Vincenzo Corrado
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Ognuno ha le leggende che si merita, forse. O magari è solo che a volte gli italiani si distraggono giusto qualche decennio e poi si accorgono troppo tardi che la Storia gli è passata sotto il naso. Pizzoferrato, paese di montagna di poco più di mille anime, provincia di Chieti. Sono tempi duri, anzi durissimi, tra la tanta fame e l’oppressione nazifascista. Un quindicenne gracilino parte insieme alla madre per gli Stati Uniti: il capofamiglia è già negli States, dove ha gettato le basi per un futuro dignitoso in cui la parlata abruzzese e l’americano (non l’inglese, of course) si mischiano che è un piacere. C’è fame ma anche dignità, difficoltà giornaliere da sconfiggere a colpi di straordinari in fabbrica. Sembra una storia come tante, di valigie di cartone, di quando gli emigrati eravamo noi.
E invece è l’inizio di una vicenda speciale, è il primo capitolo dell’ascesa del più grande italiano di cui sappiamo troppo poco.
Ad esempio ai più sfugge che nessuno né prima né dopo di lui è riuscito a far registrare il tutto esaurito in un palazzetto dello sport discretamente famoso chiamato Madison Square Garden. Per chi è appassionato di numeri, stiamo parlando di 188 soldout contro i 44 del secondo in questa speciale classifica. Il protagonista di questa storia è Bruno Sammartino, per decenni una leggenda vivente e dal 18 aprile 2018, dopo essersi spento per cause naturali all’età di 82 anni a Pittsburgh, Pennsylvania, una leggenda e basta. Di mestiere faceva il wrestler ed è considerato in maniera unanime il più grande di tutti i tempi della sua disciplina.
Sempre per i feticisti delle cifre di cui sopra, un altro dato fuori da ogni logica è il numero di giorni in cui Sammartino è rimasto campione della più famosa federazione di wrestling del mondo, la WWWF (oggi WWE – World Wrestling Entertainment): 4.040. Nessuno come lui. Sammartino, lo Stallone Italiano, rappresentava l’immagine del ragazzo perbene che ce l’aveva fatta, che sul ring eliminava no dopo l’altro i cattivi di turno: Killer Kowalki, Gorilla Monsoon, George “The Animal” fino a Larry Zbysco, l’allievo che osò sfidare il maestro. Sammartino è stato il numero uno della WWE nella categoria pesi massimi, lui che era alto un metro e 78 e nella sua carriera oscillò tra i 111 e i 129 chili.
“Da bambino ero molto magro, in Abruzzo i medici parlavano di polmonite. Poi, quando sono arrivato in America gli specialisti hanno capito che si trattava di febbre reumatica. Oltre alle cure, per rinforzarmi ho iniziato a fare i pesi, a scuola inoltre praticavo la lotta. In poco tempo mi sono ritrovato a fare allenamenti sei giorni su sette. La mia carriera di fatto è iniziata lì, grazie a una malattia“.
Nell’agosto del 1987, dopo tre decenni di successi e una carriera irripetibile, l’eroe dei due mondi passò idealmente il testimone a colui che nei fatti diventò il suo erede, Hulk Hogan. I due fecero coppia in un incontro che – manco a dirlo – vinsero. A Sammartino, però, non piaceva il nuovo modo di sceneggiare i match, con meno azione e più parole, ma anche l’invasione di droghe e sostanze illecite. Diventato commentatore televisivo, aveva ingaggiato una dura battaglia contro i vertici della Federazione, ricomposta solo nel 2013. «Era una delle persone migliori che abbia mai conosciuto, nella vita e nel lavoro – disse di lui Vince McMahon, il presidente della WWE – Ha dimostrato che con l’impegno e il duro lavoro si possono superare anche le circostanze più difficili. Ci mancherà».
L’attuale crisi del wrestling in Italia, dopo alcuni periodi in cui la disciplina ha avuto un ottimo riscontro, nasce da un malinteso, che probabilmente è lo stesso che ha fatto perdere le tracce di Sammartino nella memoria collettiva: la maggior parte delle persone non si lascia nemmeno incuriosire dagli incontri perché “sono finti”. Ma non è proprio così. Infatti il wrestling, che è uno sport-intrattenimento, è predeterminato nel risultato ma non per questo una baracconata. I lottatori sono atleti straordinari, capaci di azioni spettacolari e mosse che lasciano senza fiato.
«Poco prima di diventare un lottatore professionista, lavoravo come manovale. In quel periodo stavamo costruendo un grande edificio a Pittsburgh. Nonostante fossi uno degli operai più giovani, chiamavano sempre me quando c’era da spostare del materiale molto pesante: avevo una forza fuori dal normale. Guadagnavo due dollari l’ora. Un giorno in cantiere arrivò un tizio che mi offrì di sfidare un orango-tango: se avessi resistito per cinque minuti, avrei guadagnato 50 dollari. Accettai subito. Dopo un quarto d’ora ero stremato, l’orango mi stava colpendo continuamente alla faccia. A un certo punto mi alzai, gli diedi un pugno allo stomaco con tutta la forza che mi era rimasta in corpo: lui andò ko e io tornai a casa con una cifra enorme per l’epoca».
La WWE, la federazione che fu di Bruno Sammartino, è una multinazionale miliardaria che trasmette i propri show in tutto il mondo. L’evento più importante dell’anno, Wrestlemania, è tra i più seguiti del pianeta e per fatturato è dietro soltanto a quattro o cinque avvenimenti sportivi (la classifica varia di anno in anno) come i mondiali di calcio e il Super Bowl. Al netto del giudizio che si può dare sul wrestling, resta il fatto che Sammartino è uno degli sportivi italiani più apprezzati nel mondo. Per intere generazioni ha rappresentato un modello da seguire, la realizzazione del sogno americano. Durante i suoi incontri a New York veniva incitato da migliaia di persone arrivate in quella terra dall’Italia, dal Messico, dall’Irlanda, dal Sud America, dall’Olanda e da chissà quanti altri luoghi.
Bruno è stato un esempio di forza sul ring, un uomo e un immigrato benvoluto e rispettato. Impegno, dedizione e amore per la disciplina sono i tre termini di un climax che lo hanno reso immortale. «Ai miei primi incontri il pubblico era formato soprattutto da emigrati: greci, spagnoli, tanti italiani. Si rivedevano in me, nella mia storia. Ero uno come loro, uno che lottava. A vedermi combattere venivano talmente tante persone che anche gli americani dovettero accettare il fatto che Bruno Sammartino era diventato qualcuno. Una volta al mese riempivo il Madison Square Garden, ventiduemila spettatori paganti, ma io non ho mai dimenticato da dove vengo.
Per questo sono stato molto contento quando mi hanno invitato a Pizzoferrato per l’inaugurazione della statua che mi hanno dedicato».
Non ha mai dimenticato le sue origini, Bruno. Nel 2011 prese parte, come ospite speciale, a uno show della Adriatic Wrestling League (AWL), minuscola federazione abruzzese; è salito sul ring ripercorrendo i suoi primi anni di carriera, quando per mettere al tappeto una grave malattia che ne minava lo sviluppo fisico, era riuscito ad allenarsi nella lotta olimpica e nel sollevamento pesi fino a diventare un lottatore professionista. Un sopravvissuto, grazie allo sport.
Durante il resto dello spettacolo si è seduto a bordo ring per osservare tutti i match, incitando i giovani combattenti, perché in fondo per gente come Bruno Sammartino lo sport non è altro che un’infinita staffetta tra chi ha già dato e chi deve ancora dimostrare di meritare il rispetto dei tifosi. Nel 2013 lo Stallone Italiano è stato introdotto nella hall of fame della WWE dal suo amico fraterno Arnold Schwarzenegger; poche settimane prima aveva ricevuto le chiavi della città di Jersey City, New Jersey e a maggio era stato dichiarato il “Bruno Sammartino Day” ad Allegheny County, Pennsylvania. In Italia a lui è dedicata soltanto una statua, a Pizzoferrato, il paese natale in cui volle tornare, commosso e travolto dai ricordi, pochi mesi prima di morire.