità: Eupalla, la dea che presiede alle vicende del calcio ma soprattutto del bel gioco (dal greco eu, «bene»). Divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi. Dimitar Berbatov è senza dubbio nel novero degli assistiti.
La sua grande passione è la Premier League. Gira un po’ ovunque, in Europa. Non approda mai in Italia, sfiorando la penisola sotto le ipotesi di Juventus e Fiorentina. Inizia a farsi un nome nella squadra che tifa sin da piccolo, il CSKA Sofia. Ma litiga coi tifosi, e deve lasciare il club bulgaro. La madre di Berbatov vede in questo evento il punto più basso della sua carriera. Le origini sono tutto. Si trasferisce così al Bayer Leverkusen. Con le Aspirine perde la finale di Champions League, competizione per lui maledetta – è costretto ad accettare, da casa, non convocato per la sfida, anche la sconfitta contro il Barcellona (3-1) di Pep Guardiola, quando veste la maglia del Manchester United (nel 2011).
Con i Red Devils Berbatov vive forse il miglior momento della sua carriera, ma siamo nel campo delle interpretazioni. Gioca infatti, e molto bene, anche nel Nord di Londra, in maglia Spurs, per un biennio (2006-2008), siglando 27 reti in 70 partite di campionato. Prepariamoci subito a buttare a mare i numeri, aborti delle madri statistiche. Non siamo nel Basket, grazie a Dio. Berbatov abbandona l’Inghilterra dopo la fugace esperienza al Fulham. Vola in Francia, dove prima Ranieri, poi Jardim, lo allenano in terra monegasca. Berbatov passa al PAOK, in Grecia, e chiude la carriera in India, al Kerala Blasters.
Non è facile raccontare l’unicità di Dimitar Berbatov. La sua comparsa sulla scena non ha eguali nella storia del calcio. C’è chi prova, ancora oggi, ad accostarlo a varie – peraltro sensazionali – figure di questo sport, senza troppo successo. In lui si ritrova qualcosa di Zidane – il mattatore della finale col Leverkusen di cui sopra, tra l’altro – e qualcosa di Eric Cantona. Ma lo splendore di queste due figure, amori non perduti, rischia di coprire il già cupo sentiero tracciato dal talento bulgaro. Quella di Berbatov è un’oscura luminosità. Spesso gli amori del calcio si perdono per poca continuità, testa tra le nuvole, pigrizia eccessiva e, perché no, per una buona dose di stupidità.
Niente di tutto questo riguarda il fascio di luce che Berbatov, dal CSKA fino al Kerala, lascia sulla via lattea del Football. Qui non si tratta di “discontinuità” o di scarsa “professionalità”. Berbatov lo afferma senza troppi problemi, credendo di essere nel giusto: i compagni non mi seguono col pensiero. La sua non è un’affermazione spocchiosa, ma è il dispiegarsi di una verità che lo stesso Sir Alex Ferguson, scozzese tutto d’un pezzo, ammette senza troppi patemi:
«he displayed the ability of Eric Cantona or Teddy Sheringham: not lightning quick, but he could lift his head and make a creative pass».
Rimane il fatto che, insieme a Nani, Giggs, Tevez e Rooney, Berbatov compone uno dei reparti offensivi più forti di sempre nella longeva storia dei Red Devils. Tanto è cambiato dall’addio di Berbatov in casa United. Tutto. Un talento così, da quelle parti, non s’è più visto.
È Martin Jol, suo tecnico al Fulham, a riuscire nella difficile impresa di sintetizzare il leggendario first touch del bulgaro: «everything he seemed to pluck out of the sky, everything seemed to die on his toe». Quel che cade dal cielo, Berbatov lo fa morire sulla punta del proprio scarpino destro. Con una morbidezza e una nonchalance che vengono da un’altra dimensione. La sua giocata contro il West Ham, celebre nella sua assurdità, consacra quella frazione di campo dell’Old Trafford al tempo morto della giocata irripetibile, spezzando un incantesimo che, consumatosi in quella stessa zona di campo, resisteva dal taconazo di Redondo.
La giocata senza senso contro il West Ham
L’amore di Berbatov per il Football è perduto. Perduto per sempre, sepolto dal rumore dei balbettii giornalistici, dei perenni detrattori del bello: manco a dire che Berbatov non unisse, al dilettevole, l’utile. I suoi numeri, per dirla con l’intraducibile lessico inglese, sono pretty decent, come anche lo sono i suoi successi nazionali ed internazionali. È solo che voler definire Berbatov – sia pure soltanto a livello estetico – equivale, parafrasando Santo Girolamo, a voler catturare un’anguilla: più la si spreme, più sfugge alla nostra presa.
«You have to be gentle with the ball like you are gentle with a woman», riportiamo dal Vangelo secondo Berbatov. Questo bulgaro tutt’altro che burbero, che si porta la Bibbia ovunque vada, si fa erede di una tradizione non-scritta, quella degli Amori Perduti, calcando il rettangolo verde senza calcarlo davvero, posandovi sopra, piuttosto, come sospeso su una nuvola invisibile. Se fate attenzione, Berbatov non scava mai davvero il suolo coi tacchetti. Il suo “calcare” è illusorio. Quasi sulle punte, da uno stop volante a un taglio di campo d’esterno piede, Berbatov gioca il pallone come pochi altri.
«Chacun porte sa croix, moi je porte une plume».
Il colpo di testa, che dovrebbe essere una delle sue armi migliori, è sacrificato alla bellezza della rovesciata, più volte esibita in carriera. Allo stop di petto, rude ma efficace, preferisce lo stop di coscia o di suola. La sua andatura, leggermente incurvata, ricorda quella di un grizzly dai piedi d’oro. La sua visione di gioco non è orizzontale ma verticale. Qualcosa di Zidane, qualcosa di Cantona. Qualcosa in meno, e qualcosa in più, di entrambi.
Il 19 settembre del 2010 è la data che lo consacra anzitempo alla nostra rubrica. Si gioca il Derby inglese per eccellenza, Manchester United v Liverpool. Si gioca ad Old Trafford. La regia posa a lungo su Berbatov all’entrata in campo delle due squadre, come colta da uno strano presentimento. Qualcosa di speciale sta per accadere. Berbatov segnerà una tripletta contro i rivali di sempre. A nulla servirà una splendida doppietta di Steven Gerrard. Il bulgaro segnerà due gol di testa – quello del 3-2 è elegante persino nella sua durezza – e uno di rovesciata. Oggi Berbatov dedica il suo tempo alla moda e all’estetica. Come se non lo avesse mai fatto.