Intervista a Lamberto Ciabatti, autore di un libro da non perdere.
Un tratto indigeribile di un certo mondo ultras, che a parere di chi scrive ha moltissimo da offrire in termini umani e (sotto)culturali, o meglio un tratto indigeribile di una certa narrazione ultras è l’apologia tribale di un movimento, qualsiasi cosa faccia, che invece ha tante sfaccettature diverse, tante anime, tante storie nella storia; e che tanti errori ha commesso, soprattutto nel nuovo millennio. Un’accettazione acritica che non consente nemmeno di distinguere, di definire chi e cosa sia ultras o meno, con il rischio di accettare o sorvolare su qualsiasi deriva che, negli anni, ha inquinato e imbruttito questo mondo.
Così come è ancor più insopportabile il contrario, la condanna aprioristica del si dice borghese per cui gli ultras sarebbero dei teppisti, dei reietti senza valori, dei balordi preoccupati solo di sfogare i propri istinti più violenti. La verità è che, come insegna Dostoevskij, l’uomo non è solo qualcosa: buono o cattivo, intelligente o stupido, generoso o egoista. E umanità non ha solo un’accezione di senso positivo bensì significa tutto, bene e male e al di là del bene e del male. Questo è lo sfondo di significato che attraversa “Ultras. Ogni maledetta domenica vincere o perdere non conta“, il libro di Lamberto Ciabatti edito da SEM.
Personalmente ho conosciuto Lamberto circa un anno fa, da allora ci siamo parlati e visti più volte, sviluppando un rapporto che è partito dalla reciproca stima professionale per evolversi anche dal punto di vista umano. Già allora mi parlava di questo progetto, che ritenni subito straordinario: mettere insieme dodici storie di vecchi rappresentanti del mondo ultras italiano, figure di spicco delle rispettive curve soprattutto negli anni d’oro, che tramandassero in prima persona, e senza filtri, un patrimonio umano, sociale e culturale accumulato in anni di storia.
Personaggi di peso che non è semplice intercettare, figuriamoci far confessare. Il risultato è un volume che viaggia nella penisola, attraverso i gradoni, per raccontare il movimento ultras nei suoi anni d’oro ma anche un’altra Italia. Per non disperdere quel patrimonio umano di cui sopra che oggi, con lo sradicamento, la commercializzazione e la finanziarizzazione estrema del football, rischia di svanire rendendo il mondo ultras un involucro vuoto, funzionale al potere e privato del suo più profondo carattere alternativo e ribelle.
Innanzitutto una domanda di metodo. Da Ascoli a Bergamo, da Bari a Bologna, da Firenze alle due sponde di Milano. E poi ancora Juventus, Lazio, Palermo, Salernitana, Sampdoria. In questo libro ci sono le testimonianze di personaggi, capi ultras, che hanno scritto la storia del tifo. Come hai fatto a guadagnare la loro fiducia?
Per anni ho frequentato le curve, ma non da tifoso né da ultras, semplicemente da curioso. È un ambiente da cui sono sempre stato attratto e affascinato. Per scrivere questo libro sono quindi partito da una rete di amicizie e conoscenze che già avevo, per poi cercare di stabilire nuovi contatti e creare con ciascuno di loro un rapporto di fiducia. Fondamentale, in questo senso, è stato l’aiuto di alcuni mediatori, come Cesco (Viking Inter) e Massy (titolare della palestra The Game, di Genova). Con tutti ho da subito chiarito che il mio approccio non sarebbe stato giornalistico e che avrei sottoposto alla loro approvazione il mio racconto, a patto però che accettassero di raccontarsi senza filtri.
Parlando con vecchi tifosi, ho notato un atteggiamento ambivalente: da un lato vorrebbero trasmettere e non disperdere il loro patrimonio umano, dall’altro hanno un sentimento di distacco, sfiducia e chiusura e preferiscono non parlare. Ti sei imbattuto anche tu nello stesso contrasto?
Sì. Per alcuni di loro l’idea di raccontarsi è inammissibile. Altri hanno accettato di farlo consapevoli che il patrimonio di conoscenze e aneddoti di cui sono custodi rischierebbe, altrimenti, di andare disperso. In generale, nessuno dei protagonisti del libro parla a nome del gruppo di cui fa (o ha fatto) parte. Soltanto la Curva Sud Siberiano della Salernitana si è espressa in maniera compatta ed unitaria.
Tu racconti non solo un altro tifo, ma anche un’altra Italia: anni irripetibili, sui gradoni e nelle piazze. Se dovessi spiegare a un tifoso ventenne di oggi perché era un altro mondo, da cosa partiresti? Un aneddoto, un’immagine, una considerazione…
Primi anni ’80: gli ultras della Juventus si accorgono della straordinaria somiglianza dei biglietti di un cinema a luci rosse con quelli dello stadio e cominciano a comprarne a decine. Sulla superficie di ognuno di essi stampano i nomi delle squadre che ogni volta giocano garantendosi, così, mesi di ingressi allo stadio “a prezzi calmierati”. Alcuni ultras bianconeri hanno, quindi, indirettamente finanziato un cinema a luci rosse di Torino. Oggi tutto questo sarebbe impensabile. Essendo in quegli anni le forze dell’ordine impegnate nel fronteggiare l’emergenza terrorismo, gli stadi erano meravigliose zone franche in cui potersi esprimere liberamente.
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Ogni racconto, in questo libro, ha una sua cifra strutturale e stilistica. Come mai?
A parte alcuni tratti comuni (scrittura in prima persona e utilizzo del tempo presente, per aumentare in chi legge il grado di coinvolgimento), l’esigenza è stata quella di far aderire il più possibile il racconto ad ogni personaggio. Un’adesione che ho cercato di ottenere attraverso il linguaggio ed anche alcuni escamotage strutturali.
Fortemente legata al rione Trastevere, dove è nato e cresciuto, la narrazione di Yuri Alviti (storico ultrà della Lazio) si articola in paragrafi preceduti dall’indirizzo in cui la scena è ambientata. Il racconto di Stefano Sartoni invece (tifoso della Fiorentina per anni leader del Collettivo Autonomo Viola ed oggi responsabile commerciale di una importante agenzia funebre) cataloga episodi ed esperienze in base a un criterio cronologico, circoscrivendoli tra due date, inizio e fine, come quelle incise sulle lapidi.
Alcuni episodi sono raccontati dal punto di vista delle due tifoserie coinvolte: le tragiche storie di Ivan Dall’Olio e di Nazzareno Filippini, ad esempio. Cosa ti ha consentito di far emergere questa scelta narrativa?
Mi piaceva l’idea di un campo e di un controcampo, che, quasi come al cinema, permettessero di raccontare uno stesso fatto attraverso una doppia inquadratura. Da questa molteplicità di sguardi sono, tra l’altro, emersi dettagli inediti che, di quegli episodi, forniscono una interessante rilettura.
Spesso si identifica il mondo ultras con la violenza, in cui è certo più esplicita rispetto ad altri contesti ma da un certo punto di vista, quando rispetta determinati codici, a mio parere è più onesta. Che ne pensi? E non credi sia ora di superare definitivamente l’immediata associazione immediata ultras-violenza? Alla fine altri fenomeni sottoculturali, politici e metapolitici mica vengono descritti in questo mondo, malgrado spesso abbiano portato a scontri e violenze…
Il mio intento era proprio questo, cercare, attraverso le parole dei protagonisti, di far luce su un movimento che, soprattutto oggi, viene raccontato solo in base a cronache di scontri e carte processuali. Ho fatto quindi un modo di rappresentarlo nelle sue molteplici sfaccettature, compreso l’aspetto della violenza con cui a volte si manifesta. In generale, ogni ecosistema sociale ha al suo interno una componente di violenza, spesso psicologica, quindi meno eclatante, ma non per questo meno cruenta di quella fisica. Rispetto a tali altri contesti, il mondo ultras sconta una disparità di trattamento, dovuta alla immediata evidenza di alcune sue manifestazioni estreme.
Questo libro è potente perché non si muove in un recinto morale: non è né una condanna né un’apologia. È umano nel senso profondo del termine perché umanità, come ci insegnano grandi scrittori e filosofi, significa tutto. Volevi far emergere questo aspetto?
È senz’altro uno degli aspetti a cui tenevo di più. Tutto nasce dalla curiosità di conoscere e raccontare il mondo degli ultras, evitando ogni possibile forma di pregiudizio o idea preconcetta. Per riuscire davvero a comprenderlo credo sia necessario passare attraverso la complessità che lo caratterizza. Ogni altro tentativo rischia di essere semplicistico e per questo inattendibile.
Il libro evidenzia anche la creatività, lo spontaneismo, l’artigianalità che contraddistinguevano il tifo di qualche decennio fa. Raccontaci qualche episodio…
Ce ne sono tanti. Mi vengono in mente i laziali che, per superare i posti di blocco lungo la strada da Bologna a Roma, espongono sul parabrezza del pullman l’effige di Padre Pio. Scambiati per pellegrini, arrivano fino quasi allo Stadio dall’Ara prima che la paletta di un poliziotto faccia segno all’autista di accostare. Oppure tante coreografie meravigliose, come quella realizzata dalla Curva Fiesole che, con migliaia di cartoncini colorati, ha ricostruito la silhouette dei principali monumenti di Firenze. Una coreografia talmente suggestiva da indurre molti a credere che a idearla fosse stato il regista Franco Zeffirelli.
Quando, come e perché tante curve hanno smarrito il loro carattere sottoculturale? Si parla sempre di interessi, ma che una volta non c’erano gli interessi? Certo, oggi sono più forti, ma magari prima esistevano delle forze (nella società e nelle stesse curve) capaci di arginarli e contrastare determinate logiche. Non credi che il movimento ultras, negli anni, abbia anche perso la coscienza di sé e del proprio ruolo, e quindi rischi di corrompersi?
Non è facile rispondere. Telefonini e social hanno radicalmente trasformato il modo di andare allo stadio e vivere la partita. Anche le infiltrazioni criminali, diffuse ormai in ogni ambito della società, hanno contribuito alla trasfigurazione del tifo organizzato. Non so se questo significhi necessariamente perdita di un ruolo da parte del movimento ultras. Credo piuttosto che difficilmente si potrà tornare alle origini. La parola chiave è, forse, adeguamento. Cercare cioè di trasformarsi, compatibilmente con lo spirito dei tempi.
Una domanda scontata ma dovuta: avendo vissuto e “testimoniato” certi anni, credi ci sia ancora speranza per le curve? Magari nelle categorie minori, come dicono in molti? Posto che non è possibile replicare i fasti del passato, ma da studioso del fenomeno, quale credi che sarà l’evoluzione di questo mondo?
Credo che il futuro del movimento dipenda, in parte, da come lo stato deciderà di regolamentarlo. Se la strada continuerà ad essere quella della repressione, è possibile che di sottoculture ne nasceranno ben presto delle altre, ugualmente dirompenti e, per le forze dell’ordine, più difficili da contenere.
Dodici storie, storie di uomini in primo piano che si raccontano. C’è un filo conduttore? E cosa ti ha lasciato, più di tutto, scrivere questo libro?
Il filo conduttore è il tentativo di ricostruire la storia di un movimento sottoculturale che, solo nel nostro Paese, ha coinvolto milioni di persone, e, al contempo, la voglia di raccontare le città dei protagonisti negli anni in cui si collocano gli episodi narrati. Entrare nelle vite delle persone è sempre emozionante. Da questa esperienza porto con me un patrimonio straordinario di aneddoti e racconti e anche, soprattutto, molti nuovi amici.
Massimo Fini nella sua autobiografia, parlando dei suoi “avversari” più o meno politici, diceva: “ci siamo affrontati, abbiamo incrociato le spade, alla fine resta il rispetto umano”. Questo a maggior ragione vale per i vecchi (e veri) ultras. Ma non si potrebbe partire da qui, dalla fine, per federare un movimento che ha subito sconfitte storiche perché vittima del divide et impera?
Se il movimento riuscisse a compattarsi, una serie di rivendicazioni e battaglie di fatto comuni a tutti i gruppi potrebbero essere, rispetto ad oggi, portate avanti con maggiore efficacia e determinazione. Al momento, però, le rivalità sono in alcuni casi talmente profonde da far considerare questa eventualità solo come un miraggio. Spero, ovviamente, di essere smentito.