La mutazione di immaginario delle curve è quella della società.
Il mondo ultras, lo abbiamo ripetuto fino allo sfinimento, è uno specchio fedele della società. O almeno di una sua grande parte. Spesso è addirittura, passivamente e attivamente, un incubatore di processi che poi si manifesteranno altrove: passivamente, quando diventa un laboratorio per esperimenti sociali, un campione di umanità sul quale calibrare nuove misure repressive e di controllo; attivamente, quando sui gradoni riesce a produrre nuove sintesi che, con il tempo tempo, troveranno sfogo in altri ambiti.
Per questo il movimento ultras ci fornisce chiare indicazioni sui mutamenti della società; a livello di estetica, di immaginario, di politica nel senso lato del termine. Non è un caso allora che, negli ultimi anni e decenni, questo mondo si sia gradualmente spostato a “destra” – useremo le tradizionali categorie di destra e sinistra per necessità di semplificazione, per quanto chi scrive le ritenga profondamente superate.
L’abbandono delle curve è quello delle periferie
Le curve si riposizionano come le opinioni pubbliche, ma ancor di più le classi lavoratrici, della gran parte d’Occidente. L’arretramento della “sinistra” nelle periferie è quello nelle curve, e affonda le radici nell’insufficienza ontologica di un certo mondo di rapportarsi con il tema dell’identità e del radicamento. Identità che è stata condannata in tutte le sue declinazioni, lasciata alla “destra” come un retaggio antico di cui liberarsi, per cui quella odierna – come ripetuto tante volte altrove – non è più la sinistra rivoluzionaria di Che Guevara, o Patria o morte, né quella marxista-leninista dei movimenti extra-parlamentari, e neppure quella d’ordine del PCI, che nei suoi manifesti rivendicava l’importanza di strutture sociali fondamentali come la famiglia e la Nazione.
Questa è una sinistra sradicata, fluida, decostruzionista. Intellettuale nel senso che alla realtà dell’’io sono – un soggetto sociale, inscritto in una certa tradizione – ha sostituito la percezione dell’io mi sento – un soggetto culturale, che non risente di una identità ma se la crea.
Presupposti incompatibili con il radicamento in un luogo e con la sua difesa. Quello del legame forte e quasi simbiotico con la propria terra, storia e tradizione, è d’altronde un tema filosofico da sempre, fin dall’antica Grecia. Il radicamento consente il rapporto con il sacro, dischiude un mondo di simboli e valori condivisi, rappresenta un freno a quelle ideologie disgreganti che, facendo leva sui desideri e le percezioni individuali, inaugurano il modello antropologico ideale per la deregolamentazione capitalistica: un uomo senza vincoli, senza legami, preda di ideologie e leggi di mercato. Praticamente, il consumatore perfetto.
Un manifesto del PCI nel dopoguerra. Ed è tutta una letteratura a evidenziare come più l’individuo faccia parte di nuclei (famiglia, reti sociali, comunità politiche o religiose, morali condivise) meno consumi. I gruppi servono a prendersi cura, a riparare, a proteggere e consapevolizzare: quando cedono, cede un intero sistema.
Già questo è un tema cruciale per il tifo: l’identità, il campanilismo. La dinamica tribale da amico-nemico, le logiche di appartenenza, la difesa del territorio, la lotta per ciò che si rappresenta. La violenza. Gli ultras sono ultras del proprio campanile; sono duri, radicati, legati visceralmente ai propri luoghi, ai propri simboli, alla propria storia. Le curve si nutrono di queste esigenze umane, che la “sinistra” politica ha mandato in soffitta insieme a Marx. Fino al punto che oggi il radicamento, la difesa del proprio territorio, sembrano incompatibili con ciò che non sia “destra”.
Valerio Marchi: fine delle illusioni ed egemonia ultras della destra
In questo approfondimento ci viene in soccorso (rosso) Valerio Marchi (Roma, 1955 – Polignano a Mare, 2006), sociologo, protagonista e studioso delle sottoculture, straordinario analista del fenomeno ultras e riferimento imprescindibile per chiunque voglia approcciarsi a questo mondo. La sua, specifichiamo subito, è però una prospettiva militante che chi scrive, pur rispettando profondamente, non condivide in alcuni passaggi e molte premesse . . .
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