Come Roger Federer ha vinto Indian Wells, confermandosi il più forte del 2017. Come ha portato alle lacrime il valoroso Stan Wawrinka, l'eterno secondo svizzero vissuto due volte.
Stan Wawrinka è pronto a battere. Si posiziona dietro la riga, nella sua metà sinistra del campo. Uno sguardo furtivo oltre la rete, poi scocca la freccia. La pallina, così profonda da sembrare out, è destinata al rovescio dell’avversario; vorrebbe sorprenderlo, ma non ci riesce. Roger ha già intuito la direzione e prepara la risposta: tende gamba sinistra e braccio destro verso il missile giallo in arrivo, mentre la gamba destra è ben piantata a terra. Il volto, tutto indirizzato alla meta, giunge come un’impressione al tarchiatello Stan, in evidente affanno. In quella posa, l’avversario sembra Mercurio, il messaggero degli dei, ma pare non accorgersene. Quei gesti sono così naturali e spensierati da essere mandati giù a memoria, come le filastrocche delle elementari. La sua Wilson rispedisce tutto al mittente. Il punto durerà ancora un paio di scambi, ma già si sa chi lo porterà a casa. Un dritto non convinto di Wawrinka si arrende poi alla rete: 15 pari.
Siamo all’ultimo game della finale del singolare maschile di Indian Wells, domenica 19 marzo. È un trionfo svizzero dovunque lo si guardi: Roger Federer e Stan Wawrinka sono i sopravvissuti di questa settimana californiana, rispettivamente con le teste di serie numero 9 e 3. Strano a dirsi, ma è Stan a dimorare all’attico. Che strana carriera, la sua. Fino a 29 anni era un onesto mestierante della racchetta con qualche bel ricordo di gioventù (un Roland Garros formato juniores) e l’ombra del ritiro sempre più vicina; poi, l’ascesa al potere. Australian Open, Roland Garros (questa volta formato maxi) e U.S. Open: uno Slam all’anno dal 2014 in avanti, avendo come avversario in finale sempre il numero 1 del momento. Cabala vuole che questo sia l’anno di Wimbledon: chi vivrà vedrà. Classe operaia in paradiso, verrebbe da dire. Il re degli underdog ha finalmente trovato la sua dimensione. Ma Roger resta sempre Roger. Molto unisce i due tennisti, non solo la nazionalità: insieme hanno contribuito alla storica vittoria in Coppa Davis della Svizzera nel 2014 e nel 2008 si sono regalati un oro olimpico nel doppio. Per giunta, sono entrambi romantici. Superstiti del rovescio a una mano che fa molto vecchia scuola, visti da vicino ricordano un po’ Dylan e Springsteen, dove il secondo ha declinato in forma operaia ciò che il primo ha cantato dall’alto dei cieli. Se Federer è il re, Wawrinka è Clopin, il re buffone cantore di gesta altrui, un predicatore alla portata di tutti. Le diversità fra i due emergono nel percorso fatto per arrivare in finale. Roger in sei partite non mai perso un set e ha lasciato per strada giusto 36 game. Certo, di mezzo c’è anche il walk-over contro Nick Kyrgios – fermato da un’intossicazione alimentare- ma non per questo l’impresa è meno strabiliante. Emblematica la sfida con l’eterno rivale Rafa Nadal, valida per l’accesso ai quarti di finale: un 6-2 6-3 che ha trafitto come burro le aspettative dello spagnolo e degli spettatori smaniosi di un match al cardiopalma. L’unico incontro in cui Federer ha trovato qualche difficoltà è stato quello del terzo turno contro Steve Johnson, un tennista americano non più giovanissimo che gravita intorno alla trentesima posizione nel ranking. Secondo i pronostici, il menù prevedeva una sfida contro Djokovic ai quarti di finale, ma così non è stato. Il sopracitato Kyrgios, diavoletto della Tasmania, ha fatto fare valigia al serbo campione in carica da tre anni. Nole l’ha talmente presa male che non parteciperà a Miami, dando a tutti l’appuntamento per la stagione sul rosso. Stessa sorte è toccata a Murray, sempre più somigliante a Giovanni Senzaterra da quando è numero 1. Anche lui è salpato verso altri lidi.
Il vincitore e lo sconfitto al Bnp Paribas Open di Indian Wells
Wawrinka è arrivato in finale a modo suo: un po’ in sordina, un po’ tra il serio e il faceto, ma letale. Dopo due turni agili contro Lorenzi e Kohlschreiber (altra cariatide che ancora si diverte sul campo da gioco), sono arrivate le prove più impegnative. Si può dire che Stan abbia affrontato gli spettri dei natali futuri e ne sia uscito vincitore: le sfide contro le promesse Nishioka e Thiem si sono risolte con un tie-break al terzo set, al termine di due partite giocate sul filo dell’equilibrio. Ma come sempre, una volta ingranata la marcia, il diesel Stan non ha lasciato sconti a nessuno. In semifinale ha fatto un solo boccone della rivelazione del torneo Carreño Busta ed è approdato così all’ultimo scoglio. Di solito quando va fino in fondo non manca mai il bersaglio. Da quando poi ha deciso che vincere non era così male, ha perso una sola finale, l’anno scorso a San Pietroburgo contro Alexander Zverev, altra giovane promessa dell’ATP. Se non ci fosse stato Roger probabilmente anche questa volta l’avrebbe fatta franca. Stan conosce tutti e a tutti si adatta: lotta, soffre, travolge. Si finisce col fare il tifo per lui, anche se magari stai dall’altra parte della rete. Demolisce l’avversario col sorriso, con la sua storia, con quell’aria da Rocky scanzonato. È l’uomo barbuto del “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo: all’apparenza solo, ma in realtà dietro ha una massa silenziosa.
Ma con Roger è diverso. Già a Melbourne, nel mese di gennaio, si era trovato in imbarazzo a giocare contro l’amico, il compagno di una vita. Tra il sole australiano e quello di Indian Wells la differenza non è poi molta. Una partita lineare, pulita, senza troppi fronzoli porta piano piano Federer alla vittoria. È sereno e non potrebbe essere altrimenti: i critici da mesi hanno le penne asciutte. Vola da una parte all’altra del campo con i sandali di Mercurio; Stan, solitario, scava poco a poco la sua trincea. Se guardiamo le loro schede anagrafiche non notiamo molta differenza: stessa altezza, stesso peso (anzi, Roger ha qualche chiletto in più) eppure sul campo si ha completamente un’altra impressione. Wawrinka è tozzo, quadrato, con un filo di pancetta che fuoriesce dalla maglia azzurro anice a strisce rosa. Federer è asciutto, elegante: una “l” che a una prima vista può confondersi con la cifra “1”, ma in tal caso il lapsus non sarebbe sanzionato. Nell’ultimo game Stan è avanti 40-30: un dritto lungolinea di Roger un po’ troppo osé gli regala una briciola di vantaggio. È alla battuta, ma sta sudando come non mai. Una smorfia spunta tra la barba ispida, segno di disagio. Di lì a poco restituisce il favore: esagera con il top spin e manda fuori una palla facile. Non pago, sbaglia per la seconda volta mandando un rovescio sulla rete. Federer ha così la possibilità di porre fine alla partita: sarà la prima e unica volta. Stan corre a destra e a sinistra, Roger indirizza i colpi quasi da fermo. L’ultimo punto è una stupenda volée di diritto eseguita in corsa. Il re è andato a prendersi la sua vittoria. Durante la premiazione c’è spazio solo per i sorrisi e le lacrime liberatorie. Il primo a parlare è Stan, stremato e commosso: vede l’amico ridere e gli dà del coglione, con quel fare un po’ rude e un po’ impacciato che lo contraddistingue. Aggiunge poi che in Australia era stato il suo primo fan e gli porge le sue congratulazioni. Roger, in attesa del microfono, sorride spensierato: il sole, da Melbourne a Indian Wells, non è più tramontato.
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